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n. 10-2004 - © copyright

STEFANO TARULLO

Costituzione europea ed effettività della tutela giurisdizionale amministrativa


1. Introduzione. – 2. L’art. II-107 del “Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa”. – 3. La “effettività della tutela”. – 4. Il “giusto processo”. – 5. Segue: sovrapponibilità tra i due concetti. – 6. Il ruolo dei giudici nazionali. – 7. Conclusioni.

 

1. Da tempo l’ordinamento comunitario conosce il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri; esso implica il rispetto della sfera di libertà dei legislatori nazionali nell’emanazione delle disposizioni processuali, pure quando venga in rilievo la tutela delle situazioni giuridiche soggettive protette in ambito sovranazionale.
In virtù di questo principio ai legislatori nazionali è lasciata facoltà di scegliere le concrete modalità tecnico-operative che andranno a caratterizzare i singoli processi all’interno degli Stati membri: il tipo di azione proponibile (dichiarativa, costituiva o di condanna), il plesso giurisdizionale (ordinario o speciale, individuale o collegiale), il lasso di tempo entro il quale l’azione va promossa (decadenza, prescrizione), gli strumenti per portarla ad esecuzione (esecuzione in via giurisdizionale, amministrativa, etc.), il modello di pronuncia (sentenza, ordinanza, decreto), i mezzi di gravame.
Sennonché, il principio anzidetto non opera incondizionatamente: esso presenta, quale primario correttivo e limite, il principio di non discriminazione o di equivalenza, in forza del quale ogni Stato della Unione è tenuto comunque a garantire alla situazione giuridica soggettiva protetta dal diritto sovranazionale un regime di tutela giurisdizionale non deteriore rispetto a quello assicurato alle analoghe situazioni giuridiche soggettive del diritto interno.
Un secondo correttivo al principio di autonomia processuale si rinviene nel principio di effettività della tutela giurisdizionale, secondo il quale il corpus delle regole processuali nazionali non deve essere tale da rendere impossibile o anche (solo) eccessivamente difficile la garanzia del diritto del singolo.
Stando alla elaborazione della Corte di Giustizia tale ultimo principio sembra comportare quantomeno: l’indefettibile possibilità di ricorso al giudice (enforceability) in relazione ad ogni interesse protetto e senza eccessive restrizioni (right to judge); l’adeguatezza dei mezzi di tutela giurisdizionale rispetto agli interessi dedotti in giudizio ed alle utilitates che si vogliono conseguire, e quindi - in definitiva - la compiutezza dello strumentario processuale (effettività/adeguatezza); l’azionabilità delle pretese risarcitorie nascenti dalla lesione di posizioni rilevanti per il diritto comunitario (effettività/completezza o effettività/pienezza); la ragionevolezza dei tempi del pronunciamento rispetto alla natura della lite (effettività/tempestività); la garanzia della fedeltà delle decisioni al diritto comunitario così come interpretato dalle istituzioni della C.E., e segnatamente dalla Corte di Giustizia, in funzione della uniforme applicazione della disciplina sovranazionale (effettività/fedeltà).
Nel contesto comunitario, dalla combinazione dei due principi/correttivi della non discriminazione e dell’effettività della tutela, costantemente reiterati nelle pronunce della Corte lussemburghese, si evince che il primo è suscettibile di operare, di fatto, solo quando il livello di tutela offerto dall’ordinamento interno sia più elevato di quello garantito dal diritto comunitario, ossia quando il sistema nazionale si presenti, sul piano dei rimedi giurisdizionali, più ricco, articolato e celere di quello europeo in relazione ad una situazione giuridica soggettiva presa in considerazione da entrambi. In tale ipotesi, infrequente ma non suscettibile di aprioristica esclusione, si realizza un livellamento “verso l’alto” della tutela giurisdizionale, che previene ogni trattamento discriminatorio e consente alla posizione qualificata di rango comunitario di beneficiare dell’applicazione delle più efficaci regole processuali dettate dal sistema nazionale.
Può però accadere che sia lo standard comunitario a risultare più elevato di quello interno - e così è sempre stato, sinora, per quanto concerne i rapporti con il sistema italiano di giustizia amministrativa -, ed allora sarà il diritto comunitario a fornire il “livello di riferimento” rispetto al quale la tutela non dovrà essere resa più gravosa. Ecco dunque che il primo principio/correttivo (equivalenza o non discriminazione) cede il passo al secondo (effettività della tutela) il quale, sempre in funzione di una rimodulazione “verso l’alto” della protezione giurisdizionale, vincola l’ordinamento nazionale ad assicurare alla situazione giuridica soggettiva contemplata dal diritto comunitario lo standard (più elevato) imposto (stavolta) dai dettami sovranazionali.

