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T.A.R. LAZIO, ROMA, SEZ.II Ter – sentenza 12 febbraio 2004 n.1399
Pres. f.f. Restaino, Est. Taglienti; Falli (Avv. Attolino) c. Comune di Roma (Avv. Montanaro)
  1. Autorizzazione e concessione – Autorizzazioni commerciali – Formazione del silenzio assenso per decorrenza del termine previsto dal D.P.R. 407/94 – Mancanza di presupposti oggettivi e soggettivi per l’ottenimento del provvedimento positivo – Esclusione
  2. Autorizzazione e concessione – Autorizzazioni commerciali – Concessione di suolo pubblico quale presupposto necessario per il rilascio di autorizzazione commerciale – E’ tale

1. In tema di rilascio di autorizzazioni amministrative, per la formazione del silenzio assenso, il combinato disposto degli articoli 21 della legge 241/90 e 3 e 4 del DPR 26 aprile 1992 n. 300, affermano come il silenzio si possa formare solo ove nella domanda sia stato dichiarato il possesso di tutti i requisititi soggettivi e la sussistenza di quelli oggettivi, necessari per l’autorizzazione; in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge, ed il dichiarante può essere anche passibile di sanzione

2. Tra i provvedimenti di concessione di suolo pubblico e quello di rilascio di autorizzazione commerciale, vi è uno stretto collegamento in quanto la possibilità di concedere l’area pubblica è presupposto indispensabile per il rilascio dell’autorizzazione commerciale in questione.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO
SEZIONE SECONDA ter

Composta dai magistrati: Consigliere PAOLO RESTAINO Presidente f.f. - Consigliere ANTONIO AMICUZZI Correlatore - Consigliere CARLO TAGLIENTI Relatore Ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

Sul ricorso n. 10265 del 1998 proposto da

FALLI SERGIO, rappresentato e difeso dall’avv. Vittorio Attolino, presso lo studio del quale ha eletto domicilio in Roma, via Angelo Bargoni n. 78;

contro

il COMUNE di ROMA, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Cristina Montanaro dell’Avvocatura comunale, presso la quale risulta domiciliato in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;

per l’annullamento del provvedimento del direttore dell’VIII dipartimento – II U.O. del 27 maggio 1998 n 8774, con il quale è stata negata l’autorizzazione all’esercizio del commercio su aree pubbliche in via Regina Elena, prossimità civico 336, lato sinistro;

visto il ricorso con i relativi allegati;
visti l’atto di costituzione in giudizio e la memoria del comune di Roma;
vista la propria ordinanza collegiale n. 2512 del 29 settembre 1998;
visti gli atti tutti di causa;
relatore alla pubblica udienza del 12 gennaio 2004 il consigliere Carlo Taglienti;
uditi alla stessa udienza gli avvocati Attolino per il ricorrente e Brigato per il comune resistente;
ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

Con ricorso notificato il 15 luglio 1998 e depositato il 31 successivo, il sig. Falli Sergio ha impugnato il provvedimento con il quale il comune di Roma gli ha negato l’autorizzazione commerciale su area pubblica in via Regina Elena.
Premesso di essere iscritto alla camera di commercio industria ed artigianato della provincia di Roma per le tabelle merceologiche IX, X e XIV, prodotti per la persona, per la casa, per lo sport ed il tempo libero e per l’edilizia, e di avere inoltrato ai competenti uffici del comune richiesta di autorizzazione commerciale su area pubblica in data 12 marzo 1998; evidenziato come con nota del 26 maggio 1998 il comune ha risposto negativamente in quanto “l’art. 3 della deliberazione n. 7/96, Piano del commercio su aree pubbliche non prevede, per il primo quadriennio di applicazione dello stesso, il rilascio di alcuna autorizzazione”, il ricorrente deduce, avverso detto atto, le seguenti censure:

1) violazione di legge (art. 1 comma secondo lett. a) della legge 112/91) ed eccesso di potere per violazione e vizi del procedimento, mancata ottemperanza a norme di legge e di regolamento; avvenuta formazione del silenzio assenso: ai sensi dell’art. 20 della lege n. 241/90 e del DPR n. 407/94, trascorsi sessanta giorni dall’istanza, deve ritenersi formato il silenzio assenso sulle domande di autorizzazione della fattispecie in esame; non risulta nemmeno iniziata la dovuta istruttoria; la norma regolamentare comunale riguarda le concessioni di suolo pubblico e non le autorizzazioni commerciali;

2) eccesso di potere per carenza di motivazione: la motivazione è incongrua e contrasta con la mancata istruttoria.
Costituitosi il comune, ha chiesto la reiezione del ricorso.
Con ordinanza collegiale n. 2518 del 29 settembre 1998 è stata respinta l’istanza cautelare.
Con memoria depositata in data 31 dicembre 2003 il comune ha insistito per la reiezione del ricorso, rilevando come nella fattispecie non si sia formato il silenzio assenso per mancanza dei presupposti necessari, e come in ogni caso sia sempre ammesso un provvedimento in autotutela.
Alla pubblica udienza del 12 gennaio 2004 i difensori delle parti hanno concordemente spedito la causa in decisione.

DIRITTO

Con il ricorso in epigrafe viene impugnato un diniego di autorizzazione commerciale su area pubblica, basato sulla norma del Piano comunale del commercio su aree pubbliche, approvato con deliberazione n. 7/96, che esclude, per il primo quadriennio di applicazione, il rilascio di alcuna autorizzazione.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

1.Con il primo profilo di gravame il ricorrente assume essersi nella fattispecie formato il silenzio assenso, avendo il comune risposto negativamente, trascorsi i sessanta giorni dall’istanza previsti dal DPR n. 407/94; deduce altresì una carenza istruttoria, avendo il comune archiviato la domanda senza ulteriore esame.
Il Collegio ritiene che nella fattispecie non si sia formato il silenzio assenso per decorso del termine previsto nel DPR n. 407/94, di giorni sessanta dalla domanda.
E’ nota la consolidata giurisprudenza che afferma il principio che per la formazione del silenzio è necessaria la sussistenza dei presupposti, oggettivi e soggettivi, richiesti per l’ottenimento del provvedimento positivo (cfr. ad es TAR Lazio, sez. II ter, 13 febbraio 2003 n. 970; Cons. di Stato sez. V 11 febbraio 1999 n. 145).
Tale giurisprudenza si basa sul combinato disposto degli articoli 21 della legge 241/90 e 3 e 4 del DPR 26 aprile 1992 n. 300, che chiaramente affermano come il silenzio si possa formare solo ove nella domanda sia stato dichiarato il possesso di tutti i requisititi soggettivi e la sussistenza di quelli oggettivi, necessari per l’autorizzazione; in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge, ed il dichiarante può essere anche passibile di sanzione.
Nel caso in esame, come in precedenza detto, sussiste una specifica disposizione del Piano di commercio su aree pubbliche, approvato nel 1996, che esclude la possibilità di rilasciare autorizzazioni o concessioni nel primo quadriennio di vigenza; norma che non risulta contestata nel merito dal ricorrente.
Deve pertanto ritenersi mancante uno dei presupposti oggettivi essenziali per la formazione del silenzio assenso.
Circa l’osservazione poi che la norma riguarderebbe le concessioni di suolo pubblico e non le autorizzazioni commerciali, si richiama quanto già affermato da questa stessa sezione in ordine allo stretto collegamento tra i due provvedimenti, esistente nella fattispecie: la possibilità di concedere l’area pubblica è presupposto indispensabile per il rilascio dell’autorizzazione commerciale in questione (sentenza n 6763/01).
Si assume anche un difetto d’istruttoria, in quanto l’amministrazione non ha effettuato gli adempimenti necessari, previsti nella procedura propria delle autorizzazioni in esame.
Il motivo non ha pregio in quanto, verificata l’impossibilità di rilasciare l’autorizzazione per il divieto dell’atto programmatorio, nessun altro adempimento era necessario per fornire al ricorrente la risposta negativa.

