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n. 10-2004 - © copyright |
STEFANO TARULLO
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Costituzione europea ed
effettività della tutela giurisdizionale amministrativa
1. Introduzione. – 2.
L’art. II-107 del “Trattato che adotta una Costituzione
per l'Europa”. – 3. La “effettività della
tutela”. – 4. Il “giusto processo”. – 5.
Segue: sovrapponibilità tra i due concetti. – 6.
Il ruolo dei giudici nazionali. – 7. Conclusioni.
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1. Da tempo l’ordinamento
comunitario conosce il principio dell’autonomia
processuale degli Stati membri; esso implica
il rispetto della sfera di libertà dei legislatori
nazionali nell’emanazione delle disposizioni processuali,
pure quando venga in rilievo la tutela delle situazioni
giuridiche soggettive protette in ambito sovranazionale.
In virtù di questo principio ai legislatori nazionali
è lasciata facoltà di scegliere le concrete modalità
tecnico-operative che andranno a caratterizzare
i singoli processi all’interno degli Stati membri:
il tipo di azione proponibile (dichiarativa, costituiva
o di condanna), il plesso giurisdizionale (ordinario
o speciale, individuale o collegiale), il lasso
di tempo entro il quale l’azione va promossa (decadenza,
prescrizione), gli strumenti per portarla ad esecuzione
(esecuzione in via giurisdizionale, amministrativa,
etc.), il modello di pronuncia (sentenza, ordinanza,
decreto), i mezzi di gravame.
Sennonché, il principio anzidetto non opera incondizionatamente:
esso presenta, quale primario correttivo e limite,
il principio di non discriminazione o di
equivalenza, in forza del quale ogni Stato
della Unione è tenuto comunque a garantire alla
situazione giuridica soggettiva protetta dal diritto
sovranazionale un regime di tutela giurisdizionale
non deteriore rispetto a quello assicurato alle
analoghe situazioni giuridiche soggettive del diritto
interno.
Un secondo correttivo al principio di autonomia
processuale si rinviene nel principio di effettività
della tutela giurisdizionale, secondo il quale
il corpus delle regole processuali nazionali
non deve essere tale da rendere impossibile o anche
(solo) eccessivamente difficile la garanzia del
diritto del singolo.
Stando alla elaborazione della Corte di Giustizia
tale ultimo principio sembra comportare quantomeno:
l’indefettibile possibilità di ricorso al giudice
(enforceability) in relazione ad ogni interesse
protetto e senza eccessive restrizioni (right
to judge); l’adeguatezza dei mezzi di tutela
giurisdizionale rispetto agli interessi dedotti
in giudizio ed alle utilitates che si vogliono
conseguire, e quindi - in definitiva - la compiutezza
dello strumentario processuale (effettività/adeguatezza);
l’azionabilità delle pretese risarcitorie nascenti
dalla lesione di posizioni rilevanti per il diritto
comunitario (effettività/completezza o effettività/pienezza);
la ragionevolezza dei tempi del pronunciamento rispetto
alla natura della lite (effettività/tempestività);
la garanzia della fedeltà delle decisioni al diritto
comunitario così come interpretato dalle istituzioni
della C.E., e segnatamente dalla Corte di Giustizia,
in funzione della uniforme applicazione della disciplina
sovranazionale (effettività/fedeltà).
Nel contesto comunitario, dalla combinazione dei
due principi/correttivi della non discriminazione
e dell’effettività della tutela, costantemente reiterati
nelle pronunce della Corte lussemburghese, si evince
che il primo è suscettibile di operare, di fatto,
solo quando il livello di tutela offerto dall’ordinamento
interno sia più elevato di quello garantito dal
diritto comunitario, ossia quando il sistema nazionale
si presenti, sul piano dei rimedi giurisdizionali,
più ricco, articolato e celere di quello europeo
in relazione ad una situazione giuridica soggettiva
presa in considerazione da entrambi. In tale ipotesi,
infrequente ma non suscettibile di aprioristica
esclusione, si realizza un livellamento “verso l’alto”
della tutela giurisdizionale, che previene ogni
trattamento discriminatorio e consente alla posizione
qualificata di rango comunitario di beneficiare
dell’applicazione delle più efficaci regole processuali
dettate dal sistema nazionale.
