Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 5 -2010 - © copyright

 

GIAMMARCO SIGISMONDI

Osservazioni alle disposizioni sulle impugnazioni, nello schema di decreto legislativo con un ‘codice’ del processo amministrativo*


La disciplina delle impugnazioni nel processo amministrativo (cui è dedicato il Libro terzo del progetto di Codice del processo amministrativo, artt. 91-111) interviene in un ambito nel quale le lacune della normativa fino a oggi in vigore sono molto evidenti.
Le disposizioni della legge processuale amministrativa dedicate ai giudizi d’impugnazione sono infatti disorganiche e incomplete: disorganiche, perché limitate all’appello al Consiglio di Stato e alla revocazione[1], mentre mancano del tutto disposizioni di carattere generale; incomplete perché la disciplina dei singoli mezzi d’impugnazione espressamente presi in considerazione dal legislatore è circoscritta a poche previsioni normative, tutt’altro che esaustive: gli artt. 28 2°, 4° e 5° comma, 29 1° e 4° comma; 34 e 35 l. 6 dicembre 1971, n. 1034 per l’appello al Consiglio di Stato e gli artt. 46 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, 28 1° comma e 36 l. n. 1034/1971 per la revocazione (in quest’ultimo caso attraverso un rinvio impreciso alle disposizioni degli artt. 395 e 396 c.p.c.), cui si aggiungono gli artt. 81-86 r.d. 17 agosto 1907, n. 642.
Di conseguenza la disciplina delle impugnazioni nel processo amministrativo è attualmente il risultato della sintesi tra le poche disposizioni espresse, le disposizioni del r.d. n. 1054/1924 e del r.d. n. 642/1907 applicabili in quanto richiamate dall’art. 29 1° comma l. n. 1034/1971, ma in realtà strutturate rispetto a un giudizio nel quale il Consiglio di Stato era giudice in grado unico (con tutta una serie di problemi di coordinamento), le disposizioni del codice di procedura civile sulle impugnazioni in generale (Libro II, Titolo III, Capo I, artt. 323-338 c.p.c.) e alcune disposizioni specifiche del codice di procedura civile, la cui applicabilità al processo amministrativo è stata ritenuta necessaria per colmare evidenti lacune nella disciplina dei singoli mezzi di impugnazione.
In un contesto del genere emerge in modo evidente il ruolo centrale svolto dalla giurisprudenza (e, per comprensibili ragioni, dal Consiglio di stato in particolare) nel delineare i contorni del rito processuale: sia l’applicazione delle disposizioni dettate per il ricorso al Consiglio di Stato in grado unico, sia (e ancor di più) i richiami a principi e disposizioni del codice di procedura civile sono stati infatti mediati dall’attività interpretativa del giudice, che in molti casi ha proposto letture filtrate dalla (supposta) necessità di rispettare esigenze e principi del processo amministrativo, secondo una prospettiva che ha spesso condotto a delineare una disciplina degli istituti del tutto peculiare (si pensi all’ampiezza del giudizio d’appello al Consiglio di Stato rispetto all’appello civile, nel quale sono previsti limiti ben più rigorosi alla legittimazione ad appellare e all’intervento nel giudizio) e a risultati applicativi divergenti rispetto a quelli conseguiti dal giudice ordinario nell’applicazione delle stesse norme (emblematico il caso delle impugnazioni incidentali e dell’applicazione degli artt. 333 e 334 c.p.c.), fino ad arrivare a configurare veri e propri istituti pretori (è il caso, già ricordato, dell’opposizione di terzo rispetto alle sentenze di primo grado non passate in giudicato).

Questi pochi esempi sono sufficienti a rendere in modo chiaro il quadro nel quale si è trovato a operare il legislatore delegato: da un lato la lacunosità della normativa positiva lasciava ampie possibilità d’intervento; dall’altro, però, era necessario confrontarsi con i risultati del lavoro interpretativo della giurisprudenza, e quindi con quelle peculiarità che le impugnazioni nel processo amministrativo avevano assunto nel corso del tempo, per stabilire quali di questi orientamenti avrebbero dovuto trovare conferma nel diritto positivo e quali, invece, sarebbero stati destinati a essere abbandonati.
A questo si aggiungeva l’esigenza di dettare disposizioni che non risultassero appiattite sul modello del giudizio impugnatorio o strettamente funzionali a esso, ma che fossero adeguate all’intenzione di delineare un giudizio amministrativo nell’ambito del quale il tradizionale schema di tutela fosse solo una delle declinazioni possibili.
Sullo sfondo, infine, restava il problema relativo ai rapporti con la disciplina del codice di procedura civile, che costituisce un modello di riferimento completo e collaudato, le cui disposizioni (e in particolar modo quelle dedicate alle impugnazioni generale), fino a oggi, hanno tendenzialmente trovato applicazione anche nel processo amministrativo.

La preferenza del legislatore delegato si è indirizzata nel senso di predisporre una disciplina il più possibile completa: non solo, quindi, sono stati compiutamente disciplinati i singoli mezzi di impugnazione previsti (appello, revocazione, opposizione di terzo e ricorso per cassazione secondo l’elencazione dell’art. 91 del progetto), ma sono stati anche predisposti una serie di articoli dedicati alle impugnazioni in generale.
Si tratta di una scelta coerente con l’ambizione dichiarata di predisporre «un “codice processuale” che si colloca a fianco dei quattro codici fondamentali dell’ordinamento italiano (civile, penale, di procedura civile, di procedura penale)»[2], ma che probabilmente non sarebbe stata necessaria: le disposizioni del codice di procedura civile relative alle impugnazioni in generale, infatti, come ricordato, costituivano già un termine di riferimento essenziale per la disciplina delle impugnazioni nel processo amministrativo; le uniche eccezioni significative, che riguardano gli artt. 333 e 334 c.p.c. sulle impugnazioni incidentali[3] e – almeno secondo un certo orientamento interpretativo – l’art. 331 c.p.c. (ma solo relativamente al problema del litisconsorzio necessario dal lato attivo dell’impugnazione)[4], non sono oggetto di un’interpretazione univoca da parte della giurisprudenza, e probabilmente gli indirizzi contrari all’applicazione di tali norme si fondano su letture del dato positivo in parte discutibili[5]. Le disposizioni in questione, d’altra parte, si adattano perfettamente anche a un giudizio strutturato secondo uno schema impugnatorio, schema che non è del tutto estraneo alla realtà del processo civile e che, tra l’altro, caratterizza il ricorso per cassazione.
In ogni caso, il percorso seguito riproduce a grandi linee (anche se in modo meno strutturato rispetto alla disciplina del processo civile[6]) quello delineato dal codice di procedura civile, pur con alcune differenze significative.