2-Con il secondo motivo si rileva un difetto di motivazione.
Nemmeno tale censura può essere condivisa.
L’atto impugnato richiama espressamente la disposizione del Piano di commercio applicabile nella fattispecie, e ne indica anche sinteticamente il contenuto; non erano necessarie altre parole per comprendere il motivo del diniego.
Il ricorso pertanto non può essere accolto.
Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione seconda ter, respinge il ricorso in epigrafe;
spese compensate;
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 gennaio 2004.
IL RELATORE IL PRESIDENTE f.f.
(Cons. Carlo Taglienti ) (Cons. Paolo Restaino)

Disciplina di piano e formazione del silenzio-assenso nelle autorizzazioni commerciali

dell’Avv. Stefano Tarullo
(ricercatore di diritto amministrativo - Università Tor Vergata di Roma)

Un commerciante (in articoli per la persona, per la casa, per lo sport ed il tempo libero e per l’edilizia) presentava al Comune di Roma istanza volta al rilascio di un’autorizzazione commerciale su area pubblica. L’Amministrazione denegava il richiesto provvedimento ampliativo invocando una previsione del Piano del commercio su aree pubbliche (delibera comunale n.7/96) che per il primo quadriennio di applicazione dell’atto programmatorio aveva proibito il rilascio autorizzazioni.
La controversia sulla legittimità del diniego è stata definita (nel senso della infondatezza dei motivi di impugnativa) dalla Sezione II Ter del TAR del Lazio con la sentenza n. 1399 del 12 febbraio 2004, qui annotata.
Il principale motivo di interesse della pronuncia attiene alla reiezione della doglianza mossa dal ricorrente circa l’avvenuta formazione del silenzio-assenso (art. 20, comma 1, legge n. 241/1990) quale esito del procedimento autorizzatorio; doglianza incentrata sull’inutile decorso del termine di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza prescritto dal DPR n. 407 del 9 maggio 1994 (che come noto ha integrato la tabella C allegata al DPR 26 aprile 1992 n. 300, recante "Regolamento concernente le attività private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n 241") entro il quale al richiedente deve essere comunicato il diniego (si badi, comunicato e non semplicemente adottato: cfr. TAR Puglia Bari, Sez.II, 18 gennaio 2002 n.335).
Il Collegio laziale ripropone, in thema, la usuale lettura dell’art.21 della legge 241 del 7 agosto 1990 in combinato disposto con gli artt. 3 e 4 del menzionato DPR n. 300/1992, traendone l’unitario principio in forza del quale la formazione del silenzio è subordinata all’avvenuta dichiarazione, in seno all’istanza che dà avvio al procedimento, della sussistenza di tutti i requisiti di ordine sia soggettivo che oggettivo necessari ai fini del rilascio dell’autorizzazione, ferma restando l’inconfigurabilità dell’atto permissivo tacito qualora vengano rese dichiarazioni mendaci o false attestazioni (fattispecie colpite, peraltro, da apposite sanzioni: cfr. art. 21, comma 1, legge n.241/1990).
In effetti in base all’art.4, comma 1 del DPR n. 300/1992 “L'atto di assenso di cui all'art. 20, comma 1, della legge si considera formato quando la domanda è conforme alle disposizioni di cui al comma 2 dell’articolo precedente”; ed il comma 2 dell’art. 1 prescrive univocamente che “La denuncia e la domanda devono identificare le generalità del richiedente e le caratteristiche specifiche dell'attività da svolgere; inoltre, alla denuncia o alla domanda deve essere allegata una dichiarazione del richiedente che indichi la sussistenza dei presupposti, ivi compreso il versamento di eventuali tasse e contributi, e dei requisiti prescritti dalla legge per lo svolgimento di quell'attività. Quando la legge richieda particolari requisiti soggettivi, la denuncia e la domanda devono contenere anche i dati necessari per verificare il possesso o conseguimento dei requisiti stessi”.
