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n. 12-2009 - © copyright

 

ALBERTO ROCCELLA

La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di ambiente nel 2008 (*)


SOMMARIO: 1. Generalità. — 2. Lo smaltimento dei rifiuti. — 3. La bonifica dei siti inquinati. — 4. La caccia. — 5. La protezione degli animali. — 6. La conservazione degli habitat naturali. — 7. La tutela del paesaggio. — 8. Beni e attività culturali. — 9. Ulteriori rinvii.


1. Generalità.

Nelle materie considerate in questo capitolo la Corte costituzionale nel 2008 ha pronunciato tredici sentenze e sette ordinanze, di cui una di manifesta inammissibilità, una di manifesta infondatezza, una di estinzione del giudizio per rinuncia al ricorso e quattro di restituzione degli atti al giudice a quo per il riesame della rilevanza a seguito di jus superveniens. Queste pronunce hanno definito: un giudizio per conflitto di attribuzioni; sette giudizi incidentali di legittimità costituzionale, di cui quattro su disposizioni di legge statale e tre su disposizioni di legge regionale; undici giudizi in via principale promossi dal Presidente del Consiglio dei Ministri nei confronti di disposizioni di legge regionale; due giudizi in via principale promossi da Regioni nei confronti di disposizioni di legge statale. Alcune di queste pronunce, inoltre, hanno definito più giudizi, previa loro riunione.
Si tratta dunque di un contenzioso abbastanza ampio dal quale emergono problemi di rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ma soprattutto problemi di riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni e di limiti alla potestà legislativa delle Regioni, comprese quelle ad autonomia speciale, in relazione all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., che attribuisce allo Stato potestà legislativa esclusiva per la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Sulle pronunce della Corte illustrate in questo capitolo, le quali costituiscono un cospicuo contributo in tema di ordinamento regionale, si rinvia quindi anche al Cap. XXXIV Rapporti Stato – Regioni – Enti locali b. competenze legislative e amministrative.


2. Lo smaltimento dei rifiuti.
(s. 62; o. 83; o. 121; o. 413)

Nel 2007 la sent. n. 378 (in Viva Vox 2007, 254-256) aveva costituito la pronuncia più impegnativa in tema di smaltimento dei rifiuti e in generale di tutela dell’ambiente. La sentenza, ripetutamente citata e ripresa nelle decisioni del 2008, aveva deciso le questioni proposte dal Presidente del Consiglio dei Ministri nei confronti della l.p. Trento 15 dicembre 2004, n. 10, ma aveva costituito l’occasione per rilevanti affermazioni di principio. In particolare la sentenza aveva affermato che i rifiuti ricadono nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ambiente ed ecosistema (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) e che il settore dei rifiuti non rientra nelle materie di competenza provinciale ai sensi dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha impugnato anche alcune disposizioni della l.p. Bolzano 26 maggio 2006, n. 4, sulla gestione dei rifiuti. Successivamente alla proposizione del ricorso alcune delle disposizioni impugnate sono state modificate; ma la sent. n. 62, in forza del principio di effettività della tutela delle parti nei giudizi, ha trasferito le questioni alle nuove norme, le quali lasciavano sostanzialmente immutato il contenuto precettivo di quelle oggetto di censura. La nuova sentenza, pronunciata a distanza di quattro mesi da quella relativa alla l.p. Trento n. 10 del 2004, ha sensibilmente modificato la posizione di principio assunta dalla Corte con la sent. n. 378 del 2007. La sentenza, infatti, pur confermando che la disciplina dei rifiuti si colloca nell’ambito della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di competenza esclusiva statale, ha ammesso che lo statuto speciale del Trentino-Alto Adige/Südtirol riserva alla Provincia alcuni segmenti della tutela ambientale. La competenza statale si intreccia con altri interessi e competenze, cosicché allo Stato è riservato il potere di fissare standard di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale, ma resta ferma la competenza della Provincia alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. La sentenza ha preso atto che la l.p. Bolzano n. 4 del 2006 comprende tra la sue finalità l’esigenza della protezione della salute dell’uomo e che essa, come la precedente l.p. 6 settembre 1973, n. 61 (abrogata dall’art. 46 l.p. n. 4 del 2006), ha ad oggetto la cura di una molteplicità di interessi pubblici, in alcuni casi, come per la localizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti, afferenti alla conservazione e alla fruizione del territorio. Essa ha quindi riconosciuto che la l.p. Bolzano n. 4 del 2006 trova valido fondamento nella competenza legislativa esclusiva provinciale in materia di tutela del paesaggio e di urbanistica, nonché nella competenza legislativa concorrente in materia di igiene e sanità.
La sentenza ha deciso l’inammissibilità di una questione (relativa agli artt. 3, comma 1, lett. w, n. 1, e 5, comma 1, lett. b) per insufficiente motivazione della censura fatta valere, mentre per le altre quattro questioni sollevate essa ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate. Ma, a differenza della sent. n. 378 del 2007 relativa alla Provincia di Trento, la sent. n. 62 non si è limitata a rilevare il contrasto delle disposizioni provinciali impugnate con la disciplina statale posta dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale; essa, invece, ha censurato specifiche violazioni dei limiti della potestà legislativa provinciale.
Una disposizione provinciale recante un’esenzione per i rifiuti pericolosi dall’obbligo del formulario d’identificazione (l’art. 19, comma 3, lett. b), l.p. n. 4 del 2006) è stata dichiarata illegittima perché la disciplina statale sul formulario (art. 193 del d.lgs. n. 152 del 2006), la cui mancanza è presidiata, per i rifiuti pericolosi, da sanzioni penali (art. 258, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006), costituisce uno standard di tutela uniforme in materia ambientale e quindi si impone nell’intero territorio nazionale, senza ammettere deroghe locali.
Ugualmente l’Albo nazionale gestori ambientali, previsto dall’art. 212 d.lgs. n. 152 del 2006, è stato considerato dalla sentenza come una struttura posta a presidio dell’affidabilità delle singole imprese aspiranti ad esercitare attività nel settore dei rifiuti, quindi tale da non ammettere deroghe locali, tanto più che l’iscrizione all’Albo corrisponde all’esigenza di dare attuazione a direttive comunitarie; conseguentemente è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 20, comma 2, l.p. n. 4 del 2006.
I commi 1 e 2 dell’art. 24 l.p. n. 4 del 2006 consentivano la messa in esercizio di un impianto di smaltimento o recupero di rifiuti prima che la regolarità dell’impianto fosse stata valutata dall’amministrazione. Queste disposizioni sono state dichiarate illegittime perché l’autorizzazione unica per i nuovi impianti è stata regolata dalla legislazione statale senza prevedere alcuna forma di autorizzazione tacita, neppure provvisoria (art. 152 d.lgs. n. 152 del 2006, anche nel testo modificato dall’art. 2, comma 29-ter, d.lgs. n. 4 del 2008), in ottemperanza alle prescrizioni delle pertinenti direttive comunitarie che configurano un sistema di autorizzazioni previe.
Infine l’art. 7, comma 1, lett. b), l.p. n. 4 del 2006, che sottraeva alla nozione di rifiuto le terre e le rocce da scavo e i residui della lavorazione della pietra non contaminati, è stato dichiarato illegittimo in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., essendo in contrasto con la direttiva 2006/12/CE (come interpretata dalla Corte di giustizia), la quale funge da norma interposta atta a integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale e provinciale all’ordinamento comunitario, ai sensi appunto dell’art. 117, primo comma, Cost.
La sent. n. 378 del 2007 aveva negato totalmente la competenza legislativa della Provincia di Trento nel settore dei rifiuti e quindi aveva censurato la pura e semplice difformità della legislazione provinciale da quella statale. Invece la sent. n. 62 del 2008 ha riconosciuto la competenza legislativa della Provincia di Bolzano nel settore dei rifiuti ed è pervenuta a dichiarazioni di illegittimità costituzionale solo in quanto ha ravvisato nelle disposizioni statali violate il carattere di specifici limiti alla potestà legislativa provinciale.
Le altre questioni in tema di smaltimento dei rifiuti decise dalla Corte nel 2008 hanno avuto rilievo minore e, del resto, sono state definite con ordinanze (due di restituzione degli atti al giudice a quo per il riesame della rilevanza, una di manifesta inammissibilità).
Il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella parte in cui qualifica le ceneri di pirite come sottoprodotto non soggetto alla disciplina dei rifiuti, a prescindere dalle caratteristiche indicate dalla giurisprudenza comunitaria per la nozione di sottoprodotto, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Successivamente all’ordinanza di rimessione il d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, ha introdotto una nuova definizione di sottoprodotto e ha eliminato il riferimento alle ceneri di pirite. Pertanto con l’ord. n. 83 la Corte ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo per valutare l’incidenza della nuova disciplina sul procedimento principale.
La stessa sorte ha avuto il giudizio promosso dalla commissione tributaria regionale della Toscana nei confronti dell’art. 186 d.lgs. n. 152 del 2006, nella parte in cui esclude, a certe condizioni, che le terre e le rocce da scavo, anche di gallerie, destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, costituiscano rifiuti. Anche in questo caso veniva dedotta la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., per contrasto con la nozione di rifiuto stabilita dalle direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE ed elaborata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee. A seguito della sostituzione della disposizione impugnata a opera dell’art. 2, comma 23, d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, l’ord. n. 121 ha disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente, per valutare la perdurante rilevanza della questione di legittimità costituzionale nel giudizio principale.
Infine è tornata alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, come modificato dall’art. 1, comma 19, l. 9 dicembre 1998, n. 426, nella parte in cui esclude che gli imprenditori i quali esercitano la raccolta ed il trasporto di rifiuti propri non pericolosi a titolo professionale abbiano l’obbligo di iscriversi all’Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti. La questione era stata già proposta dalla Cassazione in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., per contrasto con le citate direttive sui rifiuti, ma la Corte, con ordinanza n. 126 del 2007, aveva disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini della valutazione in ordine alla perdurante rilevanza della questione alla luce dello jus superveniens costituito dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, il quale ha integralmente sostituito la disciplina della gestione dei rifiuti, abrogando il d. lgs. n. 22 del 1997 e obbligando all’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali le imprese che esercitano la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare, sia pur secondo un regime sensibilmente agevolato (art. 212, comma 8, d. lgs. n. 152 del 2006). La Corte di cassazione, tuttavia, aveva sollevato nuovamente la questione, riferita al medesimo testo normativo, assumendo che esso dovesse trovare applicazione nel giudizio principale ai sensi dell’art. 2 del codice penale e dell’art. 15 Cost. Secondo la nuova ordinanza della Cassazione la questione, ancorché diretta a provocare una pronuncia in malam partem in materia penale, sarebbe stata ammissibile, dovendosi riconoscere alla disposizione censurata la natura di norma penale di favore. L’ord. n. 413 ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione, con una succinta ma interessante argomentazione in tema di norme penali di favore e di facoltatività di sanzioni penali a presidio di obblighi comunitari per la quale si rinvia al Cap. I. Diritto penale a) reati e pene.