Per quanto riguarda la disciplina dei termini per le impugnazioni ordinarie (art. 92 commi 1, 3 e 4) è confermato il termine di sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza, mentre il termine di decadenza dall’impugnazione è di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, conformemente a quanto ora stabilito dall’art. 327 c.p.c. L’art. 92, comma 4, infine, trova una corrispondenza diretta nell’art. 327, 2° comma, c.p.c.
Qualche perplessità può sorgere rispetto al termine per proporre l’opposizione di terzo ordinaria: è noto infatti che nel processo civile tale mezzo d’impugnazione non è soggetto ad alcun termine[7]; dalla lettura coordinata dei commi 1 e 3 dell’art. 92 del progetto sembra invece che l’opposizione di terzo ordinaria sia soggetta al termine breve di sessanta giorni nel caso che la sentenza sia stata notificata alla parte legittimata a proporre l’impugnazione, mentre non sia soggetta ad alcun termine se la sentenza non sia stata notificata (il comma 1, diversamente dall’art. 325 c.p.c., contiene un riferimento generico a tutti i mezzi d’impugnazione, salve le eventuali eccezioni previste da speciali disposizioni di legge: di conseguenza l’opposizione di terzo ordinaria pare compresa nell’ambito di applicazione della norma).
Questa soluzione corrisponde effettivamente a quanto suggerito da una parte della dottrina che si è occupata del problema[8], dottrina attenta soprattutto alla necessità di coordinare gli effetti dell’opposizione di terzo con le sorti di un eventuale provvedimento amministrativo assunto in esecuzione della sentenza impugnata. Tuttavia, anche se non è questa la sede per affrontare una problematica tanto delicata[9], a mio giudizio occorre considerare almeno due questioni non secondarie: la prima è che una conclusione del genere introduce una disparità di trattamento rispetto alla disciplina del processo civile, soprattutto nel caso che le situazioni giuridiche soggettive coinvolte nel giudizio che si è concluso con la sentenza oggetto dell’opposizione siano di diritto soggettivo (e quindi nel caso di controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo). Resta pertanto da capire quanto questa disparità di trattamento sia giustificata o giustificabile sulla base della discrezionalità del legislatore; in secondo luogo la giurisprudenza risulta orientata nel senso di ritenere applicabile all’opposizione di terzo ordinaria il termine di decadenza di sessanta giorni, decorrente dalla data della notificazione o della piena conoscenza della sentenza, ma solo nel caso che la situazione giuridica soggettiva lesa dalla sentenza resa nel giudizio cui il terzo era rimasto estraneo sia di interesse legittimo[10]. Di conseguenza, se si vuole effettivamente confermare la scelta di assoggettare l’opposizione di terzo al termine breve di decadenza, sarebbe auspicabile una maggior chiarezza espositiva, per esempio distinguendo le due ipotesi e sottoponendo al termine di decadenza la sola opposizione di terzo ordinaria che riguardi la lesione di situazioni giuridiche di interesse legittimo, conformemente all’indirizzo interpretativo espresso dalla giurisprudenza, oppure includendo espressamente l’opposizione di terzo ordinaria nei mezzi d’impugnazione soggetti al termine breve di decadenza, precisando che tale regola si applica indipendentemente dalla situazione giuridica dedotta in giudizio.
La disciplina dei termini degli altri mezzi di impugnazione straordinari (art. 92, comma 2), invece, riproduce pressoché alla lettera quella predisposta dall’art. 326 c.p.c.

Per quanto riguarda il luogo di notificazione dell’impugnazione, l’art. 93, comma 1, riproduce la disciplina dell’art. 330, 1° comma, c.p.c., mentre il comma 2, che non ha riscontro nella disciplina del codice di procedura civile, recepisce un orientamento interpretativo affermatosi in giurisprudenza[11] secondo cui può essere concessa la rimessione in termini nel caso che la notificazione dell’impugnazione, tempestivamente effettuata nei luoghi stabiliti dall’art. 330 c.p.c., non sia andata a buon fine per un cambiamento nell’indirizzo del domiciliatario che sia intervenuto senza che la controparte ne abbia ricevuto formale comunicazione.
Non trovano invece corrispondenza né le disposizioni dell’art. 330, 2° e 3° comma c.p.c., né gli artt. 329 e 336 c.p.c. sull’acquiescenza e sugli effetti della sentenza pronunciata all’esito del giudizio di impugnazione (effetto espansivo interno ed effetto espansivo esterno). Il senso di tali omissioni può far sorgere qualche perplessità: per quanto riguarda l’acquiescenza e l’effetto espansivo non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che si tratti di principi applicabili anche al processo amministrativo[12]; per quanto riguarda le modalità di notificazione dell’impugnazione agli eredi, invece, il discorso è più complesso: la norma infatti introduce un’eccezione alla regola generale per evitare che la morte della controparte esponga l’impugnante a complicate e non sempre immediate ricerche per individuare correttamente i successori cui notificare l’impugnazione. Considerato che l’art. 330 c.p.c. è attualmente applicabile al processo amministrativo in base al richiamo compiuto dall’art. 28, 2° comma, l. n. 1034/1971, che l’art. 93, comma 1, del progetto corrisponde esattamente all’art. 330, 1° comma, c.p.c. e che nel progetto di Codice sono state riprodotte anche disposizioni del codice di procedura civile di carattere molto più generale si potrebbe pensare a una scelta deliberata. In questo caso, però, si tratterebbe di una scelta che modifica la disciplina in vigore, per cui sarebbe stato auspicabile un chiarimento [quantomeno nella Relazione al Libro III (Impugnazioni) che accompagna il progetto di Codice]. Il fatto che un riferimento del genere manchi del tutto fa quindi propendere per un semplice difetto di coordinamento.