Può però accadere che sia lo standard comunitario
a risultare più elevato di quello interno - e così
è sempre stato, sinora, per quanto concerne i rapporti
con il sistema italiano di giustizia amministrativa
-, ed allora sarà il diritto comunitario a fornire
il “livello di riferimento” rispetto al quale la
tutela non dovrà essere resa più gravosa. Ecco dunque
che il primo principio/correttivo (equivalenza o
non discriminazione) cede il passo al secondo (effettività
della tutela) il quale, sempre in funzione di una
rimodulazione “verso l’alto” della protezione giurisdizionale,
vincola l’ordinamento nazionale ad assicurare alla
situazione giuridica soggettiva contemplata dal
diritto comunitario lo standard (più elevato)
imposto (stavolta) dai dettami sovranazionali.
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2. Oggi il principio di effettività
della tutela non è più lasciato alla vis creativa
della Corte di Giustizia (in passato giustificata,
beninteso, dal richiamo operato dall’art. 6 del
Trattato CE al rispetto dei diritti fondamentali
enunciati dalla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
del 1950), ma risulta espressamente codificato in
una fonte comunitaria.
Difatti nella Parte II della nuova Costituzione
europea (rectius: “Trattato che adotta una Costituzione
per l'Europa”), e più precisamente nel Titolo
VI (“Giustizia”), compare ora l’art. II-107
che, mutuando la formulazione già presente nella
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
di Nizza (art. 47), contempla il “Diritto a un
ricorso effettivo e a un giudice imparziale”.
Il primo paragrafo dell’art. II-107 recita: “Ogni
persona i cui diritti e le cui libertà garantiti
dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto
a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel
rispetto delle condizioni previste nel presente
articolo”.
Il secondo paragrafo dispone: “Ogni persona ha
diritto a che la sua causa sia esaminata equamente,
pubblicamente e entro un termine ragionevole da
un giudice indipendente e imparziale, precostituito
per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare,
difendere e rappresentare”.
Nel terzo paragrafo, invece, si legge: “A coloro
che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso
il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia
necessario per assicurare un accesso effettivo alla
giustizia”.
Dai precetti ora riportati ricaviamo un’articolazione
molto ricca (e potenzialmente destinata ad arricchirsi
ancora) del principio di effettività della tutela,
che qui di seguito si tenterà di tratteggiare brevemente.
Anzitutto una prima osservazione è che le posizioni
tutelate dal c.d. "diritto comunitario sostanziale"
devono trovare protezione anche in sede giurisdizionale,
e dunque ogni controversia deve avere un suo
giudice, nazionale o comunitario che sia, secondo
condizioni di accesso alle corti (o di legittimazione)
non eccessivamente restrittive o penalizzanti. In
sostanza, il diritto all’effettività della tutela
presenta, quale sua primaria e fondamentale esplicazione
in ambito comunitario, il diritto al giudice (right
to judge) in relazione ai “diritti” ed
alle “libertà garantiti dal diritto dell'Unione”
qualora gli uni o le altre “siano stati violati”.
In secondo luogo, l’esame della controversia deve
essere effettuato in condizioni (lato sensu
ambientali) di serenità e nel contraddittorio delle
parti (presupposti, questi, indefettibili affinché
si pervenga alla “equità” richiamata nel
secondo paragrafo dell’art. II-107, ossia alla realizzazione
del valore della giustizia della decisione) ed in
pubblica udienza (quale garanzia di trasparenza
dell’iter decisionale e di controllo pubblico
sull’esercizio del potere giurisdizionale, che solo
eccezionalmente può esplicarsi in camera caritatis);
il processo deve poi fornire risposta entro un termine
ragionevole, dovendo esso offrire la certezza
che l’applicazione del diritto comunitario avvenga
celermente, in considerazione di una serie di variabili
quali natura e complessità della controversia, condotta
delle parti, etc. (effettività/tempestività).
Ed ancora, il giudice deve essere:
a) precostituito per legge (trova così espresso
riconoscimento il principio di precostituzione del
giudice, o principio del giudice naturale);
b) indipendente (la formula, ampia, sembra
implicare che chi decide debba essere terzo rispetto
alle parti, ma anche libero da legami organici o
condizionamenti di alcun tipo da parte di altri
poteri dello Stato);
c) imparziale (vale a dire, equidistante
rispetto agli interessi dedotti in lite).