3. La bonifica dei siti inquinati.
(s. 214)

Il Tar dell’Emilia-Romagna ha sollevato in via incidentale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 l.r. Emilia-Romagna 1° giugno 2006, n. 5 (come modificato dall’art. 25 l.r. 28 luglio 2006, n. 13), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost. La questione riguardava la bonifica dei siti inquinati, disciplinata nella legislazione statale dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 che ha abrogato la disciplina precedente (art. 17 d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22) e ha consentito a quanti avevano conseguito l’autorizzazione secondo la previgente disciplina la facoltà di rimodulare i propri interventi sulla base del nuovo regime (art. 265, comma 4). Le disposizioni regionali impugnate avevano invece stabilito per i procedimenti in corso un diverso regime transitorio, avendo previsto l’applicabilità solo della disciplina previgente, con esclusione della possibilità di rimodulazione degli obiettivi di bonifica già autorizzati in conformità al precedente regime.
La questione è stata accolta dalla sent. n. 214, la quale ha illustrato le rilevanti novità in tema di bonifica dei siti inquinati introdotte dal d.lgs. n. 152 del 2006 e ha messo in evidenza il favor del legislatore statale per l’applicazione della disciplina sopravvenuta anche ai procedimenti già conclusi. La sentenza ha ricordato la giurisprudenza costituzionale secondo cui le Regioni possono perseguire anche finalità di tutela ambientale (sentt. n. 246 e n. 182 del 2006, in Viva Vox 2006, 240 e 254-255), purché ciò sia un effetto indiretto e marginale della disciplina da loro adottata nell’esercizio di una propria legittima competenza e comunque non si ponga in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che proteggono l’ambiente (il precedente citato è sent. n. 431 del 2007, in Viva Vox 2007, 585, che però riguarda la diversa materia della tutela della concorrenza). Le Regioni e le Province autonome non possono però derogare al livello minimo di tutela ambientale stabilito dallo Stato (sent. n. 62 del 2008, illustrata al par. precedente). Spetta inoltre alla disciplina statale tener conto degli altri interessi costituzionalmente rilevanti contrapposti alla tutela dell’ambiente, mentre una diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in tema di tutela dell’ambiente, rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e sproporzionata gli altri interessi confliggenti considerati dalla legge statale (sent. n. 246 del 2006, cit.; sent. n. 307 del 2003, in Viva Vox 2003, 173-175; ma v. anche sent. n. 62 del 2005, in Viva Vox 2005, 230). Sulla base di questi principi la sentenza ha riconosciuto che le disposizioni impugnate avevano quale oggetto diretto e specifico la tutela dell’ambiente, in evidente contrasto con la disciplina statale.