Le maggiori differenze rispetto al sistema delle impugnazioni in generale delineato dal codice di procedura civile si riscontrano negli artt. 95, 96 e 97 del progetto. Si tratta di disposizioni che per certi aspetti delineano un quadro peculiare e sono in gran parte riconducibili a orientamenti giurisprudenziali che, nel sistema attuale, hanno proposto soluzioni interpretative autonome rispetto all’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile. Ciò non significa che tali orientamenti siano stati pienamente recepiti e trasposti nel diritto positivo. È innegabile, però, che chi ha elaborato il progetto di Codice ne ha tenuto conto.
Nel predisporre la disciplina del contraddittorio nel giudizio d’impugnazione (contenuta nell’art. 95 del progetto, la cui rubrica fa però, e forse in modo fuorviante, riferimento alle parti del giudizio d’impugnazione) non è seguito il modello del codice di procedura civile, che distingue nettamente tra impugnazione proposta in cause inscindibili (art. 331 c.p.c.) e impugnazione proposta in cause scindibili (art. 332). Le ragioni della scelta compiuta nel codice di procedura civile sono evidenti, dal momento che si tratta di due situazioni che danno luogo a problematiche differenti: nel caso di impugnazione proposta in cause inscindibili vi è un problema di integrazione del contraddittorio, ed è per questo che l’art. 331 impone che l’impugnazione sia notificata a tutte le parti necessarie entro un termine che deve essere rispettato a pena di inammissibilità dell’impugnazione già proposta; se la causa è scindibile, invece, in linea teorica vi è soltanto un problema di concentrazione delle impugnazioni: alcune delle parti soccombenti potrebbero accettare la sentenza senza che questo abbia conseguenza sul giudizio di impugnazione nel frattempo instaurato e, allo stesso modo, l’impugnazione potrebbe essere proposta nei confronti di alcune soltanto delle parti del giudizio di primo grado.
Tuttavia, in una situazione del genere alcune delle parti soccombenti potrebbero anche decidere di proporre autonomamente la propria impugnazione in un separato giudizio, oppure la parte soccombente, dopo aver impugnato la sentenza nei confronti di una delle controparti, potrebbe decidere di proporre successivamente e in un separato giudizio una seconda impugnazione nei confronti delle altre controparti (o di una delle altre, e così via). Ma questa eventualità è proprio ciò che il modello delineato dal codice di procedura civile, che si ispira al principio di concentrazione delle impugnazioni relative alla stessa sentenza, vuole evitare, ed è per questa ragione che è imposto l’onere di notificare l’impugnazione già proposta a tutte o nei confronti di tutte le parti del giudizio conclusosi con la sentenza impugnata. Questo onere costringe infatti la parte soccombente che intenda proporre la propria impugnazione anche nei confronti delle altre controparti a farlo nell’ambito del processo d’impugnazione già pendente; e questo stesso onere, coordinato con la previsione dell’art. 333 c.p.c., che impone alle parti che abbiano ricevuto la notificazione dell’impugnazione principale (non importa se parti necessarie o meno del giudizio, e quindi se in applicazione dell’art. 331 o 332 c.p.c.) di proporre (a pena di decadenza) le proprie impugnazioni in via incidentale nello stesso processo, consente inoltre di raggiungere il risultato di concentrare nello stesso processo anche le impugnazioni che altrimenti potrebbero essere proposte separatamente dalle altre parti soccombenti.
In questa prospettiva si comprende anche per quale ragione l’art. 332 c.p.c. non stabilisce che l’impugnazione sia notificata alle altre parti a pena di inammissibilità, ma prevede soltanto che nel caso di mancata notificazione il processo resti sospeso fino a quando non siano decorsi i termini per impugnare la sentenza: se alcune delle parti decidono di fare acquiescenza, o se la parte soccombente decide di contestare l’assetto di interessi definito dalla sentenza impugnata soltanto nei confronti di alcune delle controparti accettando la propria soccombenza nei confronti delle altre non è un problema, dal momento che la causa è scindibile.
Questa logica non è stata condivisa dal progetto di Codice.
L’art. 95, nell’affrontare il problema (commi 1, 3 e 4) non distingue infatti tra cause inscindibili e cause scindibili, ma imposta la disciplina sulla nozione di parte (e si ha l’impressione che vada sottinteso «necessaria»[13]) del giudizio d’impugnazione, stabilendo una regola comune che prevede l’onere di notificare l’impugnazione, nel termine stabilito dal giudice, a tutte le parti stabilite dal comma 1, a pena di improcedibilità. E tali parti sono tutte le parti in causa nel caso che l’impugnazione sia proposta nei confronti di una sentenza resa all’esito di una causa inscindibile e le sole parti che hanno interesse a contraddire negli altri casi.
Tuttavia, se è chiara la ragione della prima previsione (l’onere di notificazione dell’impugnazione è una conseguenza diretta del carattere inscindibile della causa, che comporta la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutte le parti in causa) non lo è affatto (o quantomeno non lo è in modo intuitivo) quella della seconda: in altre parole non si comprende immediatamente perché se la causa non è inscindibile sia previsto un onere di integrazione del contraddittorio (stabilito, oltretutto, a pena di improcedibilità dell’impugnazione già proposta), e sia imposto nei soli confronti delle parti interessate a contraddire.
Il senso della disposizione si può forse intuire leggendo quanto riportato nella Relazione al Libro III del progetto di Codice, dove si precisa che «nei casi in cui il ricorso di primo grado sia stato proposto da una pluralità di ricorrenti che potevano agire separatamente e che siano rimasti soccombenti, la riproposizione della pretesa di primo grado, da parte di alcuni di essi, comporta l’onere di notificazione dell’impugnazione alla sola parte vincitrice, e non anche agli altri soccombenti che non abbiano impugnato». Se questa è effettivamente la fattispecie che ha ispirato la norma si comprende prima di tutto come il modello di giudizio presupposto da chi ha elaborato il progetto di Codice sia rimasto legato all’idea di un processo amministrativo normalmente strutturato attorno allo schema dell’impugnazione del provvedimento amministrativo illegittimo. E questo, in un certo senso, contraddice con l’intenzione dichiarata (e già ricordata) di predisporre disposizioni davvero generali (e quindi non modellate esclusivamente attorno a un determinato schema di giudizio). Ma, soprattutto, si comprende anche come la disposizione sia il frutto di un equivoco. Per spiegarlo occorre intendersi sul senso di alcune nozioni utilizzate dall’art. 95, comma 1 del progetto: in altre parole è necessario chiarire cosa volesse (presumibilmente) intendere chi ha predisposto il progetto di Codice quando ha fatto riferimento alla nozione di «cause inscindibili» e agli «altri casi» che giustificano la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti delle parti che hanno interesse a contraddire. Partendo dal presupposto (dichiarato) che la norma è stata formulata con riguardo a una fattispecie particolare, che può ora realizzarsi nel caso di giudizio impugnatorio instaurato contestualmente in primo grado da più soggetti che avrebbero potuto agire anche separatamente (e la cui posizione processuale è effettivamente scindibile, soprattutto se sono divisibili gli effetti del provvedimento impugnato o se sono impugnati provvedimenti diversi, per quanto connessi e purchè non dipendenti), le parti che hanno interesse a contraddire che sembra logico debbano essere messe nelle condizioni di partecipare anche al giudizio d’impugnazione sembrano ridursi ai controinteressati in senso solo sostanziale, interventori ad opponendum nel giudizio di primo grado sulla base di un intervento volontario o disposto dal giudice (secondo quanto consentito dall’art. 28, comma 3, del progetto): è scontato infatti che i soggetti controinteressati parti necessarie del giudizio di primo grado debbano essere messi in condizione di partecipare anche al giudizio d’impugnazione (la causa, rispetto alla loro posizione, è senz’altro inscindibile); meno scontata, almeno secondo chi ha predisposto il progetto, deve essere invece apparsa l’applicazione di questa stessa regola ai soggetti interessati a contraddire che non fossero tuttavia parti necessarie, tanto è vero che si è avvertita la necessità di introdurre una previsione in tal senso (che è esattamente ciò che fa il secondo periodo dell’art. 95, comma 1 del progetto). Se le cose stanno in questo modo, tuttavia, l’equivoco probabilmente sta nel fatto di aver inteso la nozione di causa inscindibile come circoscritta alla situazione in cui, nel giudizio conclusosi con la sentenza oggetto dell’impugnazione, sussistesse un litisconsorzio necessario e nell’aver considerato parti necessarie del giudizio d’impugnazione, in ragione dell’inscindibilità della causa, le sole parti necessarie del giudizio di primo grado. Ma il punto è proprio questo: la nozione di causa inscindibile, ai fini del giudizio di impugnazione, non è circoscritta all’ipotesi in cui la sentenza impugnata sia stata pronunciata in una situazione di litisconsorzio necessario. Questa circostanza è un dato acquisito nella disciplina delle impugnazioni nel processo civile, dove non vi è alcun dubbio sul fatto che tra art. 102 c.p.c. e art. 331 c.p.c. non vi sia un paralellismo perfetto, e che quest’ultima norma riguarda anche le cause inscindibili che non danno luogo a litisconsorzio necessario[14]. E in questo senso la circostanza che l’art. 95, comma 1, primo periodo, del progetto, nel configurare l’onere di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le parti in causa faccia riferimento alla sola ipotesi di cause inscindibili e non anche a quella di cause dipendenti – che può a prima vista apparire come un difetto di coordinamento (o una semplice svista) nella redazione del progetto di Codice – denota invece una non perfetta comprensione di tutte le problematiche correlate alla fattispecie presa in considerazione.
In altre parole, quindi, nella fattispecie che ha ispirato chi ha compilato il progetto di Codice la causa, scindibile dal lato attivo dell’azione, non lo è affatto dal lato passivo. E questo avrebbe comunque giustificato l’onere di integrazione del contraddittorio anche nei confronti dei soggetti interessati a contraddire non parti necessarie del giudizio di primo grado, anche in mancanza di una specifica previsione, ulteriore rispetto all’art. 95, comma 1, primo periodo.
Ciò significa che la previsione dell’art. 95, comma 1, secondo periodo, è in realtà superflua.
Nella prospettiva di una disciplina ispirata al principio di concentrazione delle impugnazioni – principio che avrebbe dovuto guidare il legislatore delegato, secondo le indicazioni contenute nell’art. 44, comma 2, lett. g) l. 18 giugno 2009, n. 69 – non sarebbe invece stato superfluo prendere in considerazione l’ipotesi in cui l’impugnazione sia stata proposta in cause scindibili, analogamente a quanto previsto dall’art. 332 c.p.c., dal momento che anche in una situazione del genere si presenta l’esigenza di garantire la concentrazione delle impugnazioni nello stesso processo.
Le ulteriori disposizioni dell’art. 95 del progetto non comportano invece particolari problemi: il comma 2 – secondo cui ai fini della regolare instaurazione del giudizio è sufficiente la notificazione dell’impugnazione ad almeno una delle controparti (salva la successiva ed eventuale integrazione del contraddittorio) – ribadisce una regola già chiarita dalla giurisprudenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato[15], mentre il comma 4 – che trova una corrispondenza, per quanto riguarda il giudizio di primo grado, nell’art. 49 del progetto – risulta essere chiaramente ispirato a esigenze di economia processuale (per quanto possa apparire in linea di principio discutibile la scelta di consentire una pronuncia anche in presenza di un contraddittorio imperfetto).
Il secondo ambito di disciplina nel quale è possibile riscontrare un significativo scostamento rispetto alle disposizioni che regolano le impugnazioni nel processo civile – quantomeno nella formulazione testuale delle norme – è quello delle impugnazioni proposte contro la medesima sentenza (art. 96 del progetto).
L’articolo in questione affronta una delle problematiche più controverse del sistema delle impugnazioni nel processo amministrativo: quello delle impugnazioni incidentali. Su questo punto la giurisprudenza amministrativa è infatti tuttora divisa: un orientamento (ora minoritario) applica integralmente il sistema delineato dalle disposizioni del codice di procedura civile (e quindi gli artt. 333, 334 e 335 c.p.c. in particolare, ma anche i precedenti artt. 331 e 332 c.p.c., le cui previsioni si integrano con quelle delle disposizioni successive), imponendo alle parti che ricevono la notificazione dell’impugnazione principale di proporre la propria impugnazione nelle forme e nei termini dell’impugnazione incidentale, a pena di decadenza, nell’ambito del giudizio già pendente, salva la possibilità, nei casi e alle condizioni previste dall’art. 334 c.p.c., di proporre l’impugnazione incidentale anche se il termine per impugnare in via principale sia ormai decorso o sia stata fatta acquiescenza (in questo caso, però, l’efficacia dell’impugnazione incidentale resta subordinata a quella dell’impugnazione principale); l’orientamento maggioritario, invece, pur richiamandosi formalmente all’art. 333 c.p.c. (che è comunque ritenuto applicabile al processo amministrativo) ne propone una lettura del tutto particolare, perché da un lato sostiene la necessità di distinguere, ai fini dell’individuazione del termine per proprorre l’impugnazione, tra impugnazioni incidentali in senso proprio (o controimpugnazioni) e impugnazioni incidentali in senso improprio (o autonome), che essendo sorrette da un autonomo interesse a impugnare avrebbero potuto essere proposte anche in via principale e che pertanto devono essere comunque proposte – anche se in via incidentale nell’ambito di un giudizio già pendente – entro il termine per impugnare in via principale, e dall’altro lato considera sostanzialmente equivalente che la proposizione dell’impugnazione incidentale autonoma avvenga nell’ambito del giudizio di impugnazione già pendente o separatamente in un autonomo giudizio (salva la necessità di disporre la riunione ai sensi dell’art. 335 c.p.c.). Questo stesso orientamento, inoltre, ritiene la previsione dell’art. 334 c.p.c. non compatibile con le esigenze del processo amministrativo di legittimità[16].
In una materia caratterizzata da un quadro giurisprudenziale così controverso la disciplina predisposta dall’art. 96 del progetto costituisce un indubbio passo avanti: la norma, infatti, è dichiaratamente ispirata alle previsioni degli articoli 333, 334 e 335 c.p.c.[17] e supera molti degli orientamenti restrittivi rispetto all’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile seguiti dalla giurisprudenza oggi prevalente. Tra i suoi meriti vi è senza dubbio quello di chiarire alcuni punti che sono, o sono stati in passato, controversi: è ribadita la possibilità di impugnare anche capi autonomi della sentenza con l’impugnazione incidentale; è affermata (contrariamente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza prevalente) la possibilità di proporre impugnazioni incidentali tardive, la cui disciplina è largamente ispirata alle previsioni dell’art. 334 c.p.c. (anche se non è del tutto chiaro il senso del richiamo alla disposizione del codice di procedura civile, e in particolare se le parti ammesse a proporre le proprie impugnazioni incidentali anche tardivamente siano solo quelle indicate dall’art. 334 c.p.c.[18]).
Non mancano, tuttavia, alcune ambiguità: resta infatti da capire se si sia voluta introdurre una disciplina effettivamente ispirata al principio di concentrazione delle impugnazioni. Una scelta in questo senso sembra presupposta e confermata dall’art. 96, comma 1, dove è previsto l’obbligo («devono») di riunire tutte le impugnazioni proposte contro la stessa sentenza. In questo la norma corrisponde all’art. 335 c.p.c. Ma tutto torna in discussione con il comma 2, che considera la proposizione delle impugnazione incidentali una semplice possibilità: se anche vien fatto riferimento agli artt. 333 e 334 c.p.c., infatti, la distanza tra il sistema delineato dall’art. 96 e il sistema del codice di procedura civile è profonda: da una parte, infatti, è stabilito che «possono essere proposte impugnazioni incidentali», lasciando intendere che la parte possa comunque proprorre la propria impugnazione anche autonomamente in un separato giudizio (sarà poi eventualmente il giudice a dover disporre la riunione). In questa prospettiva, pertanto, impugnazione incidentale e impugnazione principale continuano a essere stumenti equivalenti e alternativi; nel processo civile, invece, è imposto a tutte le parti che ricevano la notificazione dell’impugnazione principale di proporre le proprie impugnazioni in via incidentale nello stesso processo, a pena di decadenza: l’eventualità di impugnazioni proposte in via autonoma in un separato giudizio (che non siano sanzionabili in conseguenza del mancato rispetto dell’obbligo imposto dall’art. 333 c.p.c.) è quindi circoscritta alle ipotesi in cui ciascuna delle parti parzialmente soccombenti abbia impugnato autonomamente la sentenza prima che le fosse notificato l’atto d’impugnazione della controparte, o al caso che due litisconsorti necessari soccombenti in primo grado propongano la propria impugnazione all’insaputa l’uno dell’altro.
La situazione non è chiarita del tutto nemmeno dall’art. 96, comma 6, che stabilisce che «in caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza la decisione di una delle impugnazioni non determina l’improcedibilità delle altre», anche se la norma, soprattutto se letta assieme alla Relazione al Libro III che accompagna il progetto di Codice, può fornire qualche indicazione utile.
La previsione corrisponde infatti a quanto sostenuto da una parte della dottrina con riguardo alla sorte delle impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza (naturalmente dalle parti che non abbiano ricevuto la notificazione dell’impugnazione incidentale, le quali, diversamente, incorrerebbero nella sanzione prevista dall’art. 333 c.p.c.[19]) nel caso che non ne sia stata disposta la riunione secondo quanto previsto dall’art. 335 c.p.c.[20]. E questa circostanza, unita al fatto che la norma fa riferimento alle sole impugnazioni «ritualmente» proposte, farebbe propendere per una lettura che considera sanzionabili tutte le altre ipotesi[21].
Il punto sta quindi nell’intendersi sul significato dell’avverbio «ritualmente», che definisce una modalità che per prassi viene riferita agli atti compiuti nel rispetto delle norme processuali, ma che secondo questa accezione non appartiene al linguaggio tecnico del processo: si tratta comunque di un significato che presuppone la possibilità di individuare precise disposizioni che stabiliscono specifiche modalità per il compimento di determinati atti e che prevedono sanzioni nel caso di inosservanza di quanto prescritto. In questa prospettiva la Relazione al Libro III aiuta l’interprete, perché vi si legge che, secondo i redattori del testo, le impugnazioni proposte ritualmente cui fa riferimento l’art. 96, comma 6, del progetto sarebbero quelle proposte «senza che alla parte impugnante fosse stata previamente notficata l’impugnazione dell’altra parte o delle altre parti». Questa precisazione, unita al richiamo della decadenza prevista dall’art. 333 c.p.c. nella quale incorrerebbe la parte che non osservi l’onere di proporre la propria impugnazione in via incidentale nello stesso processo, fa capire che il modello cui ha voluto far riferimento chi ha redatto il progetto di Codice fosse proprio quello ispirato al principio di concentrazione delle impugnazioni che caratterizza il sistema delle impugnazioni nel processo civile.
Chiarito questo aspetto, resta spazio per alcune considerazioni: la prima è che nonostante le intenzioni dichiarate dalla Relazione nel testo dell’art. 96 (e nel comma 2 in particolare) manca un riferimento espresso alla necessità di proporre tutte le impugnazioni successive alla prima in via incidentale nello stesso processo e a sanzioni per il caso che tale obbligo non sia rispettato; la seconda è che se anche alla sussistenza di tale obbligo si può giungere in via interpretativa (e ignorando un dato letterale significativo, quale quello del comma 2, che utilizza il modale «possono» invece di «devono»), il fatto stesso di dover percorrere questa via rispetto a una disposizione tanto importante – in quanto relativa a un problema in relazione al quale i contrasti giurisprudenziali sono stati notevoli – e nell’ambito di un progetto di codificazione che si proponga di predisporre una disciplina organica, completa e chiara del processo amministrativo non è certo un buon risultato. O quantomeno è un risultato che suggerisce di adeguare la formulazione della norma nella stesura definitiva del Codice, superandone le ambiguità; la terza è che, comunque sia, la concentrazione delle impugnazioni, nel processo civile, è un risultato che non è perseguito solo con le disposizioni poste dagli artt. 333-335 c.p.c., ma anche con quanto stabilito dai precedenti artt. 331-332 c.p.c. In questo senso la circostanza che una delle due norme sia stata del tutto ignorata da chi ha elaborato il progetto di Codice e che rispetto alla fattispecie disciplinata dall’art. 332 c.p.c. (impugnazione relativa a cause scindibili) si sia optato per una disciplina che, come si è visto, non va nella direzione della garanzia della concentrazione delle impugnazioni dimostra una volta di più che, probabilmente, le problematiche implicate non sono state percepite fino in fondo. Ciò non significa che la concentrazione di tutte le impugnazioni relative alla stessa sentenza in un solo processo sia un obiettivo da perseguire a tutti i costi, ma soltanto che, una volta dichiarato che si tratta di un obiettivo primario [come sembra dalla lettura della Relazione al Libro III, e come avrebbe dovuto essere sulla base dell’art. 44, comma 2, lett. g) l. n. 69/2009], è opportuno che venga perseguito in modo coerente.
In questo senso, quindi, sarebbe forse auspicabile una revisione integrale della formulazione degli artt. 95 e 96 nella stesura definitiva del Codice, eventualmente riprendendo – come è avvenuto per altri profili riguardanti la disciplina delle impugnazioni in generale – quasi letteralmente la disciplina del codice di procedura civile, ferma restando l’opportunità di precisare alcuni aspetti che sono stati fonte di incertezze interpretative[22].
L’art. 97 del progetto consente infine l’intervento nel giudizio di impugnazione a chiunque vi abbia interesse, confermando l’orientamento largamente dominante nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ammette l’intervento nel giudizio d’appello con maggior ampiezza di quanto stabilito dalle disposizioni del codice di procedura civile. Questa soluzione, che assieme a quella riguardante la legittimazione ad appellare ha consentito in passato di superare alcuni limiti della legge processuale amministrativa (primo tra tutti la mancanza del rimedio costituito dall’opposizione di terzo, almeno fino all’intervento della Corte costituzionale del 1995), è stata quindi mantenuta anche nell’ambito del sistema delle impugnazioni delineato dal Libro terzo del progetto. Non solo, però: l’intervento è oggi ammesso anche nel giudizio che decide sull’istanza di revocazione e sull’opposizione di terzo.
La scelta, relativamente alla possibilità di intervento nel giudizio d’appello, lascia perplessi: innanzi tutto perché l’intervento nel giudizio di impugnazione non costituisce più uno strumento essenziale per la tutela di soggetti che resterebbero altrimenti estranei al giudizio, considerato che il sistema delle impugnazioni nel processo amministrativo comprende ora l’opposizione di terzo; in secondo luogo perché è vero che la soluzione si pone in una linea di continuità con la giurisprudenza precedente e che l’incidenza sul principio del doppio grado di giudizio – se si ragiona nella logica del tradizionale giudizio amministrativo di legittimità – è tutto sommato modesta[23]; ma è vero anche che non appena si abbandona questa logica la prospettiva cambia radicalmente: si pensi a un intervento adesivo autonomo; in questo caso la pronuncia sulla pretesa dedotta con l’intervento (per quanto connessa con l’oggetto o dipendente dal titolo dedotto con la causa principale) sarebbe resa in grado unico.