Nessuno può essere privato della possibilità di
avvalersi del patrocinio tecnico (“Ogni persona
ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e
rappresentare”); detto patrocinio deve comunque
essere assicurato ai non abbienti, in modo che anche
per questi ultimi la facoltà di scelta (se difendersi
o meno, come e con chi difendersi) rimanga integra.
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3. La locuzione di “effettività”
di cui al paragrafo primo del nuovo art. II-107
deve però essere letta in rapporto alla oramai cinquantennale
giurisprudenza della Corte di Giustizia; in questa
prospettiva essa presenta risvolti ulteriori, in
qualche modo inespressi nella nuova disposizione
della Costituzione europea ma già portati a compiuta
emersione per mano della Corte di Lussemburgo.
La tutela “effettiva” postula che (non soltanto
gli Stati ma anche) i cittadini (“Ogni
persona”) debbano poter disporre di adeguati
mezzi di tutela giurisdizionale, che siano agevolmente
attivabili in relazione al conseguimento di specifiche
utilitates correlate agli interessi processualmente
azionati (effettività/adeguatezza).
Il cittadino che agisce in giudizio ha diritto di
invocare (ma solo il giudice di ultimo grado ha
l’obbligo di disporre) il c.d. rinvio pregiudiziale
interpretativo, volto ad eccitare una pronunzia
sulla compatibilità o meno della normativa nazionale
con quella comunitaria e quindi ad ottenere la fedeltà
del pronunciamento giurisdizionale al diritto comunitario
(effettività/fedeltà).
Non può precludersi l'azione risarcitoria
al cittadino che lamenti la lesione di una propria
situazione soggettiva tutelata dal diritto comunitario
a causa dell'adozione da parte della pubblica amministrazione
di un atto contrastante con la normativa comunitaria
o di un provvedimento esecutivo di un atto comunitario
illegittimo in quanto difforme - esso stesso - dalle
disposizioni del Trattato (effettività/completezza
o effettività/pienezza).
In virtù delle premesse e delle chiarificazioni
che precedono si potrà certamente continuare ad
impiegare la usuale locuzione “diritto all’effettività
della tutela giurisdizionale”, purchè si abbia sempre
presente la sua estrema varietà semantica e, quindi,
la si utilizzi in modo appropriato tenuto conto
di ciascuna delle sue diverse accezioni.
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4. A questo punto è lecito
domandarsi se vi siano connessioni tra il principio
dell’effettività della tutela giurisdizionale, come
forgiato in ambito comunitario, ed il principio
del giusto processo, di recente formulazione in
seno all’art. 111 della nostra Carta Fondamentale
(legge cost. 23 novembre 1999 n.2). Il che è quanto
chiedersi se il nostro ordinamento possa dirsi “al
passo” con le nuove previsioni della Costituzione
europea in tema di effettività della tutela, almeno
per ciò che concerne il processo amministrativo.
E’ oramai un dato acquisito che il principio del
giusto processo trovi esplicazione in qualsiasi
forma di attuazione della funzione giurisdizionale,
al di là dello stretto ambito penale. Non è quindi
revocabile in dubbio che l’attuazione di tale principio
investa direttamente anche il processo amministrativo,
così come il principio di effettività della tutela
poc’anzi esaminato.
La dottrina ha però evidenziato che al principio
del giusto processo dovrebbe riconoscersi una portata
più vasta di quella resa esplicita dal legislatore
costituzionale di fine secolo scorso; sono state
perciò additate ulteriori regole, non immediatamente
ricavabili dalle maglie dell’art. 111, che costituirebbero
parte integrante di un modello ampio ed aperto di
giusto processo, sempre perfettibile - in sede di
interpretazione evolutiva - alla luce della complessiva
trama delle disposizioni costituzionali (il pensiero
corre immediatamente agli artt. 24, 25, 103, 108
e 113 Cost.).
Ciò premesso, affiora con prepotenza un primo elemento
di comunanza tra il principio di effettività della
tutela giurisdizionale ed il principio del giusto
processo: la molteplicità delle articolazioni dalle
quali ciascuno dei due prende sostanza.