 

2. Oggi il principio di effettività della tutela non è più lasciato alla vis creativa della Corte di Giustizia (in passato giustificata, beninteso, dal richiamo operato dall’art. 6 del Trattato CE al rispetto dei diritti fondamentali enunciati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950), ma risulta espressamente codificato in una fonte comunitaria.
Difatti nella Parte II della nuova Costituzione europea (rectius: “Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa”), e più precisamente nel Titolo VI (“Giustizia”), compare ora l’art. II-107 che, mutuando la formulazione già presente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di Nizza (art. 47), contempla il “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”.
Il primo paragrafo dell’art. II-107 recita: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo”.
Il secondo paragrafo dispone: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare”.
Nel terzo paragrafo, invece, si legge: “A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”.
Dai precetti ora riportati ricaviamo un’articolazione molto ricca (e potenzialmente destinata ad arricchirsi ancora) del principio di effettività della tutela, che qui di seguito si tenterà di tratteggiare brevemente.
Anzitutto una prima osservazione è che le posizioni tutelate dal c.d. "diritto comunitario sostanziale" devono trovare protezione anche in sede giurisdizionale, e dunque ogni controversia deve avere un suo giudice, nazionale o comunitario che sia, secondo condizioni di accesso alle corti (o di legittimazione) non eccessivamente restrittive o penalizzanti. In sostanza, il diritto all’effettività della tutela presenta, quale sua primaria e fondamentale esplicazione in ambito comunitario, il diritto al giudice (right to judge) in relazione ai “diritti” ed alle “libertà garantiti dal diritto dell'Unione” qualora gli uni o le altre “siano stati violati”.
In secondo luogo, l’esame della controversia deve essere effettuato in condizioni (lato sensu ambientali) di serenità e nel contraddittorio delle parti (presupposti, questi, indefettibili affinché si pervenga alla “equità” richiamata nel secondo paragrafo dell’art. II-107, ossia alla realizzazione del valore della giustizia della decisione) ed in pubblica udienza (quale garanzia di trasparenza dell’iter decisionale e di controllo pubblico sull’esercizio del potere giurisdizionale, che solo eccezionalmente può esplicarsi in camera caritatis); il processo deve poi fornire risposta entro un termine ragionevole, dovendo esso offrire la certezza che l’applicazione del diritto comunitario avvenga celermente, in considerazione di una serie di variabili quali natura e complessità della controversia, condotta delle parti, etc. (effettività/tempestività).
Ed ancora, il giudice deve essere:
a) precostituito per legge (trova così espresso riconoscimento il principio di precostituzione del giudice, o principio del giudice naturale);
b) indipendente (la formula, ampia, sembra implicare che chi decide debba essere terzo rispetto alle parti, ma anche libero da legami organici o condizionamenti di alcun tipo da parte di altri poteri dello Stato);
c) imparziale (vale a dire, equidistante rispetto agli interessi dedotti in lite).
Nessuno può essere privato della possibilità di avvalersi del patrocinio tecnico (“Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare”); detto patrocinio deve comunque essere assicurato ai non abbienti, in modo che anche per questi ultimi la facoltà di scelta (se difendersi o meno, come e con chi difendersi) rimanga integra.