Le ultime due disposizioni del Titolo dedicato alle impugnazioni in generale riguardano le misure cautelari (art. 98) e la possibilità di deferire all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato la decisione di una questione controversa o di particolare importanza (art. 99).
Si tratta di disposizioni che non pongono particolari problemi interpretativi: la possibilità di sospendere in via cautelare l’esecuzione della sentenza impugnata era già stabilita, relativamente al giudizio d’appello, dall’art. 33, 2° comma, l. n. 1034/1971. Questa possibilità è ora estesa a tutti i mezzi di impugnazione (ricorso per cassazione escluso, dal momento che è predisposta una disciplina specifica dall’art. 111 del progetto di Codice), analogamente a quanto previsto dal codice di procedura civile (rispettivamente agli artt. 283 c.p.c per l’appello, 401 c.p.c. per la revocazione e 407 c.p.c. per l’opposizione di terzo). La norma, peraltro, contiene alcune novità significative: in primo luogo la formulazione attuale non fa riferimento alla possibilità di sospendere l’«esecuzione» ma l’«esecutività» della sentenza impugnata. Questa nuova formulazione dovrebbe consentire di superare definitivamente alcune incertezze interpretative (che peraltro non trovano riscontro nella giurisprudenza del Consiglio di Stato) relative alla effettiva possibilità che una misura cautelare come la sospensione dell’esecuzione possa effettivamente incidere su una pronuncia – come la pronuncia costitutiva d’annullamento – che tradizionalmente si ritiene essere autoesecutiva (e che quindi non implica alcuna esecuzione in senso proprio, soprattutto se la situazione giuridica fatta valere in giudizio è di tipo oppositivo)[24]; in modo analogo, il riferimento alla possibilità di disporre anche «le altre opportune misure cautelari» dovrebbe porre rimedio a un altro problema interpretativo sorto nel vigore dell’art. 33 l. n. 1034/1971: la questione – almeno nel tradizionale processo amministrativo di legittimità – riguarda il caso in cui la sentenza di primo grado abbia respinto il ricorso, e concerne l’ammissibilità stessa della misura cautelare, considerato che la pronuncia di rigetto ha un contenuto meramente negativo, che conferma la validità dell’atto impugnato rispetto ai profili di illegittimità dedotti in giudizio senza modificare la situazione di fatto o di diritto. In questi casi una parte della dottrina ritiene che l’istanza di sospensione vada proposta direttamente nei confronti del provvedimento già impugnato in primo grado[25]; un’altra opinione, invece, sul presupposto che l’art. 33 l. n. 1034/1971 non distingue tra sentenze d’accoglimento e sentenze di rigetto, ritiene che l’appellante già ricorrente in primo grado, domandando la sospensione della sentenza impugnata, in realtà proporrebbe un’istanza di sospensione dell’atto già impugnato in primo grado, per paralizzarne gli effetti nel corso del giudizio d’appello[26]. La giurisprudenza, però, non è stata sempre coerente con questa linea interpretativa, e infatti nei casi in cui nel giudizio di primo grado era stata fatta valere una situazione di carattere pretensivo in alcune occasioni è stato affermato il difetto di interesse alla misura sospensiva[27]. La formulazione attuale dell’art. 98 del progetto in situazioni del genere dovrebbe consentire senza dubbio di disporre la sospensione cautelare (o altra misura ritenuta opportuna) direttamente nei confronti del provvedimento impugnato in primo grado.
In questa prospettiva non si spiega però perché l’art. 98 abbia considerato quale presupposto della misura cautelare il solo pericolo di un danno grave e irreparabile che derivi dall’«esecuzione» (pare sottinteso «della sentenza impugnata»): se il quadro è quello descritto, infatti, sarebbe preferibile una formulazione più ampia, che consenta il ricorso alla tutela cautelare anche nel caso in cui il pericolo sia correlato alla sentenza impugnata stessa (per esempio per il suo carattere costitutivo) o ad altre circostanze (per esempio la situazione collegata all’esecuzione del provvedimento impugnato, nel caso che il ricorso non sia stato accolto).
Quanto alla possibilità che la decisione di una questione controversa sia deferita all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (deferimento che può essere disposto su iniziativa della sezione cui è assegnato il ricorso, d’ufficio o su richiesta delle parti, oppure dal presidente del Consiglio di Stato, anche in questo caso d’ufficio o su istanza di parte), si tratta di una previsione che vuole consolidare la funzione nomofilattica del Consiglio di Stato. In questa prospettiva si spiega anche la possibilità (prima non prevista e corrispondente a quanto ora stabilito dall’art. 363, 3° comma, c.p.c.) di enunciare il principio di diritto anche nel caso in cui il giudizio d’appello si concluda con una pronuncia di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso, o con una pronuncia che dichiari l’estinzione del giudizio stesso. La norma, tuttavia, avrebbe forse potuto trovare una diversa collocazione, considerato che le disposizioni sulle impugnazioni in generale si riferiscono anche a casi in cui il giudizio di impugnazione non si svolge davanti al Consiglio di Stato.