In via di estrema sintesi, si può notare che neppure
il principio del giusto processo si presta ad una
definizione unitaria, dovendo piuttosto essere esaminato
in un’ottica prettamente atomistica. Esso, infatti,
implica un sistema di variegate garanzie tese a
contornare l’esercizio della funzione giurisdizionale
sotto il duplice profilo della posizione del giudice
e di quella delle parti. Sulla scorta di un’autorevole
impostazione, in seno a tali garanzie è immaginabile
una summa divisio a seconda che esse si riannodino
ai c.d. principi strutturali o di equità
ovvero ai principi funzionali o di efficienza:
i primi rispondono all’esigenza di assicurare i
presupposti utili ad una soluzione corretta della
vertenza, al fine di realizzare il valore - cui
il processo naturalmente tende - della giustizia
sotto il profilo decisionale; i secondi considerano
invece il processo come strumento efficiente di
giustizia, ossia come mezzo per apprestare una piena
e tempestiva tutela.
Sono riconducibili al canone dell’equità:
il principio di precostituzione (art. 25,
comma 1, Cost.) indipendenza (art. 108, comma
2), terzietà ed imparzialità (art. 111, comma
2) del giudice, nonché il principio del contraddittorio
paritario (art. 111, comma 2), ed il principio
della necessaria motivazione di tutti i provvedimenti
giurisdizionali (art. 111, comma 6). Costituiscono
invece principi di efficienza: il principio
della generalità della tutela giurisdizionale
e della inviolabilità del diritto di difesa
(art. 24, commi 1, 2 e 3 ed art. 113, comma 1),
il principio della pienezza ed adeguatezza
della tutela (art. 113, comma 2) ed il principio
della tempestività della tutela medesima
(art. 111, comma 2).
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5. In questo quadro, se si
hanno presenti le articolazioni del principio di
effettività della tutela descritte poc’anzi è possibile
cogliere una piena sovrapponibilità tra quest’ultimo
principio e quello del giusto processo; si vuole
con ciò affermare che le garanzie apprestate per
la protezione delle situazioni giuridiche soggettive
comunitarie in virtù del principio di effettività
della tutela presentano una marcata coincidenza
con le garanzie che in forza del principio del giusto
processo devono essere applicate in sede di tutela
delle situazioni giuridiche soggettive di rango
nazionale.
Quanto alla indefettibile possibilità di ricorso
al giudice in relazione ad ogni interesse protetto
(right to judge), appare sin troppo ovvio
il richiamo all’art. 24, comma primo, della Costituzione
(ed all’art. 24, comma secondo, per quanto concerne
la garanzia relativa ai “mezzi per agire e difendersi
davanti ad ogni giurisdizione”, che devono essere
assicurati ai non abbienti).
Inoltre, segnatamente per quanto concerne la tutela
di diritti ed interessi legittimi nei confronti
della pubblica amministrazione, sovviene il principio
di piena giustiziabilità degli atti amministrativi
(o, se si preferisce, di piena azionabilità degli
interessi protetti) sancito dall’art. 113, comma
primo, della Carta. Dal combinato disposto dei due
articoli può evincersi il principio della generalità
della tutela giurisdizionale.
In ordine ai profili dell’adeguata e compiuta articolazione
dei mezzi processuali (effettività/adeguatezza)
e della completezza della tutela delle situazioni
giuridiche soggettive (effettività/completezza
o effettività/pienezza), concretantesi in
particolare nell’incondizionata azionabilità del
rimedio risarcitorio nei confronti della pubblica
amministrazione con riferimento a tutti gli interessi
protetti dall’ordinamento, va precisato che essi
- nell’ordinamento nazionale - trovano addentellato
in una peculiare disposizione costituzionale, ancora
una volta collocata al di fuori dell’art. 111 e
concernente le sole controversie tra privato e pubblica
amministrazione: si tratta, come noto, dell’art.
113, comma secondo, prima parte, della Carta Fondamentale.
Questa loro specificità li rende al contempo componenti
essenziali del principio (comunitario) di effettività
della tutela nei confronti dell’amministrazione
medesima (si pensi al contributo determinante della
normativa e della giurisprudenza comunitaria in
tema di risarcibilità degli interessi legittimi)
e corollari del giusto processo nazionale, limitatamente
però a quello amministrativo. In sostanza oggi,
tra le garanzie offerte al cittadino in lite con
la pubblica autorità compaiono anche, in una significativa
convergenza tra ordinamento interno ed ordinamento
comunitario, quelle dell’esperibilità di tutte le
tipologie di azione contemplate dall’ordinamento
processuale e del pieno ristoro del pregiudizio
patrimoniale leso a fronte del danno “ingiusto”,
quale che sia la posizione lesa.