4. La caccia.
(o. 36; s. 250; s. 387; s. 405)

Nel 2008 la Corte costituzionale si è pronunciata con tre sentenze su problemi legati alla direttiva 79/409/CEE del 2 aprile 1979 sulla conservazione degli uccelli selvatici, la quale ha disciplinato all’art. 9 le deroghe al regime di protezione istituito dagli articoli precedenti. In particolare il comma 1 dell’art. 9 ha previsto tre tipi di deroghe: a) nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica; nell’interesse della sicurezza aerea; per prevenire gravi danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle acque; per la protezione della flora e della fauna; b) ai fini della ricerca e dell’insegnamento, del ripopolamento e della reintroduzione nonché per l’allevamento connesso a tali operazioni; c) per consentire in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità.
A questa disciplina comunitaria avevano fatto seguito alcune leggi regionali (l.r. Marche 5 gennaio 1995, n. 7, art. 30, commi 7, 8 e 9; l.r. Lombardia 30 agosto 1997, n. 34). Tuttavia la Corte costituzionale aveva affermato che la disciplina del potere di deroga doveva trovare attuazione attraverso una normativa nazionale di recepimento, idonea a garantire su tutto il territorio nazionale un uniforme e adeguato livello di salvaguardia; in mancanza di tale disciplina erano illegittime le leggi regionali di disciplina delle deroghe (sentenze n. 168 e n. 169 del 1999). A questa carenza aveva posto rimedio la l. 3 ottobre 2002, n. 221, che aveva introdotto nella l. 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) l’art. 19-bis; a questa disposizione statale avevano fatto seguito varie leggi regionali. Tuttavia la Commissione delle Comunità europee ha ritenuto il regime interno, statale e regionale, delle deroghe (in particolare quello relativo alla lett. c, ma anche quello relativo alla lett. a dell’art. 9, comma 1, della direttiva) non pienamente conforme alla direttiva comunitaria e ha avviato una procedura di infrazione (n. 2006/2131, del 4 aprile 2006), non ancora conclusa. Il Governo ha tentato di adeguare il regime interno delle deroghe ai rilievi della Commissione col d.l. 16 agosto 2006, n. 251, che però è decaduto per mancata tempestiva conversione e al quale non hanno fatto seguito altre iniziative legislative. Sul piano interno, dopo le citate sentenze della Corte costituzionale, il Tar della Lombardia ha ritenuto corretta la disapplicazione della l.r. Lombardia n. 34 del 1997 e ha respinto i ricorsi della Regione contro i provvedimenti della commissione di controllo sull’amministrazione regionale che avevano annullato i provvedimenti regionali di deroga per le stagioni venatorie 1998-1999 e 1999-2000 (Tar Lombardia, Milano, I, 23 gennaio 2002, nn. 204 e 203). Da ultimo la Corte di giustizia delle comunità europee ha condannato l’Italia per la violazione da parte della Regione Liguria dell’art. 9 della direttiva (Corte di giustizia CE, sesta sezione, 15 maggio 2008, in causa C-503/06, in Viva Vox 2007, 261). Pende inoltre alla Corte di giustizia un ricorso proposto dalla Commissione, la quale ha considerato la normativa italiana di recepimento non completamente conforme alla direttiva sotto vari profili, e in particolare con riferimento al regime delle deroghe nelle regioni Abruzzo, Lazio, Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, Calabria e Puglia (ricorso presentato il 22 dicembre 2008, causa C-573/08).
Il regime delle deroghe alla direttiva comunitaria sulla conservazione degli uccelli pone dunque diversi ordini di problemi: la conformità della disciplina interna alla direttiva, la ripartizione di competenza tra Stato e Regione per la disciplina delle deroghe, la legittimità dei singoli provvedimenti di deroga. Questo regime è tornato ora al giudizio della Corte costituzionale con riferimento alla Regione Lombardia, la cui attività legislativa e amministrativa ha dato luogo nel tempo a un contenzioso molto ricco.
In aggiunta a quanto sopra riferito, infatti, il Tar della Lombardia ha annullato il provvedimento regionale sul prelievo venatorio in deroga per la stagione venatoria 2003/2004 ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. a), della direttiva (Tar Lombardia, Milano, IV, 21 gennaio 2005, n. 140); nel giudizio sul provvedimento parallelo assunto ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. c), della direttiva, il Tar della Lombardia ha proposto domanda di pronuncia pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234 del trattato CE (Tar Lombardia, Milano, IV, ord. 21 gennaio 2005, n. 16), e, dopo la sentenza (Corte di giustizia, seconda sezione, 8 giugno 2006, in causa C-60/05), ha annullato la delibera regionale (Tar Lombardia, Milano, IV, 27 dicembre 2006, n. 3052, confermata in appello da Cons. St., VI, 23 febbraio 2009, n. 1054, secondo cui l’art. 19-bis l.n. 157 del 1992 va disapplicato). Più di recente lo stesso Tar ha annullato anche un provvedimento regionale di deroga per la stagione venatoria 2006-2007 (Tar Lombardia, IV, 27 novembre 2007, n. 6432).
Da ultimo la Regione Lombardia ha previsto piani annuali per il prelievo venatorio in deroga, ai sensi della direttiva comunitaria, da approvare con legge regionale, chiaramente al fine di escludere la tutela giurisdizionale avanti gli organi di giustizia amministrativa (l.r. Lombardia 5 febbraio 2007, n. 2, artt. 2 e 3). Queste disposizioni sono state impugnate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, il cui ricorso ha censurato la previsione di una legge-provvedimento annuale, indipendente dalla verificazione di un danno concreto, dato che un atto legislativo necessario e cadenzato configura un regime di deroga ordinario, estraneo alla previsione dell’art. 9 della direttiva 79/409/CEE ma in contrasto con essa e con gli standard minimi e uniformi di tutela della fauna. Il ricorso lamentava quindi la violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lett. s), Cost.
La Regione Lombardia si è difesa sostenendo che l’adozione delle misure in deroga trova il suo presupposto in un’attività di ricognizione delle circostanze di fatto da parte della Giunta regionale, nel rispetto dell’art. 9 della direttiva 79/409/CEE, ma questo argomento difensivo non ha avuto successo. La sent. n. 250 ha ricordato un suo precedente sulla finalità del potere di deroga (sent. n. 168 del 1999), ma soprattutto ha ricordato che l’art. 19-bis l. 11 febbraio 1992, n. 157 prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, possa annullare i provvedimenti di deroga adottati dalla Regione, previa delibera del Consiglio dei ministri e dopo aver diffidato la Regione interessata. La l.r. Lombardia n. 2 del 2007, stabilendo che l’esercizio delle deroghe avvenisse attraverso una legge-provvedimento, aveva introdotto una disciplina in contrasto con quanto previsto dall’art. 19-bis l. n. 157 del 1992 e soprattutto aveva precluso l’esercizio del potere di annullamento da parte del Presidente del Consiglio dei ministri dei provvedimenti derogatori che risultino in contrasto con la direttiva comunitaria 79/409/CEE e con la legge n. 157 del 1992, potere di annullamento finalizzato a garantire una uniforme e adeguata protezione della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale. La sentenza pertanto, pur senza puntuale corrispondenza con i motivi del ricorso, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli impugnati che prevedevano di approvare mediante legge regionale i prelievi in deroga; questi prelievi risultano coperti, secondo la sentenza, da una riserva di provvedimento amministrativo in funzione del potere di annullamento del Governo (v. anche Cap. X. Organizzazione e procedimenti amministrativi; bilanci pubblici).
Il Governo ha proposto alla Corte anche la questione di legittimità costituzionale della l.r. Lombardia 6 agosto 2007, n. 20, che, facendo seguito alla l.r. n. 2 del 2007, aveva regolato il prelievo venatorio in deroga per la stagione venatoria 2007/2008. Il ricorso sosteneva l’illegittimità costituzionale derivata della legge, considerata in contrasto con la direttiva comunitaria e quindi in violazione degli artt. 10, 117, primo comma, e 117, secondo comma, lett. s), Cost. La Regione si è difesa eccependo, in via preliminare, la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del ricorso poiché, da un lato, la legge impugnata aveva esaurito i propri effetti e, dall’altro, la l.r. n. 2 del 2007 (c.d. legge madre) era stata nel frattempo abrogata dalla l.r. 30 luglio 2008, n. 24, recante una nuova disciplina del regime di deroga previsto dalla direttiva comunitaria; nel merito, la Regione sosteneva che la legge regionale impugnata non aveva sottratto al giudice amministrativo la competenza a decidere sulla legittimità del piano di prelievo, poi approvato con legge. Ma questi argomenti non sono stati accolti dalla sent. n. 405, la quale ha respinto l’eccezione preliminare osservando che la legge regionale impugnata aveva prodotto i suoi effetti nella stagione venatoria alla quale si riferiva; nel merito, la sentenza ha fatto discendere dalla sent. n. 250, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della l.r. n. 2 del 2007, anche l’illegittimità costituzionale della legge regionale oggetto del giudizio.