Le ulteriori disposizioni del Libro terzo sono dedicate ai singoli mezzi di imugnazione: appello (Titolo II, artt. 100-105), revocazione (Titolo III, artt. 106-107), opposizione di terzo (Titolo IV, artt. 108-109) e ricorso per cassazione (Titolo V, artt. 110-111).
La disciplina dell’appello delinea un quadro più completo di quello attuale, in grado di fornire una risposta alle principali questioni interpretative che si sono poste con riguardo alle disposizioni della legge processuale amministrativa oggi in vigore. In questa prospettiva si è pertanto stabilito espressamente che l’atto di appello debba contenere l’indicazione di specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata (art. 101, comma 1, del progetto, che trova una corrispondenza nell’art. 342 c.p.c.), chiarendo definitivamente che non è sufficiente la semplice riproposizione dei motivi di ricorso già contenuti nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado. Si è inoltre inserita (art. 101, comma 2, del progetto) una previsione simile all’art. 346 c.p.c. (che pure era stato ritenuto applicabile al processo amministrativo[28]). La nuova disposizione, tuttavia, stabilisce che l’atto con cui avviene la riproposizione debba soddisfare dei requisiti formali più rigorosi rispetto a quanto richiesto dalla giurisprudenza in via interpretativa: la riproposizione, infatti, presuppone sempre un atto scritto, ed è sottoposta a specifici termini di decadenza; di conseguenza non sarà più possibile il semplice richiamo verbale fatto in udienza alle censure formulate o alle difese svolte nel corso del giudizio di primo grado e non esaminate dal giudice o dichiarate assorbite. Qualche dubbio – nel caso della parte appellata – riguarda il termine di decadenza entro cui riproporre le questioni assorbite: la norma fa riferimento al termine per la costituzione in giudizio, termine che l’art. 46 del progetto stabilisce in sessanta giorni dalla notificazione del ricorso (in questo caso dell’appello principale), ma che non ha carattere perentorio. Non è chiaro quindi se la decadenza sia effettivamente associata a tale termine, come sembra dalla formulazione testuale della norma (con la conseguenza che la parte diversa dall’appellante principale che intende riproporre questioni assorbite deve costituirsi tempestivamente), oppure se sia possibile anche una costituzione successiva, purché nel rispetto del termine stabilito dall’art. 73 (trenta giorni prima del giorno fissato per l’udienza come termine ultimo per presentare memorie). Un chiarimento su questo punto, nella formulazione definitiva del Codice, sarebbe opportuno. In ogni caso è certo che la norma riduce ulteriormente l’ambito operativo concreto dell’effetto devolutivo nel processo amministrativo d’appello.
L’art. 103 del progetto, formalizzando una regola già condivisa dalla giurisprudenza più recente[29], ha ammesso anche nel processo amministrativo d’appello l’istituto della riserva facoltativa d’appello contro le sentenze non definitive, disciplinandone le modalità. La disposizione, che trova riscontro nell’art. 340 c.p.c., adatta l’istituto alla situazione tipica del processo amministrativo di legittimità, dove non è frequente che si presentino le condizioni che consentono di formulare la riserva in udienza. Resta il dubbio – dovuto alla mancata riproduzione di una disposizione di contenuto analogo all’art. 340, ult. comma, c.p.c. – se nel processo amministrativo la riserva possa sempre farsi anche se la sentenza parziale sia stata impugnata da una delle altre parti. La coerenza logica e il principio di concentrazione delle impugnazioni in questi casi suggerirebbero di adottare una soluzione analoga a quella seguita dal codice di procedura civile e di escludere la possibilità della riserva. Anche su questo punto sarebbe quindi opportuno un adeguamento della norma.
L’art. 104 del progetto risolve un’altra questione a lungo dibattuta nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e relativa alla deducibilità di nuove eccezioni e di nuove prove (e in questo caso con quale ambito di applicazione del divieto, se limitato alle prove costituende o esteso anche ai documenti) nel giudizio amministrativo d’appello[30].
La disciplina ora predisposta corrisponde esattamente (salvo l’inciso riguardante la possibilità di deferire il giuramento decisorio, che non è ammesso nel processo amministrativo) al testo attuale dell’art. 345 c.p.c. Viene infine confermata la possibilità – già ammessa da un indirizzo giurisprudenziale assolutamente consolidato – di proporre motivi aggiunti in appello. Con i motivi aggiunti, in questo caso, possono però essere dedotti solo ulteriori profili di illegittimità del provvedimento già impugnato in primo grado: resta invece esclusa la possibilità di impugnare provvedimenti connessi.
La norma che disciplina i casi in cui è previsto che il giudizio d’appello si concluda con una pronuncia che dispone la rimessione della causa al giudice di primo grado (art. 105) riformula senza novità significative le disposizioni attuali: è confermato che il rinvio deve essere disposto nel caso di mancata integrazione del contraddittorio o di lesione del diritto di difesa (situazioni cui è comunemente riferita l’espressione attuale «difetto di procedura»), di nullità della sentenza (situazione tipica cui è riferita l’espressione attuale «vizio di forma»), di errata declinatoria della giurisdizione (conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza in via interpretativa) o della competenza (pare doversi sottintendere nei casi di competenza funzionale e inderogabile). Rispetto alle disposizioni oggi in vigore è aggiunto il riferimento espresso ai casi di errata dichiarazione di estinzione o perenzione del giudizio (conformemente a quanto stabilito dall’art. 354, 2° comma, c.p.c.).
Le novità più evidenti rispetto al quadro attuale riguardano la legittimazione a proporre l’appello: l’art. 102 del progetto circoscrive tale legittimazione alle parti del giudizio (comprendendovi anche l’interventore titolare di una posizione giuridica autonoma, secondo un orientamento consolidato in giurisprudenza). In questa prospettiva dovrebbe essere superato l’orientamento – altrettanto consolidato – favorevole ad ammettere una legittimazione ad appellare anche per soggetti terzi rispetto al giudizio di primo grado. La scelta compiuta ha una sua logica, ed è coerente con l’introduzione dell’opposizione di terzo. Proprio alla luce di questa disposizione, però, diventa ancor meno comprensibile la scelta di consentire un’ampia possibilità di intervento nel giudizio d’appello.
Tra le disposizioni attualmente in vigore che non trovano conferma nella disciplina predisposta dal progetto vi sono il 4° e 5° comma dell’art. 28 l. n. 1034/1971 (ma non vi è alcun dubbio né sull’identità di poteri di cognizione tra giudice di primo grado e giudice d’appello, né sul fatto che la giurisdizione estesa al merito o esclusiva riguardi tutti i gradi di giudizio: tanto è vero che gli artt. 133 e 134 del progetto fanno riferimento al giudice amministrativo, senza ulteriori distinzioni), l’art. 34 l. n. 1034/1971 (di conseguenza non sono attualmente previsti casi di annullamento senza rinvio: il carattere devolutivo dell’appello, comunque, non dovrebbe far sorgere dubbi sul fatto che la decisione del Consiglio di Stato, anche se di rito, si sostituisca a una precedente decisione di merito resa tra le parti dal Tribunale amministrativo regionale) e l’art. 35, ult. comma, l. n. 1034/1971 (per cui nel giudizio di primo grado che segue l’annullamento con rinvio non dovrebbe essere più prevista la fissazione d’ufficio e anticipata dell’udienza di discussione).