Emblematica, in tal senso, è anche la prescrizione
dell’art. II – 101 della Costituzione europea, che
prevede la generale risarcibilità dei danni arrecati
dalle Istituzioni dell’Unione o dai suoi agenti
nell’esercizio delle loro funzioni (par. 3).
Quanto al precetto, di conio esclusivamente comunitario,
che impone la conformità della risposta giurisdizionale
nazionale al diritto comunitario medesimo (effettività/fedeltà)
e segnatamente alle direttive ermeneutiche impartite
dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale
interpretativo e di validità, trattasi all’evidenza
di una regola non immediatamente riconducibile come
tale ai principi del giusto processo nazionale,
né altrimenti dotata di solida copertura costituzionale
(eccessivamente labile apparendo l’addentellato
offerto dagli artt. 10 e 11 della Carta). Sennonchè
la regola in questione risponde, nella sua radice
storico-giuridica, all’esigenza di certezza del
diritto e, quindi, di uniformità degli
indirizzi giurisprudenziali che è propria di ogni
ordinamento di tipo evoluto (intendendosi per tale
quello che appresti una garanzia giurisdizionale
basata sulla articolazione territoriale del giudice,
ossia sulla vicinanza geografica del giudice al
cittadino). Mentre da noi tale esigenza è stata
soddisfatta mediante le previsioni inerenti alla
Corte di Cassazione (art. 111, penultimo comma,
Cost.), al Consiglio di Stato (art. 103, primo comma,
Cost.) ed alla Corte dei Conti (art. 103, secondo
comma, Cost.) e, con riferimento alla esegesi “ultima”
dei precetti costituzionali, alla Corte costituzionale
(art. 134 Cost.), nell’ordinamento comunitario la
sintesi delle funzioni delle Corti Supreme è chiaramente
riconoscibile nelle competenze della Corte di Lussemburgo.
Ed ancora, dal combinato disposto dei commi 1, 2
e 6 dell’art. 111 Cost. si evince che il principio
del giusto processo implica quali suoi diretti ed
immediati corollari, accanto alla fondamentalissima
garanzia della riserva di legge: il contraddittorio
tra le parti (in realtà già desumibile dall’art.
24 Cost.), la “parità delle armi” nell’ambito del
contraddittorio stesso (da intendersi più ampiamente
come parità tra le parti in ogni fase del processo),
la terzietà del giudice (cui si riannoda principalmente
la nozione di “giudice naturale precostituito per
legge” di cui all’art. 25 Cost.), la imparzialità
di questo (nozione che, a differenza della terzietà,
designa l’equidistanza non rispetto alle parti ma
agli interessi), la ragionevole durata del processo,
l’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti
giurisdizionali.
Con riserva di tornare fra breve su alcuni dei profili
ora passati in rassegna, è da rilevare che lo specifico
terreno del processo amministrativo si presta ad
ulteriori riflessioni.
Se si prescinde dai corposi problemi di carattere
organizzativo che da tempo sono sul tappeto (si
pensi alla coesistenza della funzione giurisdizionale
e consultiva in capo al Consiglio di Stato, alla
esiguità degli organici della magistratura e del
personale amministrativo ed alla opportunità di
stabilire un limite di durata della permanenza dei
magistrati amministrativi in una medesima sede e
con le stesse funzioni), l’attuazione del principio
del giusto processo e dei suoi corollari solleva
questioni di vario genere, che attengono alla mai
sopita esigenza di garantire una sostanziale equipollenza,
in termini di ampiezza della tutela giurisdizionale,
tra le due posizioni del diritto soggettivo e dell’interesse
legittimo. Tali questioni spaziano dalla individuazione
dei destinatari della notificazione del ricorso
introduttivo del processo amministrativo (spesso
incompleta allorché si arriva di fronte al giudice
della cautela), alla disciplina dei termini processuali
(il termine per il deposito di memorie in vista
dell’udienza di merito è unico per tutte le parti,
non concedendosi così possibilità di replica scritta),
ai mezzi di prova (quanto sarebbe utile un’audizione
del responsabile del procedimento in sede di giudizio
di legittimità …), all’ammissibilità dell’intervento
autonomo dei terzi (absit iniuria verbis
…), alla proponibilità (con strumento acconcio)
della domanda riconvenzionale. Per non dire
della tormentata problematica che attiene al regime
dei rimedi cautelari, intersecante tanto
il piano procedurale quanto quello contenutistico
(si ricordi che per giurisprudenza comunitaria oramai
consolidata la tutela cautelare è effettiva solo
quando è strutturata come rimedio ante causam,
scisso cioè dalla instaurazione del processo di
merito). E per non dire, ancora, del terreno impervio
della intensità della tutela, sino a tempi
recenti fortemente compressa per effetto della sopravvalutazione
(e distorsione) della nozione di “discrezionalità
tecnica”.