Il contenzioso fra Stato e Regione Lombardia sulla materia in esame non si è però esaurito con le sentenze citate. Infatti poche settimane dopo il deposito della sent. n. 250, e in aperto contrasto col principio ivi affermato, la l.r. Lombardia 30 luglio 2008, n. 24, ha stabilito (art. 4, commi 1 e 2) il regime delle deroghe per la stagione venatoria 2008-2009. Sorprendentemente il Governo non ha impugnato queste disposizioni, ma la relativa questione di legittimità costituzionale è stata sollevata in via incidentale da Tar Lazio, I, ord. 16 ottobre 2008, n. 1223 (reg. ord. n. 40 del 2009). Si profila inoltre un nuovo contenzioso per le deroghe relative alla stagione venatoria 2009-2010. Dopo le sentenze n. 250 e n. 405 del 2008 la Giunta regionale della Lombardia ha preso atto di una relazione del Presidente il quale affermava la necessità, per il futuro, di evitare qualunque iniziativa legislativa sul tema delle deroghe (del. n. VIII/8779 del 22 dicembre 2008). Tuttavia, a ridosso dell’inizio della nuova stagione venatoria, a seguito di due progetti di legge (n. 391 e n. 402) di iniziativa di alcuni consiglieri, la Regione ha approvato, a scrutinio segreto, la l.r. 16 settembre 2009, n. 21, la quale reca, nell’ipocrita forma di modifica alla l.r. n. 24 del 2008, la disciplina delle deroghe per la stagione 2009-2010, come già per le due stagioni venatorie precedenti, ma ora in palese contrasto con le sentenze illustrate. La caccia si è aperta il 20 settembre 2009, senza la possibilità di un’effettiva tutela nei confronti della nuova legge regionale entrata in vigore il giorno precedente.
Il regime delle deroghe ammesse dall’art. 9, comma 1, della direttiva comunitaria 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici è stato oggetto di un giudizio della Corte anche in relazione all’art. 3, comma 3, della l.p. Bolzano 12 ottobre 2007, n. 10 (che ha sostituito l’art. 4, comma 5, l.p. 17 luglio 1987, n. 14), impugnato dal Governo per contrasto con la direttiva, mancando l’indicazione della tipologia di deroga da attivare e delle ragioni ad essa sottostanti, in violazione quindi del vincolo del rispetto del diritto comunitario posto dall’art. 8 dello Statuto del Trentino-Alto Adige/Südtirol e dall’art. 117, primo comma, Cost. La sent. n. 387 ha deciso la questione (par. 5 del Considerato in diritto) a partire da una ricostruzione di principio dei limiti dell’autonomia provinciale. Essa ha riconosciuto la riconducibilità della disciplina contenuta nella norma censurata all’ambito materiale della caccia, che rientra nella competenza legislativa primaria della Provincia autonoma di Bolzano (art. 8, n. 15, St. T.-A.A./Südtirol); la sentenza però ha anche ricordato la costante giurisprudenza secondo cui, anche a fronte della competenza legislativa primaria delle Regioni a statuto speciale, spetta pur sempre allo Stato la determinazione degli standard minimi e uniformi di tutela della fauna, nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost. (sentenze n. 391 del 2005, in Viva Vox 2005, 226; n. 311 del 2003, in Viva Vox 2003, 177 ss.; n. 536 del 2002, in Viva Vox 2002, 300 ss.). La sentenza ha ribadito che questa competenza esclusiva statale ha il suo fondamento nell’esigenza insopprimibile di garantire su tutto il territorio nazionale soglie minime di protezione della fauna, nel senso che costituiscono un vincolo rigido sia per lo Stato sia per le Regioni, ordinarie e speciali, a non diminuire l’intensità della tutela, la quale può variare, in considerazione delle specifiche condizioni e necessità dei singoli territori, solo in direzione di un incremento, mentre resta esclusa ogni attenuazione, comunque motivata. La sentenza ha altresì affermato che la materia «tutela dell’ambiente» non è contemplata nello Statuto del Trentino-Alto Adige/Südtirol, con la conseguenza che tutti gli oggetti che non rientrano nelle specifiche e delimitate competenze attribuite alle Province autonome rifluiscono nella competenza generale dello Stato nella suddetta materia, la quale implica in primo luogo la conservazione uniforme dell’ambiente naturale, mediante precise disposizioni di salvaguardia non derogabili in alcuna parte del territorio nazionale. Inoltre, ai sensi degli artt. 4 e 8 dello stesso Statuto, la legislazione regionale e provinciale è assoggettata agli obblighi internazionali e quindi ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Con specifico riferimento alla norma provinciale impugnata, la sentenza ha affermato che essa si presentava carente sotto il profilo della accurata delimitazione delle deroghe, giacché non prevedeva che nel relativo provvedimento fossero indicate le finalità della deroga, elencate invece in modo tassativo dall’art. 9, comma 1, lett. a), b) e c), della direttiva 79/409/CEE ed espressamente richiamate dall’art. 19-bis l. 11 febbraio 1992, n. 157. La sentenza non ha ritenuto sufficiente che, secondo la norma censurata, l’assessore provinciale alla caccia adottasse un «provvedimento motivato», senza prescrivere esplicitamente che la motivazione desse conto, oltre che degli elementi menzionati nelle lettere da a) a g), anche delle ragioni della deroga, con specifico riguardo a una o più delle finalità per le quali la normativa comunitaria e nazionale la consente. Con tale generica previsione la norma provinciale predisponeva una tutela della fauna selvatica inferiore a quella prevista in sede europea e nazionale, che si presenta come più rigorosa e dettagliata, poiché impone che ciascun provvedimento di deroga contenga la motivazione concreta della connessione della tipologia di deroga concessa con le ragioni della stessa, inquadrabili in una delle finalità ritenute, dal legislatore comunitario e nazionale, cause di giustificazione di attività venatorie eccedenti quelle normalmente esercitabili secondo le leggi vigenti. La sentenza ha quindi accolto il ricorso e ha dichiarato l’illegittimità della norma impugnata nella parte in cui non prevede che nel provvedimento di deroga siano indicate la tipologia e le ragioni della deroga.
La stessa sent. n. 387 ha accolto (par. 11 del Considerato in diritto) anche un’altra questione sollevata dal Governo nei confronti dell’art. 21, comma 1, della medesima l.p. Bolzano n. 10 del 2007 (recante sostituzione dei commi 4 e 5 dell’art. 38 l.p. 17 luglio 1987, n. 14). La disposizione riguardava il caso di danni al bosco o alle colture agrarie provocati dal mancato rispetto del piano di abbattimento degli ungulati e consentiva all’assessore provinciale di prescrivere al gestore del comprensorio interessato una riduzione numerica della consistenza di questi ultimi. La disposizione era stata impugnata perché in contrasto con l’art. 19, comma 2, l. 11 febbraio 1992, n. 157 e quindi considerata in violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.; la sentenza ha accolto la censura osservando che la riduzione del numero degli ungulati avrebbe inciso sulla consistenza della fauna in base a una decisione unilaterale dell’autorità provinciale fondata sul mancato rispetto di un regolare piano di abbattimento e prescindendo dal parere dell’istituto nazionale per la fauna selvatica, il cui ruolo di organo di consulenza non solo dello Stato, ma anche delle Regioni e delle Province autonome, è stato riconosciuto dalla Corte (sentenze n. 210 del 2001 e n. 4 del 2000) proprio al fine di un controllo efficace degli standard uniformi di tutela della fauna selvatica. Si segnala, da ultimo, che la sentenza ha accolto (par. 12 del Considerato in diritto) la questione di costituzionalità dell’art. 22 l.p. Bolzano n. 10 del 2007, che aveva introdotto nella l.p. n. 14 del 1987 l’art. 38-bis, recante disposizioni di coordinamento tra la disciplina venatoria provinciale e la disciplina sanzionatoria penale posta dalla l. n. 157 del 1992. La sentenza ha riscontrato la violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale (art. 117, secondo comma, lett. s), anche se in tal modo ha sterilizzato l’art. 23 dello Statuto del Trentino-Alto Adige/Südtirol, secondo cui «La Regione e le Province utilizzano – a presidio delle norme contenute nelle rispettive leggi – le sanzioni penali che le leggi dello Stato stabiliscono per le stesse fattispecie»: per un approfondimento si rinvia al Cap. XXXIV Rapporti Stato – Regioni – Enti locali b. competenze legislative e amministrative. La sentenza ha invece dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 9-bis, comma 3 l.p. Bolzano n. 14 del 1987, introdotto dall’art. 5, comma 1, l.p. n. 10 del 2007 e all’art. 16 della predetta l.p. n. 10 del 2007, per la mancata indicazione delle questioni medesime nella delibera del Consiglio dei Ministri che aveva deciso la proposizione del ricorso.
In tema di caccia, infine, è pervenuta alla Corte, su ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 4, l.r. Toscana 12 gennaio 1994, n. 3 (come modificato dall’art. 11 l.r. 10 giugno 2002, n. 20), che per l’esercizio del prelievo venatorio consentiva di tenere i richiami vivi privi di anello. Il Gip aveva osservato che analoga questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto l’art. 26, comma 5, l.r. Lombardia 16 agosto 1993, n. 26 (sostituito dall’art. 2 l.r. 7 agosto 2002, n. 19) era stata accolta dalla Corte (sent. n. 441 del 2006, in Viva Vox 2006, 258-259 e 723) e che la questione era rilevante nel giudizio a quo, avente per oggetto la richiesta di emissione di decreto penale di condanna avanzata dal pubblico ministero nei confronti di un soggetto imputato del reato di cui agli artt. 5, comma 7, 21, comma 1, lett. p), e 30, comma 1, lett. h), l. 11 febbraio 1992, n. 157. La Regione Toscana, costituitasi in giudizio, ha informato di aver modificato la norma impugnata con l’art. 1 l.r. 4 aprile 2007, n. 19, introducendo il divieto di uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile. La novità legislativa non ha carattere retroattivo ma la Corte, in via preliminare, con l’ord. n. 36 ha ritenuto necessario il riesame della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione sulla base dello jus superveniens e pertanto ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo.