 

3. La locuzione di “effettività” di cui al paragrafo primo del nuovo art. II-107 deve però essere letta in rapporto alla oramai cinquantennale giurisprudenza della Corte di Giustizia; in questa prospettiva essa presenta risvolti ulteriori, in qualche modo inespressi nella nuova disposizione della Costituzione europea ma già portati a compiuta emersione per mano della Corte di Lussemburgo.
La tutela “effettiva” postula che (non soltanto gli Stati ma anche) i cittadini (“Ogni persona”) debbano poter disporre di adeguati mezzi di tutela giurisdizionale, che siano agevolmente attivabili in relazione al conseguimento di specifiche utilitates correlate agli interessi processualmente azionati (effettività/adeguatezza).
Il cittadino che agisce in giudizio ha diritto di invocare (ma solo il giudice di ultimo grado ha l’obbligo di disporre) il c.d. rinvio pregiudiziale interpretativo, volto ad eccitare una pronunzia sulla compatibilità o meno della normativa nazionale con quella comunitaria e quindi ad ottenere la fedeltà del pronunciamento giurisdizionale al diritto comunitario (effettività/fedeltà).
Non può precludersi l'azione risarcitoria al cittadino che lamenti la lesione di una propria situazione soggettiva tutelata dal diritto comunitario a causa dell'adozione da parte della pubblica amministrazione di un atto contrastante con la normativa comunitaria o di un provvedimento esecutivo di un atto comunitario illegittimo in quanto difforme - esso stesso - dalle disposizioni del Trattato (effettività/completezza o effettività/pienezza).
In virtù delle premesse e delle chiarificazioni che precedono si potrà certamente continuare ad impiegare la usuale locuzione “diritto all’effettività della tutela giurisdizionale”, purchè si abbia sempre presente la sua estrema varietà semantica e, quindi, la si utilizzi in modo appropriato tenuto conto di ciascuna delle sue diverse accezioni.

 

4. A questo punto è lecito domandarsi se vi siano connessioni tra il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, come forgiato in ambito comunitario, ed il principio del giusto processo, di recente formulazione in seno all’art. 111 della nostra Carta Fondamentale (legge cost. 23 novembre 1999 n.2). Il che è quanto chiedersi se il nostro ordinamento possa dirsi “al passo” con le nuove previsioni della Costituzione europea in tema di effettività della tutela, almeno per ciò che concerne il processo amministrativo.
E’ oramai un dato acquisito che il principio del giusto processo trovi esplicazione in qualsiasi forma di attuazione della funzione giurisdizionale, al di là dello stretto ambito penale. Non è quindi revocabile in dubbio che l’attuazione di tale principio investa direttamente anche il processo amministrativo, così come il principio di effettività della tutela poc’anzi esaminato.
La dottrina ha però evidenziato che al principio del giusto processo dovrebbe riconoscersi una portata più vasta di quella resa esplicita dal legislatore costituzionale di fine secolo scorso; sono state perciò additate ulteriori regole, non immediatamente ricavabili dalle maglie dell’art. 111, che costituirebbero parte integrante di un modello ampio ed aperto di giusto processo, sempre perfettibile - in sede di interpretazione evolutiva - alla luce della complessiva trama delle disposizioni costituzionali (il pensiero corre immediatamente agli artt. 24, 25, 103, 108 e 113 Cost.).
Ciò premesso, affiora con prepotenza un primo elemento di comunanza tra il principio di effettività della tutela giurisdizionale ed il principio del giusto processo: la molteplicità delle articolazioni dalle quali ciascuno dei due prende sostanza.
In via di estrema sintesi, si può notare che neppure il principio del giusto processo si presta ad una definizione unitaria, dovendo piuttosto essere esaminato in un’ottica prettamente atomistica. Esso, infatti, implica un sistema di variegate garanzie tese a contornare l’esercizio della funzione giurisdizionale sotto il duplice profilo della posizione del giudice e di quella delle parti. Sulla scorta di un’autorevole impostazione, in seno a tali garanzie è immaginabile una summa divisio a seconda che esse si riannodino ai c.d. principi strutturali o di equità ovvero ai principi funzionali o di efficienza: i primi rispondono all’esigenza di assicurare i presupposti utili ad una soluzione corretta della vertenza, al fine di realizzare il valore - cui il processo naturalmente tende - della giustizia sotto il profilo decisionale; i secondi considerano invece il processo come strumento efficiente di giustizia, ossia come mezzo per apprestare una piena e tempestiva tutela.
Sono riconducibili al canone dell’equità: il principio di precostituzione (art. 25, comma 1, Cost.) indipendenza (art. 108, comma 2), terzietà ed imparzialità (art. 111, comma 2) del giudice, nonché il principio del contraddittorio paritario (art. 111, comma 2), ed il principio della necessaria motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111, comma 6). Costituiscono invece principi di efficienza: il principio della generalità della tutela giurisdizionale e della inviolabilità del diritto di difesa (art. 24, commi 1, 2 e 3 ed art. 113, comma 1), il principio della pienezza ed adeguatezza della tutela (art. 113, comma 2) ed il principio della tempestività della tutela medesima (art. 111, comma 2).