Non è questa, tuttavia, la sede per operare lo scandaglio
di problematiche che meriterebbero ben altra attenzione.
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6. Rimanendo agli aspetti
generali che mi sono ripromesso di trattare in queste
brevi note, salta all’occhio che i canoni della
celebrazione pubblica del processo e della pronuncia
della sentenza in pubblica udienza, forse perché
non centrali nella tradizione romanistica, non sono
stati esplicitamente costituzionalizzati né ab
origine né, in tempi a noi più vicini, attraverso
la legge n.2/99. Sicchè un segmento dell’art. II-107
della Costituzione europea parrebbe non trovare
rispondenza nelle disposizioni costituzionali nazionali.
Ma sul punto le riflessioni vanno approfondite.
Anzitutto, il diritto all’esame pubblico di cui
all’art. II–107, paragrafo secondo, potrebbe sortire
una lettura restrittiva: esso potrebbe leggersi
non come garanzia di pubblicità dell’udienza, ma
semmai come esigenza di trasparenza e libera accessibilità
del provvedimento decisorio, in cui si “esamina”
la controversia per definirla. In questa ipotesi
(comunque non scevra di punti di criticità) la previsione
sarebbe da noi rispettata per via dell’obbligo generalizzato
della motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali
(che sono pubblici), anche se negli ultimi anni
si è andata accreditando una tendenza (legislativa,
ma sovente rispecchiata nella prassi giurisdizionale)
a “comprimere” la motivazione delle sentenze (v.
infra).
Ad ogni modo, sembra che i principi in questione
(pubblicità della celebrazione e della pronuncia)
si presentino come presidi non assoluti (vale a
dire non indefettibili), ma solo tendenziali del
processo, il cui ambito di operatività ben potrebbe
essere intaccato in funzione dell’attuazione dei
corollari del giusto processo, e segnatamente del
canone di “ragionevole durata” (effettività/tempestività),
che legittima la possibilità che si ponga fine alla
controversia (se sufficientemente istruita) in ogni
sede, e quindi anche nel contesto (non pubblico)
dell’adunanza camerale.
Si potrebbe osservare che, secondo la costante giurisprudenza
della Consulta, il sopradetto canone di “pubblicità”
dell’udienza sarebbe costituzionalizzato siccome
ricavabile dall’art. 101, primo comma, della Costituzione
(a mente del quale “la giustizia è amministrata
in nome del popolo”). Resterebbe tuttavia fermo,
anche in tale prospettiva, che la sua osservanza
non si impone in modo cogente in tutti i modelli
processuali, dovendosi considerare legittime (purchè
ragionevoli) le soluzioni alternative che il legislatore
sposi in vista della tutela di preminenti (o, se
si preferisce, più rilevanti) valori costituzionali.
E non si può non ricordare che, nella sentenza n.427/99,
il Giudice delle leggi è sembrato voler costruire
la celerità del processo alla stregua di un valore
primario, destinato a cedere il passo unicamente
di fronte alle esigenze, indeclinabili, del contraddittorio.
E’ evidente, a valle di tutto ciò, che se una disposizione
costituzionale recepisse i principi in questione
(ovvero essi fossero ricavati per implicito dall’art.
101 o dall’art. 111, sub specie di imparzialità)
le disposizioni relative alle decisioni assunte
dai giudici amministrativi in forma semplificata
(art. art. 26, comma 4, legge 1034/71, richiamato
e fatto salvo dal comma terzo del precedente art.
23-bis) si esporrebbero a qualche perplessità, almeno
per ciò che attiene al carattere “riservato” della
camera di consiglio in cui è consentito definire
la lite.