5. La protezione degli animali.
(s. 220; s. 387)

La disciplina regionale che ha fatto seguito al d.lgs. 21 marzo 2005, n. 73, di attuazione della direttiva 1999/22/Ce del 29 marzo 1992 sulla custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici, ha dato luogo nel 2008 a due sentenze della Corte costituzionale, la prima soltanto di rito, l’altra invece di merito.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha impugnato gli artt. 3 e 4 della l.r. Valle d’Aosta 29 dicembre 2006, n. 34, sui parchi faunistici, denunciando la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., ma anche dello statuto regionale valdostano. A fronte di questa duplice prospettazione, la sent. n. 220 ha osservato in via preliminare che nel ricorso mancava una puntuale individuazione del regime costituzionale di ripartizione delle competenze rispetto al quale sarebbero risultate illegittime la disposizioni impugnate. In particolare il ricorso non aveva chiarito se parametro delle questioni sollevate dovessero ritenersi le norme statutarie valdostane sulla competenza legislativa primaria in materia di fauna (art. 2, lett. d) e sul parallelismo per la titolarità delle funzioni amministrative (art. 4), ovvero le norme degli artt. 117 e 118 Cost. relative alle Regioni ordinarie. La sentenza ha attribuito a questo vizio di prospettazione un valore non meramente formale giacché, pur prescindendo dalla necessità per il ricorrente di argomentare sull’art. 10 l.c. 18 ottobre 2001, n. 3, circa l’applicabilità a una Regione ad autonomia speciale delle norme costituzionali contenute negli artt. 117 e 118 Cost., non era possibile ricostruire l’esatto perimetro del thema decidendum, a causa del differente regime di riparto delle competenze normative e amministrative stabilito dalla Costituzione rispetto a quello previsto dallo statuto speciale di autonomia. La sentenza ha pertanto dichiarato l’inammissibilità delle questioni proposte dal ricorso.
L’altro giudizio ha riguardato l’art. 19-ter della l.p. Bolzano 17 luglio 1987, n. 14 (introdotto dall’art. 13 l.p. Bolzano 12 ottobre 2007, n. 10), impugnato dal Governo perché considerato per cinque distinti aspetti in contrasto con varie disposizioni del d.lgs. n. 73 del 2005, in violazione degli standard uniformi di tutela di competenza esclusiva statale, ex art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.
Le questioni così proposte sono state decise dalla sent. n. 387 (parr. 6-10 del Considerato in diritto), che ha innanzi tutto analizzato la disciplina posta dalla direttiva comunitaria e dal d.lgs. 21 marzo 2005, n. 73, ricavando da tale disciplina che la finalità primaria dei giardini zoologici, consistente nell’esposizione degli animali selvatici, implica come necessaria premessa il fine protettivo e conservativo. Nella legislazione vigente i giardini zoologici tendono ad assimilarsi sempre più a parchi, artificialmente costruiti, che possano unire alla conservazione delle specie animali in condizioni prossime a quelle naturali, fini di istruzione e di svago, nel rispetto del benessere degli esemplari custoditi e delle condizioni idonee alla soddisfazione delle loro esigenze biologiche. La sentenza ha quindi inquadrato i giardini zoologici nella materia, di competenza provinciale, dei «parchi per la protezione della flora e della fauna» (art. 8, n. 16, St. T.-A.A./Südtirol). Il riconoscimento dell’autonomia provinciale comporta peraltro la soggezione ai limiti ed ai condizionamenti che derivano dalla competenza statale generale in materia di tutela dell’ambiente, e in particolare agli standard uniformi per la tutela della fauna selvatica dettati dallo Stato, con la conseguenza che la difformità della normativa provinciale rispetto a quella statale, nelle parti in cui possono essere messi a rischio gli standard uniformi, implica l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., rispetto al quale la legge dello Stato opera come norma interposta.
Sulla base di questo inquadramento generale la sentenza ha dichiarato illegittimo il comma 1 dell’art. 19-ter l.p. Bolzano n. 14 del 1987, che escludeva dall’applicazione della disciplina sui giardini zoologici i circhi, i negozi di animali da compagnia, i centri di allevamento di fauna selvatica, le strutture per la detenzione di uccelli a scopo ornamentale e amatoriale, nonché la detenzione di specie ittiche non protette. La difformità rispetto a quanto previsto dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 73 del 2005 è stata considerata evidente e tale da incidere direttamente sulla tutela degli standard uniformi, in quanto l’individuazione delle eccezioni alle regole generali sui giardini zoologici restringe l’area della tutela e non tollera quindi variazioni nelle diverse parti del territorio nazionale.
Del pari è stata accolta la questione di legittimità costituzionale del comma 2 del predetto art. 19-ter l.p. Bolzano n. 14 del 1987, che aveva attribuito all’Osservatorio faunistico provinciale il compito di stabilire, per ogni singola specie, i requisiti strutturali ed organizzativi per l’apertura di un giardino zoologico, le modalità e gli obblighi concernenti la sua conduzione e i motivi e le condizioni per la sua chiusura. Tale ampia discrezionalità nella determinazione dei requisiti per l’apertura e delle condizioni per la chiusura di un giardino zoologico, conferita all’organo provinciale, è stata considerata in contrasto con la competenza esclusiva statale a determinare gli standard uniformi di tutela della fauna, competenza dallo Stato per mezzo degli artt. 3 e 4, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 73 del 2005. I requisiti in oggetto, secondo la sentenza, non possono essere stabiliti dall’autorità provinciale nell’ambito di una previsione generica come quella operata dalla norma impugnata, ma devono essere puntualmente riscontrati in base all’elencazione dettagliata contenuta nelle norme statali. La sentenza ha quindi affermato, pur senza nominarlo espressamente, il principio di legalità sostanziale, nel caso di specie quale strumento di garanzia degli standard uniformi di tutela della fauna.
Le altre questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’art. 19-ter l.p. Bolzano n. 14 del 1987 sono state invece rigettate.
Sul presupposto che debba essere sempre accertata in concreto la sussistenza dei requisiti minimi fissati dalla legge statale, l’attribuzione all’assessore provinciale del potere di rilasciare o negare la licenza per l’apertura di un giardino zoologico (comma 3) non incide sulla garanzia del rispetto degli standard minimi, ma costituisce una funzione amministrativa che, ai sensi delle norme di attuazione dello statuto speciale in materia di caccia e agricoltura (d.P.R. 22 marzo 1974, n. 279, art. 1), spetta alla Provincia autonoma di Bolzano. Si riespande quindi, a questo proposito, la competenza primaria della Provincia di Bolzano.
Le funzioni ispettive strumentali alla proroga o alla modifica di una licenza e quelle di sorveglianza sulla gestione dei giardini zoologici, attribuite (commi 4 e 6) all’Osservatorio faunistico provinciale, ineriscono naturalmente alle competenze amministrative, devolute alla Provincia autonoma di Bolzano dalle medesime norme di attuazione dello Statuto regionale.
Infine la previsione (comma 5) che la licenza rilasciata per le specie appartenenti alle famiglie dei canidi, mustelidi, felidi, cervidi e bovidi sostituisca, ad ogni effetto, limitatamente ai giardini zoologici, la dichiarazione di idoneità rilasciata dalla Commissione scientifica CITES, istituita in esecuzione della Convenzione di Washington sul commercio internazionale di specie di flora e fauna minacciate di estinzione, è più restrittiva dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 73 del 2005, secondo cui il rilascio della licenza sostituisce sempre la dichiarazione di idoneità di cui sopra. La normativa provinciale si presenta sul punto più restrittiva e quindi più rigorosa sul piano della tutela della fauna. La limitazione della competenza primaria provinciale in materia di parchi è fondata sull’esigenza di attribuire allo Stato la fissazione degli standard minimi e uniformi di tutela; pertanto quando la legge provinciale non scenda sotto la soglia minima di tutela, ma, al contrario, detti norme di maggior rigore sulla protezione della fauna, la competenza provinciale non può subire compressioni.