 

5. In questo quadro, se si hanno presenti le articolazioni del principio di effettività della tutela descritte poc’anzi è possibile cogliere una piena sovrapponibilità tra quest’ultimo principio e quello del giusto processo; si vuole con ciò affermare che le garanzie apprestate per la protezione delle situazioni giuridiche soggettive comunitarie in virtù del principio di effettività della tutela presentano una marcata coincidenza con le garanzie che in forza del principio del giusto processo devono essere applicate in sede di tutela delle situazioni giuridiche soggettive di rango nazionale.
Quanto alla indefettibile possibilità di ricorso al giudice in relazione ad ogni interesse protetto (right to judge), appare sin troppo ovvio il richiamo all’art. 24, comma primo, della Costituzione (ed all’art. 24, comma secondo, per quanto concerne la garanzia relativa ai “mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”, che devono essere assicurati ai non abbienti).
Inoltre, segnatamente per quanto concerne la tutela di diritti ed interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione, sovviene il principio di piena giustiziabilità degli atti amministrativi (o, se si preferisce, di piena azionabilità degli interessi protetti) sancito dall’art. 113, comma primo, della Carta. Dal combinato disposto dei due articoli può evincersi il principio della generalità della tutela giurisdizionale.
In ordine ai profili dell’adeguata e compiuta articolazione dei mezzi processuali (effettività/adeguatezza) e della completezza della tutela delle situazioni giuridiche soggettive (effettività/completezza o effettività/pienezza), concretantesi in particolare nell’incondizionata azionabilità del rimedio risarcitorio nei confronti della pubblica amministrazione con riferimento a tutti gli interessi protetti dall’ordinamento, va precisato che essi - nell’ordinamento nazionale - trovano addentellato in una peculiare disposizione costituzionale, ancora una volta collocata al di fuori dell’art. 111 e concernente le sole controversie tra privato e pubblica amministrazione: si tratta, come noto, dell’art. 113, comma secondo, prima parte, della Carta Fondamentale. Questa loro specificità li rende al contempo componenti essenziali del principio (comunitario) di effettività della tutela nei confronti dell’amministrazione medesima (si pensi al contributo determinante della normativa e della giurisprudenza comunitaria in tema di risarcibilità degli interessi legittimi) e corollari del giusto processo nazionale, limitatamente però a quello amministrativo. In sostanza oggi, tra le garanzie offerte al cittadino in lite con la pubblica autorità compaiono anche, in una significativa convergenza tra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, quelle dell’esperibilità di tutte le tipologie di azione contemplate dall’ordinamento processuale e del pieno ristoro del pregiudizio patrimoniale leso a fronte del danno “ingiusto”, quale che sia la posizione lesa.
Emblematica, in tal senso, è anche la prescrizione dell’art. II – 101 della Costituzione europea, che prevede la generale risarcibilità dei danni arrecati dalle Istituzioni dell’Unione o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni (par. 3).
Quanto al precetto, di conio esclusivamente comunitario, che impone la conformità della risposta giurisdizionale nazionale al diritto comunitario medesimo (effettività/fedeltà) e segnatamente alle direttive ermeneutiche impartite dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale interpretativo e di validità, trattasi all’evidenza di una regola non immediatamente riconducibile come tale ai principi del giusto processo nazionale, né altrimenti dotata di solida copertura costituzionale (eccessivamente labile apparendo l’addentellato offerto dagli artt. 10 e 11 della Carta). Sennonchè la regola in questione risponde, nella sua radice storico-giuridica, all’esigenza di certezza del diritto