Per altro verso si icnontrano difficoltà abnche
in senso opposto: il principio del contraddittorio,
da noi costituzionalizzato, non è esplicitamente
menzionato nell’art. II-107. Sennonchè, con uno
sforzo intepretativo neppure troppo ardito, lo si
può legge in filigrana nell’avverbio “equamente”
(paragrafo secondo); lo stesso discorso vale per
la “parità tra le parti”, da noi solennemente proclamata
sempre dal comma secondo dell’art. 111, che costituisce
comunque – lo si è più sopra evidenziato - garanzia
di equità decisionale.
Del pari la necessaria motivazione di tutti i provvedimenti
giurisdizionali da noi sancita nel terzultimo
comma dell’art. 111 è priva di riscontro, intermini
analoghi, nella Costituzione europea.
Tuttavia si ravvisa nel nuovo Trattato una previsione
di carattere generale, l’art. I-38 la quale, discipliando
i “Principi comuni agli atti giuridici dell’Unione”,
prescrive che “gli atti giuridici sono motivati”
(paragrafo secondo).
L’estensibilità di tale obbligo agli atti di tutte
le istituzioni, nessuna esclusa, lo rende perfettamente
idoneo a supportare la necessarietà della motivazione
anche di sentenze, ordinanze e decreti degli organismi
giudiziari dell’Unione (Corte di Giustizia e Tribunale
di primo grado).
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7. E’ noto che esistono due
concezioni di Costituzione: una concezione descrittiva,
che guarda alla Costituzione come insieme di strutture
e caratteri che disegnano la fisionomia di una comunità
politicamente organizzata in un certo momento storico,
ed una concezione prescrittiva, che viceversa
intende la Costituzione come “legge superiore”,
ossia come un atto normativo, solenne e generalmente
scritto (solo eccezionalmente consuetudinario, come
nel caso della Gran Bretagna), volto a dare fondamento
giuridico ed a limitare il potere politico a garanzia
delle libertà individuali.
Sulla scorta dei rilievi che precedono, e senza
eccessivo azzardo, si potrebbe affermare che - a
prescindere dalla preziosa opera di rielaborazione
portata a compimento dalla Convenzione europea e
dalla CIG- il fenomeno costituente in senso descrittivo
si è da tempo avviato e si sta svolgendo di fronte
ai nostri occhi; ciò soprattutto grazie al metodo
c.d. incrementale coraggiosamente inaugurato ed
efficacemente impiegato dalla Corte di Giustizia,
in tale compito assecondata dai giudici nazionali.
In nuce, il fenomeno dello spill-over
del diritto comunitario ed il rifiuto oramai radicato
della c.d. discriminazione alla rovescia sono già
segnali di una uniformazione giuridica sempre più
capillare e profonda.
Con la firma della Costituzione europea è stato
intrapreso con serietà il percorso costituente in
senso prescrittivo, come tale sottratto alle
decisioni degli operatori della giustizia e rimesso
in toto all’iniziativa degli Stati (ora chiamati
a gestire le fasi delle rispettive ratifiche), ed
ancor prima alla determinazione degli statisti;
non per questo, però, l’essenziale ruolo della Corte
di Giustizia e delle magistrature degli Stati appare
destinato alla dequotazione.
La cultura dell’illuminismo giuridico ci ha consegnato
l’intuizione, a tutt’oggi largamente condivisa,
che esiste un inscindibile collegamento tra un particolare
sistema di leggi ed un particolare popolo, atteso
che la costruzione del primo dipende da variabili
quali i fattori climatici, le caratteristiche fisiche
del territorio, le inclinazioni religiose ed economiche
ed i costumi degli abitanti, etc. Questo vuol dire
che prima di fondare un sistema di leggi “unico”
che possa afferire ad un ordinamento giuridico “unico”
occorre comprendere se già esista, o se in chiave
prospettica sia concepibile, un popolo “unico”.
Le istituzioni comunitarie, nell’avviare e perseguire
con una progressione prudente ma costante il proprio
disegno di omogeneizzazione dei diritti degli Stati
membri, hanno saggiamente fatto proprio ed applicato
questo criterio; hanno cioè compreso che lo sviluppo
di una identità europea deve precedere la
creazione dello Stato (come che lo si voglia immaginare)
europeo, senza forzature né salti, anzitutto ricomponendo
le diversità più visibili.