6. Le foreste e la conservazione degli habitat naturali.
(s. 104; s. 105; s. 329)

La Regione Veneto ha impugnato l’art. 1, comma 1082, della legge finanziaria 2007 (l. 27 dicembre 2006, n. 296), che aveva previsto un programma quadro per il settore forestale, lamentando la lesione della propria competenza residuale-esclusiva (art. 117, quarto comma, Cost.). La questione è stata dichiarata infondata dalla sent. n. 105, la quale ha colto l’occasione per un’ampia ricostruzione dei principi in materia. Secondo la sentenza, la caratteristica propria dei boschi e delle foreste è quella di esprimere una multifunzionalità ambientale oltre a una funzione economico produttiva. Sullo stesso bene della vita, boschi e foreste, insistono due beni giuridici: un bene giuridico ambientale, in riferimento alla multifunzionalità ambientale del bosco, e un bene giuridico patrimoniale, in riferimento alla funzione economico produttiva del bosco stesso (per l’esistenza di più beni giuridici tutelati sull’unitario bene ambientale v. già la sent. n. 378 del 2007, in Viva Vox 2007, 255). La sentenza ha trovato motivi di conferma della multifunzionalità ambientale dei boschi in una ricca disciplina internazionale, comunitaria e nazionale, da essa richiamata, e ha affermato che il perseguimento delle finalità ambientali è imposto appunto da obblighi internazionali e comunitari, oltre che dalla competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e degli ecosistemi. La sentenza ha poi rilevato che il programma quadro disciplinato dalla disposizione impugnata non è imposto alle Regioni, ma costituisce una semplice proposta di accordo presentata dal Ministero per le politiche agricole e forestali e dal Ministero dell’ambiente alla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province di Trento e Bolzano, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281. Trattandosi di una semplice proposta, non è prospettabile una lesione delle competenze regionali e tanto meno del principio di leale collaborazione, in quanto la proposta può essere accettata in tutto o in parte, o non essere accettata dalle Regioni e dalle Province autonome, come espressamente previsto dall’art. 4, secondo comma, del d.lgs. n. 281 del 1997. La sentenza ha pertanto escluso la violazione delle competenze regionali in materia di funzione economico produttiva dei boschi. La sentenza ha dichiarato infondata anche la censura regionale di violazione delle competenze regionali derivanti dalla fissazione con delibera del CIPE dei limiti di utilizzabilità del fondo. Infatti anche detti limiti sono stabiliti con un pieno coinvolgimento delle Regioni, le quali, accettando l’accordo, accettano anche che i limiti di utilizzabilità del fondo siano stabiliti con delibera del CIPE, alle cui riunioni partecipa in via ordinaria anche il presidente della Conferenza dei presidenti delle Regioni.
Altre importanti affermazioni di carattere generale sulla materia dell’ambiente si trovano nella decisione della Corte avente per oggetto l’art. 1, comma 1226, della legge finanziaria 2007 (l. 27 dicembre 2006, n. 296, che, al fine di prevenire ulteriori procedure di infrazione, aveva fatto obbligo alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano di imporre le misure di salvaguardia sui siti di importanza comunitaria (SIC) e le misure di conservazione sulle zone speciali di conservazione (ZSC) e sulle zone di protezione speciale (ZPS), adempimenti previsti dagli artt. 4 e 6 del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), e successive modificazioni, o al loro completamento, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, sulla base di criteri minimi uniformi definiti con apposito decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
La disposizione è stata impugnata dalle Regioni Veneto e Lombardia e dalle Province autonome di Trento e Bolzano, per motivi solo in parte coincidenti. La Corte, riuniti i giudizi, li ha decisi con la sent. n. 104.
La censura, proposta dalla Regione Lombardia, di violazione degli artt. 3 e 97 Cost. è stata dichiarata inammissibile in quanto generica e non conforme al consolidato orientamento secondo cui le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza regionali. Anche le censure di violazione del principio di leale collaborazione e degli artt. 117, 118 e 120 Cost. avanzate dalle due Regioni ordinarie sono state dichiarate infondate. A questo riguardo la sentenza ha ricordato ampiamente principi già affermati nella precedente giurisprudenza e in particolare nella sent. n. 378 del 2007 (in Viva Vox 2007, 266-268): la competenza a tutelare l’ambiente e l’ecosistema nella sua interezza è affidata in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., e per «ambiente ed ecosistema», come affermato dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, deve intendersi quella parte di biosfera che riguarda l’intero territorio nazionale; spetta allo Stato disciplinare l’ambiente come un’entità organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parte del tutto, tenendo conto che la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario e assoluto, e deve garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale inderogabile dalle altre discipline di settore; accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario possono coesistere altri beni giuridici aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi, giuridicamente tutelati, cosicché si può parlare dell’ambiente come materia trasversale, nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell’ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni; in questi casi, la disciplina unitaria di tutela del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materia di competenza propria, che riguardano l’utilizzazione dell’ambiente e quindi altri interessi; ciò comporta che la disciplina statale relativa alla tutela dell’ambiente funziona come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, salva la facoltà di queste ultime di adottare norme di tutela ambientale più elevata nell’esercizio di competenze, previste dalla Costituzione, che vengano a contatto con quella dell’ambiente. Il riconoscimento all’ambiente della natura di materia trasversale (sent. n. 246 del 2006, in Viva Vox 2006, 240) va inteso nel senso descritto, ma non comporta che esso non sia una materia in senso tecnico. Al contrario, l’ambiente è un bene giuridico, che, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., funge anche da discrimine tra la materia di competenza esclusiva statale e le altre materie di competenza regionale. Nella competenza statale rientra la definizione dei livelli uniformi di protezione ambientale: pertanto la sentenza ha rigettato la censure mosse dalle Regioni Veneto e Lombardia alla disposizione impugnata la quale, come si è ricordato, imponeva loro di uniformarsi a un emanando decreto ministeriale nell’imporre le misure di salvaguardia sui siti di importanza comunitaria (SIC) e le misure di conservazione sulle zone speciali di conservazione (ZSC) e sulle zone di protezione speciale (ZPS).
La sentenza, per contro, ha affermato una soluzione diversa per le Province autonome di Trento e Bolzano. Essa ha respinto le censure di violazione della competenza provinciale in molte materie, quali agricoltura, caccia e pesca, agricoltura e foreste, beni demaniali e patrimoniali, urbanistica e opere pubbliche, igiene e sanità, escludendo che dal complesso di queste materie si possa derivare una competenza generale delle Province in materia di ambiente. Però la sentenza ha dato rilievo alla potestà legislativa primaria provinciale in materia di «parchi per la protezione della flora e della fauna» (art. 8, n. 16, st. Trentino-Alto Adige/Südtirol). Richiamati i precedenti della giurisprudenza costituzionale secondo cui spetta alle Province autonome dare concreta attuazione per il loro territorio alla direttiva 92/43/CEE (sentenze n. 425 del 1999 e n. 378 del 2007, in Viva Vox 2007, 254-256) e le norme di attuazione dello statuto sul ruolo delle Province rispetto alla normativa comunitaria (art. 7 d.P.R. n. 526 del 1987) e sui rapporti tra legislazione statale e legislazione provinciale (art. 2 d.lgs. n. 266 del 1992), la sentenza ha affermato che lo Stato non può imporre alle Province autonome di conformarsi, nell’adozione delle misure di salvaguardia e delle misure di conservazione, ai criteri minimi uniformi di un emanando decreto ministeriale.
La sentenza illustrata ha costituito la base per la decisione del conflitto di attribuzioni sollevato dalla sola Provincia di Trento nei confronti del provvedimento emanato in attuazione della disposizione di legge dichiarata illegittima nei confronti delle Province, il d.m. 17 ottobre 2006, recante «Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)». Il conflitto era stato sollevato non solo in via derivata, per l’illegittimità costituzionale della disposizione legislativa che ne costituiva il fondamento, ma anche in ragione di vizi propri del provvedimento, ulteriori ed autonomi. La sent. n. 329 non ha esaminato questi ulteriori vizi ma ha riconosciuto che la sopravvenuta caducazione, per illegittimità costituzionale, della norma legislativa di base aveva fatto venire meno anche la legittimità del decreto ministeriale da essa previsto. Gli articoli da 1 a 7 e relativi allegati del decreto medesimo, pertanto, sono stati pertanto annullati, in quanto lesivi delle attribuzioni costituzionali della Provincia autonoma di Trento. Come normalmente accade in casi del genere, gli effetti della pronuncia, fondandosi su motivi comuni a entrambe le Province autonome, sono stati estesi anche alla Provincia autonoma di Bolzano.