La disciplina della revocazione non contiene previsioni particolari: definita dalle disposizioni sulle impugnazioni in generale la questione dei termini, viene disposto un rinvio agli artt. 395 e 396 c.p.c. Anche se si è posto rimedio all’equivoco originato dagli artt. 28 e 36 l. n. 1034/1971[31], tuttavia, rimane qualche incertezza: in particolare non si comprende la scelta di accomunare nella stessa previsione (art. 106, comma 1) sia la revocazione nei confronti delle sentenze pronunciate in primo grado, sia la revocazione nei confronti di quelle pronunciate in grado d’appello, con un richiamo congiunto agli artt. 395 e 396 c.p.c. (che invece tengono le due ipotesi ben distinte), salvo poi (art. 106, comma 3) stabilire che contro le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali «la revocazione è proponibile se i motivi non possono essere dedotti con l’appello». Quest’ultima disposizione, infatti, per come è stata formulata è molto ambigua: se interpretata alla lettera, infatti, non ha senso, perchè dal momento che l’appello è un mezzo di impugnazione a critica libera è evidente che non esistono motivi di revocazione che non possono essere dedotti con l’appello (la previsione equivarrebbe quindi ad affermare che contro le sentenze di primo grado non è mai ammesso ricorso per revocazione). È però verosimile che con questa norma si volesse far riferimento all’ipotesi presa in considerazione dall’art. 396 c.p.c. (e in questo senso depone anche la Relazione al Libro III), e quindi al caso in cui la parte abbia avuto notizia di alcuni fatti che costituiscono motivo di revocazione solo dopo la scadenza del termine per proporre appello; se questa era l’intenzione di chi ha predisposto il progetto, tuttavia, forse sarebbe stato meglio scrivere «non potevano» (e sottintendendo perché la parte non ne era a conoscenza) invece di «non possono». Anche in questo modo, peraltro, resterebbe un’incertezza relativa ai casi in cui tali fatti sono stati conosciuti in pendenza del termine per proporre appello (ed eventualmente all’ultimo giorno utile): circostanza che invece è espressamente presa in considerazione dall’art. 396 c.p.c. Ancora una volta, quindi, un rinvio integrale alle disposizioni del codice di procedura civile avrebbe probabilmente assicurato maggiore chiarezza.