Era scontato che sarebbe stato compito dei legislatori
(e non certo dei giudici) nazionali adattare gli
ordinamenti interni ai mutamenti normativi sovranazionali,
e così realizzare l’ambizioso progetto della costruzione
di una “casa comune europea” fondata su valori comuni
oltre che su regole uniformi. Oggi, il varo di un
articolato costituzionale rende questa meta del
tutto realistica. Ma è nostro convincimento che
tale obiettivo non possa prescindere dalla cooperazione
dei giudici nazionali, sia pure in una forma diversa
rispetto al passato: questi, attraverso un sempre
più stretto collegamento con la Corte di Giustizia,
saranno in futuro chiamati a dare concreta operatività,
nei tribunali e quindi nella società, al diritto
comunitario ed alle sue avanzate forme di tutela
processuale, rendendo l’uno e le altre “viventi”
e tangibili per il singolo cittadino.
Ciò non dovrà più avvenire, come in passato, per
colmare le lacune e supplire alle inerzie legislative;
dovrà avvenire, invece, per radicare negli ordinamenti
dei singoli Stati quei valori comuni che sino ad
oggi sono rimasti sullo sfondo a causa di una innegabile
preminenza, in ambito comunitario, dell’ispirazione
liberistica delle origini.
Crediamo che le osservazioni che precedono possano
contribuire a descrivere il ruolo che si prepara
per i giudici nazionali nel futuro prossimo: si
tratta di un ruolo finalizzato non più all’adeguamento
pretorio al diritto sovranazionale (il recepimento
della normativa europea spetta, lo si ripete, ai
legislatori), ma all’edificazione dell’ “identità
collettiva dell’Europa”, che deve unire i cittadini
comunitari. Solo una volta realizzato tale scenario
si potrà pensare, in consonanza con i più autorevoli
auspici, ad una stabilizzazione dell’assetto europeo
per la prima volta non più basata sulla ricerca
di equilibri di potenza ma sulla comunanza di valori
e di istituzioni.
Ecco dunque spiegato il motivo per il quale sino
ad oggi non è emersa una disponibilità degli Stati
membri a privarsi della garanzia costituita dal
principio dell’autonomia processuale: una simile
scelta presuppone che ognuno dei partners rinunci
a proteggere gelosamente quell’attaccamento alla
propria sensibilità giuridica ed ai propri valori
che le singole comunità statali avvertono come intima
rivelazione di una identità nazionale ancora assai
marcata, ed anzi inesorabilmente destinata a rispecchiarsi
negli istituti processuali (oltre che nell’organizzazione
degli apparati giudiziari) forse più che nella stessa
disciplina di diritto sostanziale.
Per tale ragione non si intravede ancora all’orizzonte
il passaggio da un sistema di regole processuali
fondato - come oggi - sulla delineazione di standards
di tutela ad un sistema di regole puntuali e cogenti
nel quale sia possibile riconoscere un “diritto
processuale comunitario”, incentrato su una protezione
giudiziaria omologa in ciascuno Stato europeo.
Questa considerazione non toglie, naturalmente,
che il conseguimento della progressiva uniformazione
dei sistemi di tutela giurisdizionale sia esso stesso
un valore da perseguire attraverso le corti nazionali.
E’ infatti appena il caso di avvertire che l’effettività
del diritto passa per l’effettività della tutela
in tutte le sue componenti, e che il cittadino comunitario
è posto in grado di percepire che la legge è uguale
“in tutta Europa” solo quando riceve, nell’intero
territorio di una Unione Europea oramai sempre più
estesa ed in ogni sua parte, una giustizia resa
in base a meccanismi riconducibili ad un modello
intrinsecamente unitario. Questo vale per le imprese,
che in numero sempre crescente diversificano le
attività produttive e commerciali tra i vari Stati
dell’Unione, ma vale anche per i singoli, sempre
più incentivati ad esercitare il proprio diritto
(oggi solennemente proclamato anche dalla Costituzione
europea) di circolazione e soggiorno e pertanto
sempre più desiderosi di trovare, nello Stato di
destinazione, regole processuali familiari, o almeno
non troppo distanti da quelli nazionali.
Se il diritto comunitario saprà trasformare in norme
e discipline coerenti i valori che il progetto di
Costituzione europea riunisce in sé, ed i legislatori
sapranno trasfondere tali norme negli ordinamenti
nazionali, i giudici, in quanto interpreti privilegiati
del diritto interno e comunitario, non mancheranno
di darvi attuazione nei Fori: e sarà questo il meccanismo
più rapido ed efficace per la creazione di quell’
“idem sentire” europeo che da più parti viene,
con forza, invocato.
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