7. La tutela del paesaggio.
(s. 180; s. 232; o. 295; s. 437)

In materia di paesaggio la Corte costituzionale aveva pronunciato di recente un’importante sentenza (sent. n. 367 del 2007, in Viva Vox 2007, 268-273), con la quale aveva confermato la precedente giurisprudenza costituzionale sul valore primario e assoluto del paesaggio e aveva rigettato tutte le censure mosse dalle Regioni nei confronti del Codice dei beni culturali (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, come modificato dal d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157) circa la ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. L’impostazione di quella sentenza è stata tenuta ferma anche nelle sentenze del 2008, di cui una riguarda la pianificazione paesaggistica e le altre due i provvedimenti di autorizzazione paesaggistica.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha impugnato la legge regionale piemontese sul Parco fluviale Gesso e Stura nella parte in cui stabiliva che il piano d’area del parco è efficace anche per la tutela del paesaggio ai fini e per gli effetti di cui all’art. 143 del d.lgs. n. 42 del 2004 e ai sensi dell’art. 2 della l.r. 3 aprile 1989, n. 20, in materia di tutela di beni culturali, ambientali e paesistici (l.r. Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3, art. 12, comma 3). La disposizione impugnata era censurata per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., secondo cui la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali è compresa nella potestà legislativa esclusiva dello Stato. Il ricorso denunciava che l’attribuzione al piano d’area del valore anche di piano per la salvaguardia del paesaggio del territorio del Parco avrebbe pregiudicato la sovraordinazione funzionale, ovvero la prevalenza, della pianificazione paesaggistica rispetto non solo alla pianificazione territoriale ed urbanistica degli enti territoriali, ma anche agli atti di pianificazione a incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette, come disposto dai principi fondamentali di cui al d.lgs. n. 42 del 2004. A questa censura la Regione replicava sostenendo che il piano d’area del parco (disciplinato dall’art. 23 l.r. Piemonte 22 marzo 1990, n. 12, modificato dall’art. 7 l.r. 21 luglio 1992, n. 36) non è un semplice atto di pianificazione dell’ente gestore, ma è un piano della Regione che lo approva; esso è quindi strumento di pianificazione paesaggistica regionale, prevale sulla strumentazione urbanistica e territoriale locale di qualsiasi tipo sostituendosi ad essa, e non è recessivo rispetto ad esigenze diverse da quelle paesaggistiche.
Il ricorso del Governo è stato accolto con la sent. n. 180, la quale ha dato rilievo al principio di prevalenza dei piani paesaggistici sugli altri strumenti urbanistici, posto dall’art. 145, comma 3, del Codice dei beni culturali. La sentenza ha dato atto che il Codice dei beni culturali, già modificato per la parte relativa al paesaggio dal d.lgs. n. 157 del 2006, successivamente al deposito del ricorso era stato ulteriormente modificato dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63; queste ultime modifiche, tuttavia, non avevano inciso sul principio di prevalenza dei piani paesaggistici e anzi l’avevano rafforzato. La sentenza ha poi richiamato la sent. n. 367 del 2007 per ribadire la distinzione tra gli interessi concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e gli interessi riguardanti il governo del territorio e la valorizzazione di beni culturali e ambientali, attribuiti dall’art. 117, terzo comma, Cost. alla potestà legislativa concorrente. La sentenza ha quindi dichiarato illegittima la disposizione impugnata, riscontrando nella sostituzione del piano d’area del parco Stura al piano paesaggistico un’alterazione dell’ordine di prevalenza che la normativa statale, alla quale è riservata tale competenza, detta tra gli strumenti di pianificazione paesaggistica. Secondo la sentenza l’art. 145, comma 3, del Codice dei beni culturali ha una duplice funzione: è norma interposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., ed esprime un principio fondamentale ai sensi del terzo comma dello stesso art. 117 (in riferimento alla materia del governo del territorio).
La sentenza non ha preso in considerazione l’argomento, pur prospettato dalla difesa della Regione Piemonte, che il piano del parco è piano della Regione che provvede specificamente alla tutela paesaggistica dell’ambito considerato. In effetti il Codice dei beni culturali ammette, in alternativa ai piani paesaggistici, anche piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici (art. 135, comma 1, nel testo sia antecedente che successivo alla sostituzione dell’intero articolo disposta dal d.lgs. n. 63 del 2008). Nel caso di specie la Regione Piemonte aveva scelto di integrare la pianificazione paesaggistica nel piano d’area del parco, soggetto ad approvazione regionale e destinato a sostituire la strumentazione territoriale ed urbanistica di qualsiasi livello: era dunque escluso un problema di rapporti tra la pianificazione paesaggistica regionale, realizzata attraverso il piano d’area del parco, e pianificazioni diverse. Si può dubitare, quindi, che il problema della gerarchia dei piani fosse rilevante. Sembra piuttosto che il vero problema proposto dalla disposizione regionale piemontese, ma non adeguatamente chiarito dalla difesa regionale e rimasto irrisolto nella sentenza della Corte, fosse quello dell’ammissibilità di una pianificazione paesaggistica regionale specifica per il parco regionale Gesso e Stura, da realizzarsi tramite il piano d’area del parco, distinta dalla pianificazione paesaggistica per il restante territorio regionale. A questo riguardo la sent. n. 182 del 2006 (in Viva Vox 2006, 203-206), pur citata in motivazione, nel risolvere un diverso problema di rapporto tra la pianificazione paesaggistica regionale (della Toscana) e quella comunale, aveva affermato che il piano, sia esso tipicamente paesaggistico, o anche urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, deve essere unitario, globale, e quindi regionale. La Corte potrà, forse, in futuro chiarire se questa affermazione vada intesa nel senso che la pianificazione paesistica regionale debba essere unitaria per l’intero territorio regionale o possa essere scissa in piani distinti, per parti specifiche del territorio regionale, e se la partecipazione del Ministero per i beni e le attività culturali all’elaborazione dei piani paesaggistici regionali (d.lgs. n. 42 del 2004, art. 143, che disciplina la copianificazione) abbia carattere necessario, quanto meno per determinate categorie di beni paesaggistici (art. 135, comma 1, del Codice per i beni culturali). La Regione Piemonte, infatti, ha rinnovato completamente la propria disciplina di tutela delle aree naturali e della biodiversità mediante la l.r. 29 giugno 2009, n. 19, che ha disposto l’abrogazione delle precedenti leggi regionali in materia, compresa la l.r. n. 3 del 2007 relativa al parco fluviale Gesso e Stura. Ma la nuova legge regionale è stata impugnata dal Governo (deliberazione del Consiglio dei Ministri del 24 luglio 2009) e il terzo dei quattro motivi di impugnazione ha riproposto (in relazione agli artt. 26, comma 1, e 27, comma 3, della legge impugnata) la censura di violazione del principio di prevalenza del piano paesaggistico (art. 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio), e quindi di violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., richiamando la sent. n. 180 del 2008.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha impugnato anche una disposizione di legge regionale della Puglia in tema di gestione del demanio marittimo, la quale aveva consentito il mantenimento per l’intero anno delle strutture precarie e amovibili di facile rimozione, funzionali all’attività turistico-ricreativa e già autorizzate per il mantenimento stagionale, anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica (art. 11, comma 4-bis, l.r. 23 giugno 2006, n. 17, introdotto dall’art. 42 l.r. 16 aprile 2007, n. 10). Il ricorso del Governo denunciava la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., in relazione all’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che assoggetta ad autorizzazione paesaggistica le modificazioni degli immobili e delle aree tutelate per legge, tra cui rientrano i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 200 metri dalla linea di battigia (art. 142, comma 1, lett. a).
La sent. n. 232 ha accolto il ricorso del Governo, ricordando i precedenti secondo cui la tutela ambientale e paesaggistica ha per oggetto un bene complesso ed unitario che costituisce un valore primario e assoluto e rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 367 del 2007, in Viva Vox 2007, 268-273; n. 182 del 2006, in Viva Vox 2006, 282). Le leggi regionali, emanate nell’esercizio della potestà concorrente o residuale (art. 117, terzo e quarto comma, Cost.), possono assumere tra i propri scopi anche indirette finalità di tutela ambientale (sent. n. 232 del 2005, in Viva Vox 2005, 242 e 635-636), ma non possono introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale, tra cui va annoverata l’autorizzazione paesaggistica. La norma impugnata consentiva il mantenimento delle opere precarie da essa considerate oltre il periodo autorizzato in relazione alla durata della stagione balneare in mancanza della necessaria positiva valutazione di compatibilità paesaggistica e pertanto è stata dichiarata costituzionalmente illegittima.
La terza sentenza della Corte in materia di tutela del paesaggio ha deciso i ricorsi con i quali il Presidente del Consiglio dei Ministri ha impugnato due disposizioni di legge regionale della Basilicata (art. 1 l.r. 22 ottobre 2007, n. 17; art. 1 l.r. 26 novembre 2007, n. 21) per violazione dell’art. 9 Cost., della potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. s, Cost.), dell’art. 118, terzo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione (art. 120 Cost.). La Regione si è difesa sostenendo che i ricorsi avevano erroneamente ricondotto la disciplina denunciata alla materia dell’ambiente, mentre essa avrebbe soltanto chiarito aspetti lacunosi della precedente legislazione regionale in materia urbanistica. La sent. n. 437 ha riunito i giudizi e ha accolto i ricorsi dopo aver ricostruito il sistema complessivo in cui si inserivano le disposizioni impugnate. Queste ultime sono state intese come tali da introdurre una procedura autorizzatoria semplificata che invece l’art. 143, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio consente (in relazione alle lettere a) e b) del comma 4) soltanto a seguito di piano elaborato d’intesa tra Regione, Ministero per i beni e le attività culturali e Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio. La sentenza ha quindi ritenuto che la normativa censurata avesse degradato la tutela paesaggistica, che è prevalente, in una tutela meramente urbanistica, con conseguente contrasto con l’art. 156, comma 4, del Codice, in base al quale è esclusa la possibilità di dare applicazione all’art. 143, comma 5, sulle procedure autorizzatorie semplificate, nella fase di verifica e adeguamento dei piani paesaggistici, in assenza di intesa tra Stato e Regione per lo svolgimento della verifica e dell’adeguamento predetti.
Infine il Consiglio di Stato ha sollevato con due ordinanze di identico contenuto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 3, del Codice dei beni culturali, come sostituito dall’art. 26 del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157, in quanto il potere della Soprintendenza di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche, in precedenza limitato ai profili di legittimità, sarebbe stato esteso anche a ragioni di merito, in violazione della legge di delega e quindi dell’art. 76 Cost., nonché del principio di sussidiarietà (verticale) posto dall’art. 118 Cost. La Corte si era già pronunciata sul punto con la sent. n. 367 del 2007 (in Viva Vox 2007, 272), escludendo l’interpretazione sostenuta dal Consiglio di Stato. Tuttavia, dopo l’instaurazione del giudizio l’art. 159 del Codice dei beni culturali e del paesaggio è stato sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. hh), del d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63; l’ord. n. 295 ha quindi disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente per una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione. E poiché, poco dopo l’ordinanza della Corte, l’art. 159 del Codice dei beni culturali è stato ulteriormente sostituito con un nuovo testo (d.l. 3 giugno 2008, n. 97, art. 4-quinquies, comma 1, aggiunto, in sede di conversione, dalla l. 2 agosto 2008, n. 129), si intende che questa nuova valutazione debba essere svolta alla luce del testo normativo ora vigente.