e, quindi, di uniformità degli indirizzi giurisprudenziali che è propria di ogni ordinamento di tipo evoluto (intendendosi per tale quello che appresti una garanzia giurisdizionale basata sulla articolazione territoriale del giudice, ossia sulla vicinanza geografica del giudice al cittadino). Mentre da noi tale esigenza è stata soddisfatta mediante le previsioni inerenti alla Corte di Cassazione (art. 111, penultimo comma, Cost.), al Consiglio di Stato (art. 103, primo comma, Cost.) ed alla Corte dei Conti (art. 103, secondo comma, Cost.) e, con riferimento alla esegesi “ultima” dei precetti costituzionali, alla Corte costituzionale (art. 134 Cost.), nell’ordinamento comunitario la sintesi delle funzioni delle Corti Supreme è chiaramente riconoscibile nelle competenze della Corte di Lussemburgo.
Ed ancora, dal combinato disposto dei commi 1, 2 e 6 dell’art. 111 Cost. si evince che il principio del giusto processo implica quali suoi diretti ed immediati corollari, accanto alla fondamentalissima garanzia della riserva di legge: il contraddittorio tra le parti (in realtà già desumibile dall’art. 24 Cost.), la “parità delle armi” nell’ambito del contraddittorio stesso (da intendersi più ampiamente come parità tra le parti in ogni fase del processo), la terzietà del giudice (cui si riannoda principalmente la nozione di “giudice naturale precostituito per legge” di cui all’art. 25 Cost.), la imparzialità di questo (nozione che, a differenza della terzietà, designa l’equidistanza non rispetto alle parti ma agli interessi), la ragionevole durata del processo, l’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali.
Con riserva di tornare fra breve su alcuni dei profili ora passati in rassegna, è da rilevare che lo specifico terreno del processo amministrativo si presta ad ulteriori riflessioni.
Se si prescinde dai corposi problemi di carattere organizzativo che da tempo sono sul tappeto (si pensi alla coesistenza della funzione giurisdizionale e consultiva in capo al Consiglio di Stato, alla esiguità degli organici della magistratura e del personale amministrativo ed alla opportunità di stabilire un limite di durata della permanenza dei magistrati amministrativi in una medesima sede e con le stesse funzioni), l’attuazione del principio del giusto processo e dei suoi corollari solleva questioni di vario genere, che attengono alla mai sopita esigenza di garantire una sostanziale equipollenza, in termini di ampiezza della tutela giurisdizionale, tra le due posizioni del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo. Tali questioni spaziano dalla individuazione dei destinatari della notificazione del ricorso introduttivo del processo amministrativo (spesso incompleta allorché si arriva di fronte al giudice della cautela), alla disciplina dei termini processuali (il termine per il deposito di memorie in vista dell’udienza di merito è unico per tutte le parti, non concedendosi così possibilità di replica scritta), ai mezzi di prova (quanto sarebbe utile un’audizione del responsabile del procedimento in sede di giudizio di legittimità …), all’ammissibilità dell’intervento autonomo dei terzi (absit iniuria verbis …), alla proponibilità (con strumento acconcio) della domanda riconvenzionale. Per non dire della tormentata problematica che attiene al regime dei rimedi cautelari, intersecante tanto il piano procedurale quanto quello contenutistico (si ricordi che per giurisprudenza comunitaria oramai consolidata la tutela cautelare è effettiva solo quando è strutturata come rimedio ante causam, scisso cioè dalla instaurazione del processo di merito). E per non dire, ancora, del terreno impervio della intensità della tutela, sino a tempi recenti fortemente compressa per effetto della sopravvalutazione (e distorsione) della nozione di “discrezionalità tecnica”.
Non è questa, tuttavia, la sede per operare lo scandaglio di problematiche che meriterebbero ben altra attenzione.