La disciplina dell’opposizione di terzo – a parte la questione relativa al termine entro cui proporre l’opposizione di terzo ordinaria nel caso che la sentenza sia stata notificata – riproduce ora il modello delineato dal codice di procedura civile (è quindi prevista espressamente anche l’opposizione di terzo c.d. revocatoria: art. 108, comma 2, del progetto), con alcune ulteriori precisazioni: in particolare, è chiarito che la situazione che legittima la proposizione dell’opposizione è la titolarità di una posizione autonoma e incompatibile (sottinteso, rispetto a quella definita dalla sentenza pronunciata tra altri soggetti. E sarebbe forse stato opportuno non tralasciare il riferimento alla qualità di litisconsorte necessario pretermesso[32]). È inoltre stabilito che l’impugnazione può essere proposta sia a tutela di situazioni giuridiche di diritto soggettivo, sia di interesse legittimo. Infine, sono definiti in modo espresso i rapporti tra opposizione di terzo e appello. Rispetto alla questione – che è discussa anche nell’ambito del processo civile, dal momento che nessuna disposizione la risolve espressamente – l’art. 109, comma 2, del progetto stabilisce la prevalenza dell’appello: di conseguenza se è stato proposto appello la parte legittimata a proporre opposizione potrà intervenire nel giudizio d’appello, mentre se l’appello è proposto dopo che la sentenza di primo grado è stata impugnata con l’opposizione di terzo quest’ultima deve essere dichiarata improcedibile, e all’opponente è fissato un termine per intervenire nel giudizio d’appello. Si tratta di una soluzione già prospettata nell’ambito del processo civile[33], e che è stata preferita all’alternativa (anche questa sostenuta in dottrina[34]) di riunire le due impugnazioni davanti al giudice d’appello, in applicazione dell’art. 335 c.p.c.
Per quanto riguarda il ricorso per cassazione, l’art. 111 del progetto attribuisce al Consiglio di Stato la competenza a disporre la sospensione della sentenza impugnata e le altre misure cautelari, superando definitivamente ogni dubbio circa l’applicabilità dell’art. 373 c.p.c. Si tenga presente che un riferimento alla necessità di disporre un coordinamento in questo senso era contenuto nell’art. 44, comma 2, lett. d) l. n. 69/2009.

 

----------

 