8. Beni e attività culturali.
(o. 353)

Il Presidente del Consiglio ha impugnato l’art. 1, comma 2, l.r. Emilia-Romagna 27 luglio 2007, n. 19, secondo cui la Regione era autorizzata, al fine di tutelare e valorizzare il proprio patrimonio culturale, a partecipare all’Associazione dell’Emilia-Romagna delle rievocazioni storiche (AERRS).
Il ricorso del Governo censurava la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., perché la disposizione impugnata si proponeva la finalità della tutela dei valori ambientali e culturali, riservata in via esclusiva allo Stato. Secondo il ricorso, inoltre, la mancanza di un richiamo espresso ai procedimenti previsti dal Codice dei beni culturali (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 art. 5, commi 4 e 5) si sarebbe tradotta in violazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., secondo cui spetta alla legge statale prevedere forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali.
La Regione si è difesa semplicemente ricordando che le rievocazioni sono manifestazioni attraverso le quali le città e i paesi ricordano il proprio passato, mediante sfilate in costume, rappresentazioni di eventi storici particolarmente significativi e altre forme di celebrazione coreografica, musicale o di ogni altra natura, rivolte a suscitare il ricordo del passato, per rafforzare il senso di identità della comunità locale. La norma censurata, inoltre, era estranea alla materia «tutela dei beni culturali», considerati sia sotto il profilo della tutela che sotto quello della valorizzazione, giacché i beni culturali, secondo il relativo Codice, sono cose materiali e cioè oggetti fisicamente individuati. Infine la norma non pretendeva di disciplinare le rievocazioni storiche, né prevedeva alcun potere al riguardo, ma si limitava a consentire l’adesione della Regione a una preesistente associazione, nell’esercizio di facoltà o poteri di diritto comune. E, in effetti, l’impugnazione statale si può spiegare solo con una singolare incapacità del Governo di valutare la portata della legge e con un abbaglio sul significato dell’uso del termine tutela nello specifico contesto. La Regione, peraltro, nel corso del giudizio ha modificato la norma impugnata sostituendo le parole «Al fine di tutelare e valorizzare» con le parole «Al fine di valorizzare» (l.r. 21 dicembre 2007, n. 24, art. 46). Questa modifica, del tutto ininfluente sul contenuto normativo della legge modificata, è stata sufficiente per indurre il Presidente del Consiglio dei ministri alla rinuncia al ricorso, accettata dalla Regione: pertanto con l’ord. 353 la Corte ha dichiarato l’estinzione del giudizio.


9. Ulteriori rinvii.
(s. 241; o. 382)

Il Tar della Puglia, sezione di Lecce, ha sollevato, con diverse ordinanze, questione di legittimità costituzionale di tre leggi regionali recanti istituzione di parchi naturali (l.r. Puglia 10 luglio 2006, n. 20; l.r. Puglia 28 maggio 2007, n. 13; l.r. Puglia 26 ottobre 2006, n. 30), per violazione degli artt. 3 e 97 Cost. La Corte con la sent. n. 241 ha rigettato le eccezioni di inammissibilità delle questioni così proposte, le quali peraltro sono state dichiarate tutte infondate: per l’illustrazione della ricca motivazione della sentenza, che ha affrontato il delicato problema delle leggi-provvedimento, si rinvia al Cap. X Organizzazione e procedimenti amministrativi; bilanci pubblici.
La Corte ha definito con separata ordinanza un altro giudizio di legittimità costituzionale, promosso sempre dal Tar della Puglia, sezione di Lecce, sulla l.r. n. 13 del 2007, già oggetto della sent. n. 241; l’ord. n. 382 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione, non risultando addotti profili o argomenti diversi o ulteriori rispetto a quelli già valutati.

 

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* La presente rassegna costituisce il capitolo XVI, Ambiente, beni e attività culturali, di Viva Vox Constitutionis 2008. Temi e tendenze della giurisprudenza costituzionale dell’anno 2008, a cura di Valerio Onida e Barbara Randazzo, in corso di pubblicazione nella collana del Centro di Studi sulla Giustizia della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, Milano, Giuffrè. Si ringraziano i curatori e l’editore.

 

(pubblicato il 4 dicembre 2009)

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