 

6. Rimanendo agli aspetti generali che mi sono ripromesso di trattare in queste brevi note, salta all’occhio che i canoni della celebrazione pubblica del processo e della pronuncia della sentenza in pubblica udienza, forse perché non centrali nella tradizione romanistica, non sono stati esplicitamente costituzionalizzati né ab origine né, in tempi a noi più vicini, attraverso la legge n.2/99. Sicchè un segmento dell’art. II-107 della Costituzione europea parrebbe non trovare rispondenza nelle disposizioni costituzionali nazionali.
Ma sul punto le riflessioni vanno approfondite.
Anzitutto, il diritto all’esame pubblico di cui all’art. II–107, paragrafo secondo, potrebbe sortire una lettura restrittiva: esso potrebbe leggersi non come garanzia di pubblicità dell’udienza, ma semmai come esigenza di trasparenza e libera accessibilità del provvedimento decisorio, in cui si “esamina” la controversia per definirla. In questa ipotesi (comunque non scevra di punti di criticità) la previsione sarebbe da noi rispettata per via dell’obbligo generalizzato della motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (che sono pubblici), anche se negli ultimi anni si è andata accreditando una tendenza (legislativa, ma sovente rispecchiata nella prassi giurisdizionale) a “comprimere” la motivazione delle sentenze (v. infra).
Ad ogni modo, sembra che i principi in questione (pubblicità della celebrazione e della pronuncia) si presentino come presidi non assoluti (vale a dire non indefettibili), ma solo tendenziali del processo, il cui ambito di operatività ben potrebbe essere intaccato in funzione dell’attuazione dei corollari del giusto processo, e segnatamente del canone di “ragionevole durata” (effettività/tempestività), che legittima la possibilità che si ponga fine alla controversia (se sufficientemente istruita) in ogni sede, e quindi anche nel contesto (non pubblico) dell’adunanza camerale.
Si potrebbe osservare che, secondo la costante giurisprudenza della Consulta, il sopradetto canone di “pubblicità” dell’udienza sarebbe costituzionalizzato siccome ricavabile dall’art. 101, primo comma, della Costituzione (a mente del quale “la giustizia è amministrata in nome del popolo”). Resterebbe tuttavia fermo, anche in tale prospettiva, che la sua osservanza non si impone in modo cogente in tutti i modelli processuali, dovendosi considerare legittime (purchè ragionevoli) le soluzioni alternative che il legislatore sposi in vista della tutela di preminenti (o, se si preferisce, più rilevanti) valori costituzionali. E non si può non ricordare che, nella sentenza n.427/99, il Giudice delle leggi è sembrato voler costruire la celerità del processo alla stregua di un valore primario, destinato a cedere il passo unicamente di fronte alle esigenze, indeclinabili, del contraddittorio.
E’ evidente, a valle di tutto ciò, che se una disposizione costituzionale recepisse i principi in questione (ovvero essi fossero ricavati per implicito dall’art. 101 o dall’art. 111, sub specie di imparzialità) le disposizioni relative alle decisioni assunte dai giudici amministrativi in forma semplificata (art. art. 26, comma 4, legge 1034/71, richiamato e fatto salvo dal comma terzo del precedente art. 23-bis) si esporrebbero a qualche perplessità, almeno per ciò che attiene al carattere “riservato” della camera di consiglio in cui è consentito definire la lite.
Per altro verso si icnontrano difficoltà abnche in senso opposto: il principio del contraddittorio, da noi costituzionalizzato, non è esplicitamente menzionato nell’art. II-107. Sennonchè, con uno sforzo intepretativo neppure troppo ardito, lo si può legge in filigrana nell’avverbio “equamente” (paragrafo secondo); lo stesso discorso vale per la “parità tra le parti”, da noi solennemente proclamata sempre dal comma secondo dell’art. 111, che costituisce comunque – lo si è più sopra evidenziato - garanzia di equità decisionale.
Del pari la necessaria motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali da noi sancita nel terzultimo comma dell’art. 111 è priva di riscontro, intermini analoghi, nella Costituzione europea.
Tuttavia si ravvisa nel nuovo Trattato una previsione di carattere generale, l’art. I-38 la quale, discipliando i “Principi comuni agli atti giuridici dell’Unione”, prescrive che “gli atti giuridici sono motivati” (paragrafo secondo).
L’estensibilità di tale obbligo agli atti di tutte le istituzioni, nessuna esclusa, lo rende perfettamente idoneo a supportare la necessarietà della motivazione anche di sentenze, ordinanze e decreti degli organismi giudiziari dell’Unione (Corte di Giustizia e Tribunale di primo grado).