* Intervento al Seminario su “Il progetto del codice del processo amministrativo”, tenuto su iniziativa dell’Università di Firenze il 24 maggio 2010.
[1] Come è noto l’opposizione di terzo ordinaria nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e delle sentenze dei Tribunali amministrativi regionali passate in giudicato è stata introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale 17 maggio 1995, n. 177, Foro it., 1996, I, 3318: di conseguenza nessuna dispozione della legge processuale amministrativa disciplina in alcun modo l’istituto; l’opposizione di terzo ordinaria nei confronti delle sentenze dei Tribunali amministrativi regionali non passate in giudicato è invece ammessa in via interpretativa, ma con una configurazione del tutto particolare, dal momento che se ne consente la proposizione al giudice di secondo grado: in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, ad. plen., 11 gennaio 2007, n. 2, id., 2007, III, 113, con nota di Travi; l’opposizione di terzo c.d. revocatoria, infine, è tuttora estranea al processo amministrativo.
[2] In questo senso v. la Relazione introduttiva generale che accompagna il progetto, § 5.
[3] Su questo problema, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 24 aprile 2009, n. 2588, id., 2010, III, 16, con nota di richiami.
[4] Su questo aspetto Cons. Stato, ad. plen., 24 marzo 2004, n. 7, id., 2004, III, 594, con nota di richiami e Cons. Stato, sez. IV, 11 luglio 2001, n. 3895, id., 2002, III, 44, con nota di richiami.
[5] Per rendersene conto è sufficiente analizzare i diversi percorsi che hanno condotto all’affermazione degli orientamenti in questione e il loro combinarsi con soluzioni già seguite dalla giurisprudenza nel vigore di una disciplina – quella del codice di procedura civile del 1865 – radicalmente superata dal codice di procedura civile del 1940. Per indicazioni in tal senso v. le note alle decisioni citate in precedenza, dove sono indicati anche i principali contributi che si sono occupati del problema.
[6] Per esempio è accorpata in un’unica disposizione la disciplina di profili che nelle disposizioni del codice di procedura civile sono tenuti distinti: così per le problematiche relative all’integrazione del contraddittorio in cause inscindibili (art. 331 c.p.c.) e alla notificazione dell’impugnazione in cause scindibili (art. 332 c.p.c.), che sono trattate congiuntamente nell’art. 105, e alla disciplina delle impugnazioni incidentali (artt. 333 e 334 c.p.c.) e delle impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.), cui è dedicato l’art. 106. Non sono riprodotte, inoltre, alcune disposizioni pacificamente ritenute applicabili al processo amministrativo, come gli artt. 329 e 336 c.p.c. Su questi aspetti si tornerà in seguito.
[7] Potrà valere, eventualmente, ma ai fini del rigetto dell’impugnazione, l’eventuale prescrizione del diritto asseritamente leso dalla sentenza pronunciata tra le altre parti.
[8] In questo senso, anche per ulteriori riferimenti, v. Troise Mangoni, L’opposizione ordinaria del terzo nel processo amministrativo, Milano, 2004.
[9] È comunque possibile ricordare che una norma espressamente dedicata a risolvere problematiche del genere, tra le disposizioni del codice di procedura civile dedicate alle impugnazioni in generale esiste già, ed è l’art. 336 c.p.c. (che tra l’altro è ritenuto applicabile al processo amministrativo).
[10] Espressamente al riguardo Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 1998, n. 1128, id., 1999, III, 83, con nota di A. Romano; successivamente Cons. Stato, sez. IV, 3 maggio 1999, n. 773, id., Rep. 1999, voce Giustizia amministrativa, n. 367 (anche se la massima non sembra distinguere tra situazioni giuridiche di interesse legittimo e di diritto soggettivo).
[11] Cons. Stato, ad. plen., 27 maggio 1999, n. 13, id., 1999, III, 495.
[12] Sull’applicabilità dell’art. 336, 2° comma, c.p.c. e sul conseguente effetto espansivo esterno dell’impugnazione Cons. Stato, ad. plen., 3 dicembre 1982, n. 18, id., 1983, III, 130.
[13] Dal momento che il comma 3 fa riferimento a un onere di integrazione del contraddittorio.
[14] Per una lucida sintesi dei termini della questione e delle principali problematiche connesse all’applicaione dell’art. 331 c.p.c. v., anche per i puntuali riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, la nota di M. Orsenigo a Cass., sez. II, 28 settembre 1989, n. 3939, id., 1990, I, 541.
[15] Cons. Stato, ad. plen., 24 marzo 2004, n. 7, cit.
[16] Su queste problematiche e per ulteriori riferimenti a dottrina e giurisprudenza v. la nota a Cons. Stato, sez. V, 24 aprile 2009, n. 2588, cit.
[17] In questo senso v. la Relazione al Libro III (Impugnazioni) che accompagna il progetto di Codice.
[18] Questa incertezza pare peraltro confermare quanto già osservato con riferimento all’art. 95 del progetto riguardo a una non piena comprensione di tutte le problematiche oggetto della disciplina: la disciplina delle impugnazioni incidentali tardive predisposta dall’art. 334 c.p.c. e la limitazione della possibilità di proporre tali impugnazioni ad alcune soltanto delle parti, infatti, si ricollega direttamente alla distinzione tra cause scindibili e cause insindibili (non a caso le impugnazioni incidentali tardive non riguardano le parti che abbiano ricevuto le notificazioni previste dall’art. 332 c.p.c.).
[19] Anche se proprio la mancanza di una sanzione espressa per le impugnazioni tempestivamente (e quindi nel rispetto dei termini dell’impugnazione incidentale) proposte in un separato giudizio e non riunite ai sensi dell’art. 335 c.p.c. (c.d. impugnazioni incidentali successive) costituisce la principale lacuna nel sistema delineato dali artt. 331-335 c.p.c.: su questi aspetti, anche per riferimenti alla principale dottrina del processo civile, v. Sigismondi, Appello incidentale, consumazione del potere d’impugnazione e onere di specificazione dei motivi d’appello: il Consiglio di Stato diviso tra soluzioni interpretative autonome e codice di procedura civile, Dir. proc. ammin., 2002, 387, ss., spec. 404-408.
[20] Cerino Canova, Impugnazioni separate contro la stessa sentenza, Riv. dir. proc., 1976, 298 ss., spec. 330-332.
[21] Riguardo alle conseguenze della mancata riunione, fermo restando quanto osservato alla nota precedente, la giurisprudenza civile prevalente è orientata nel senso di ritenere che la decisione di una delle impugnazioni proposte renda improcedibili le altre, secondo un’interpretazione che sembra condivisa anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato: Cons. Stato, sez. VI, 26 giugno 2006, n. 4083, Foro it., Rep. 2006, voce Impugnazioni civili, n. 107; ad. plen., 29 febbraio 1992, n. 3, id., 1992, III, 257, con nota di richiami.
[22] Si può pensare alla precisazione (senz’altro opportuna e già prevista dall’art. 96, comma 4 del progetto) che l’impugnazione incidentale tardiva può riguardare anche capi autonomi della sentenza; o a una disposizione che chiarisca la sorte delle c.d. impugnazioni incidentali successive (e come si è visto una disposizione del genere manca anche nel codice di procedura civile) e che si possa coordinare con quanto stabilito dall’art. 96, comma 6, del progetto.
[23] Se si ragiona in questa logica, infatti, l’unico intervento ammesso in appello, in pratica, sarebbe un intervento ad opponendum che non amplierebbe né modificherebbe l’oggetto del giudizio.
[24] Per questi rilievi E.M.Barbieri, Sospensione di sentenze e sospensione di provvedimenti nel giudizio amministrativo, Dir. proc. ammin., 2009, 1330. La giurisprudenza del Consiglio di Stato, invece, è consolidata nel senso di ritenere che la sospensione dell’esecuzione della sentenza d’accoglimento di primo grado restituisca sempre efficacia (sia pure in via interinale) all’atto annullato. Nello stesso senso Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, 2^ ed., Torino, 1997, 764.
[25] In questo senso C.E. Gallo, Appello nel processo amministrativo, Digesto pubbl., vol. I, Torino, 1987, 331.
[26] Caianiello, Manuale, cit., 764; Paleologo, L’appello al Consiglio di Stato, Milano, 1989, 792 ss.; in giurisprudenza Cons. Stato, sez. IV, ord. 26 maggio 1987, n. 312, Foro it., 1988, III, 428.
[27] Cons. Stato, sez. VI, ord. 1° marzo 1996, n. 236, id., Rep. 1997, voce Contratti della p.a., n. 368.
[28] Cons. Stato, ad. plen., 19 gennaio 1999, n. 1, Dir. proc. ammin., 2000, 398, con note di Sigismondi, Appello al Consiglio di Stato e motivi assorbiti e A. Laura, L’automatica riemersione in secondo grado dei capi di domanda dichiarati assorbiti in prime cure, nel caso di mancata costituzione in giudizio dell’appellato già ricorrente.
[29] Sul punto, anche per ulteriori riferimenti, Cons. Stato, sez. IV, 1° marzo 2001, n. 1121, Foro it., 2001, III, 480, con nota di Cortesi.
[30] Sul punto Cons. Stato, sez. VI, 4 giugno 2007, n. 2951, id., 2008, III, 240, con nota di richiami che consente di ricostruire l’evoluzione della giurisprudenza relativa al problema in questione.
[31] É noto che la prima disposizione ammetteva la revocazione nei confronti delle sentenze dei Tribunali amministrativi regionali richiamando – tra l’altro – l’art. 395 c.p.c., che riguarda invece la revocazione nei confronti delle decisioni pronunciate in grado d’appello o in grado unico; la seconda disposizione ammetteva la revocazione nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato nei casi previsti dall’art. 396 c.p.c., che riguarda invece la revocazione delle pronunce di primo grado, per le quali sia decorso il termine per l’appello.
[32] Questa condizione, cui è pacificamente ricondotta la legittimazione a proporre l’opposizione di terzo nei confronti della sentenza pronucniata tra altre parti, non implicainfatti necessariamente la titolarità di una posizione giuridica autonoma e incompatibile rispetto a quella delle altre parti.
[33] In questo senso v., anche per ulteriori riferimenti, Fabbrini, L’opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano, 1968.
[34] In particolare da Proto Pisani, L’opposizione di terzo ordinaria: art. 404, 1° comma c.p.c., Napoli, 1965, 726; Consolo, La tutela del terzo contro una sentenza non passata in giudicato del giudice amministrativo di primo grado: sviluppi giurisprudenziali a cavallo fra opposizione ed appello del terzo, Dir. proc. ammin., 1999, 264.

 

(pubblicato il 31.5.2010)

Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico Stampa il documento