 

7. E’ noto che esistono due concezioni di Costituzione: una concezione descrittiva, che guarda alla Costituzione come insieme di strutture e caratteri che disegnano la fisionomia di una comunità politicamente organizzata in un certo momento storico, ed una concezione prescrittiva, che viceversa intende la Costituzione come “legge superiore”, ossia come un atto normativo, solenne e generalmente scritto (solo eccezionalmente consuetudinario, come nel caso della Gran Bretagna), volto a dare fondamento giuridico ed a limitare il potere politico a garanzia delle libertà individuali.
Sulla scorta dei rilievi che precedono, e senza eccessivo azzardo, si potrebbe affermare che - a prescindere dalla preziosa opera di rielaborazione portata a compimento dalla Convenzione europea e dalla CIG- il fenomeno costituente in senso descrittivo si è da tempo avviato e si sta svolgendo di fronte ai nostri occhi; ciò soprattutto grazie al metodo c.d. incrementale coraggiosamente inaugurato ed efficacemente impiegato dalla Corte di Giustizia, in tale compito assecondata dai giudici nazionali. In nuce, il fenomeno dello spill-over del diritto comunitario ed il rifiuto oramai radicato della c.d. discriminazione alla rovescia sono già segnali di una uniformazione giuridica sempre più capillare e profonda.
Con la firma della Costituzione europea è stato intrapreso con serietà il percorso costituente in senso prescrittivo, come tale sottratto alle decisioni degli operatori della giustizia e rimesso in toto all’iniziativa degli Stati (ora chiamati a gestire le fasi delle rispettive ratifiche), ed ancor prima alla determinazione degli statisti; non per questo, però, l’essenziale ruolo della Corte di Giustizia e delle magistrature degli Stati appare destinato alla dequotazione.
La cultura dell’illuminismo giuridico ci ha consegnato l’intuizione, a tutt’oggi largamente condivisa, che esiste un inscindibile collegamento tra un particolare sistema di leggi ed un particolare popolo, atteso che la costruzione del primo dipende da variabili quali i fattori climatici, le caratteristiche fisiche del territorio, le inclinazioni religiose ed economiche ed i costumi degli abitanti, etc. Questo vuol dire che prima di fondare un sistema di leggi “unico” che possa afferire ad un ordinamento giuridico “unico” occorre comprendere se già esista, o se in chiave prospettica sia concepibile, un popolo “unico”.
Le istituzioni comunitarie, nell’avviare e perseguire con una progressione prudente ma costante il proprio disegno di omogeneizzazione dei diritti degli Stati membri, hanno saggiamente fatto proprio ed applicato questo criterio; hanno cioè compreso che lo sviluppo di una identità europea deve precedere la creazione dello Stato (come che lo si voglia immaginare) europeo, senza forzature né salti, anzitutto ricomponendo le diversità più visibili.
Era scontato che sarebbe stato compito dei legislatori (e non certo dei giudici) nazionali adattare gli ordinamenti interni ai mutamenti normativi sovranazionali, e così realizzare l’ambizioso progetto della costruzione di una “casa comune europea” fondata su valori comuni oltre che su regole uniformi. Oggi, il varo di un articolato costituzionale rende questa meta del tutto realistica. Ma è nostro convincimento che tale obiettivo non possa prescindere dalla cooperazione dei giudici nazionali, sia pure in una forma diversa rispetto al passato: questi, attraverso un sempre più stretto collegamento con la Corte di Giustizia, saranno in futuro chiamati a dare concreta operatività, nei tribunali e quindi nella società, al diritto comunitario ed alle sue avanzate forme di tutela processuale, rendendo l’uno e le altre “viventi” e tangibili per il singolo cittadino.
Ciò non dovrà più avvenire, come in passato, per colmare le lacune e supplire alle inerzie legislative; dovrà avvenire, invece, per radicare negli ordinamenti dei singoli Stati quei valori comuni che sino ad oggi sono rimasti sullo sfondo a causa di una innegabile preminenza, in ambito comunitario, dell’ispirazione liberistica delle origini.
Crediamo che le osservazioni che precedono possano contribuire a descrivere il ruolo che si prepara per i giudici nazionali nel futuro prossimo: si tratta di un ruolo finalizzato non più all’adeguamento pretorio al diritto sovranazionale (il recepimento della normativa europea spetta, lo si ripete, ai legislatori), ma all’edificazione dell’ “identità collettiva dell’Europa”, che deve unire i cittadini comunitari. Solo una volta realizzato tale scenario si potrà pensare, in consonanza con i più autorevoli auspici, ad una stabilizzazione dell’assetto europeo per la prima volta non più basata sulla ricerca di equilibri di potenza ma sulla comunanza di valori e di istituzioni.
Ecco dunque spiegato il motivo per il quale sino ad oggi non è emersa una disponibilità degli Stati membri a privarsi della garanzia costituita dal principio dell’autonomia processuale: una simile scelta presuppone che ognuno dei partners rinunci a proteggere gelosamente quell’attaccamento alla propria sensibilità giuridica ed ai propri valori che le singole comunità statali avvertono come intima rivelazione di una identità nazionale ancora assai marcata, ed anzi inesorabilmente destinata a rispecchiarsi negli istituti processuali (oltre che nell’organizzazione degli apparati giudiziari) forse più che nella stessa disciplina di diritto sostanziale.
Per tale ragione non si intravede ancora all’orizzonte il passaggio da un sistema di regole processuali fondato - come oggi - sulla delineazione di standards di tutela ad un sistema di regole puntuali e cogenti nel quale sia possibile riconoscere un “diritto processuale comunitario”, incentrato su una protezione giudiziaria omologa in ciascuno Stato europeo.
Questa considerazione non toglie, naturalmente, che il conseguimento della progressiva uniformazione dei sistemi di tutela giurisdizionale sia esso stesso un valore da perseguire attraverso le corti nazionali.
E’ infatti appena il caso di avvertire che l’effettività del diritto passa per l’effettività della tutela in tutte le sue componenti, e che il cittadino comunitario è posto in grado di percepire che la legge è uguale “in tutta Europa” solo quando riceve, nell’intero territorio di una Unione Europea oramai sempre più estesa ed in ogni sua parte, una giustizia resa in base a meccanismi riconducibili ad un modello intrinsecamente unitario. Questo vale per le imprese, che in numero sempre crescente diversificano le attività produttive e commerciali tra i vari Stati dell’Unione, ma vale anche per i singoli, sempre più incentivati ad esercitare il proprio diritto (oggi solennemente proclamato anche dalla Costituzione europea) di circolazione e soggiorno e pertanto sempre più desiderosi di trovare, nello Stato di destinazione, regole processuali familiari, o almeno non troppo distanti da quelli nazionali.
Se il diritto comunitario saprà trasformare in norme e discipline coerenti i valori che il progetto di Costituzione europea riunisce in sé, ed i legislatori sapranno trasfondere tali norme negli ordinamenti nazionali, i giudici, in quanto interpreti privilegiati del diritto interno e comunitario, non mancheranno di darvi attuazione nei Fori: e sarà questo il meccanismo più rapido ed efficace per la creazione di quell’ “idem sentire” europeo che da più parti viene, con forza, invocato.

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