Sul punto si erano conformemente pronunciati tanto il Consiglio di Stato, Sez. V, con la decisione n.145 dell’11 febbraio 1999, quanto – in tempi più recenti - lo stesso collegio della Sez. II ter con la sentenza n. 970 del 13 febbraio 2003 n. 970, sulla scorta di un orientamento già costantemente applicato dai TAR (v. ad es. TAR Sardegna, 22 aprile 1998 n.435, là dove si è rimarcato che il termine iniziale per la formazione del silenzio assenso, riferendosi la norma unicamente al provvedimento comunale, non è estensibile anche ad atti di competenza di altre autorità coinvolte a livello endoprocedimentale, e che esso può decorrere solamente da quando la domanda sia completa di tutta la documentazione e di tutti i pareri necessari).
Sennonchè v’è un ulteriore tassello che il Tribunale di Via Flaminia, nella pronuncia qui analizzata, aggiunge alla ricostruzione che si va oramai cristallizzando in giurisprudenza: il TAR individua con chiarezza anche negli atti programmatori adottati dalla stessa Amministrazione procedente la scaturigine di possibili conseguenze preclusive, in termini oggettivi, alla formazione del silenzio-assenso. Segnatamente, nella fattispecie in esame la carenza di un decisivo elemento oggettivo viene ravvisata nel divieto imposto dal Piano di commercio comunale su aree pubbliche del 1996 al rilascio di autorizzazioni o concessioni nel primo quadriennio di operatività del piano medesimo.
La posizione del Giudice laziale è, sul punto, assai netta: la proibizione contenuta nell’atto programmatorio risulta del tutto assorbente tanto sul piano istruttorio quanto su quello motivazionale.
In ordine al primo profilo, il Collegio assume che una volta appurata l’impossibilità (giuridica) di rilasciare l’autorizzazione a cagione del divieto imposto dall’atto programmatorio il diniego è del tutto legittimo anche se intervenuto dopo la scadenza del termine di formazione del silenzio-assenso (la cui operatività, come detto, è esclusa), senza necessità di compiere ulteriori verifiche circa i restanti requisiti dichiarati dall’istante.
Sotto il secondo profilo, nella sentenza n. 1399/2004 si statuisce che quando il provvedimento negativo indichi in modo esplicito la disposizione del Piano di commercio applicata, e ne riporti “anche sinteticamente il contenuto”, l’obbligo di clare loqui risulta soddisfatto appieno.
Il ricorrente, invero, non aveva nella specie impugnato, deducendo autonome censure, il Piano de quo, ma si era limitato a sostenere una sua particolare interpretazione, tesa a confinare gli effetti dell’illustrato divieto alle sole concessioni di suolo pubblico e ad escludere – correlativamente – ogni possibile incisione sui procedimenti funzionali al rilascio delle autorizzazioni commerciali.
Il Collegio non si preoccupa di disattendere tale esegesi; esso, piuttosto, si cura di porre in luce lo “stretto collegamento tra i due provvedimenti, esistente nella fattispecie: la possibilità di concedere l’area pubblica è presupposto indispensabile per il rilascio dell’autorizzazione commerciale in questione (sentenza n 6763/01)”.
Anche questo ulteriore passaggio motivazionale merita di essere sottolineato, poiché sembra presentare un tratto di marcata originalità: il TAR finisce in sostanza per escludere la vigenza del regime del silenzio-assenso non solamente quanto il rilascio del titolo autorizzatorio trovi un immediato ed inequivoco ostacolo nel dato testuale offerto dall’atto programmatorio, ma anche quando il divieto prefissato (in via generale) dalla stessa Amministrazione si appunti su di un diverso atto che rispetto a tale titolo si ponga in un rapporto di logica e cronologica presupposizione (e tale sembra essere, per l’appunto, il rapporto tra la concessione di suolo pubblico e l’autorizzazione di commercio).
In ultima analisi, per vincere la previsione di piano (art. 3) il ricorrente avrebbe dovuto indirizzare verso di essa autonome doglianze di legittimità (ad esempio invocando la violazione di superiori norme di legge, il difetto di istruttoria o l’irragionevolezza di una prescrizione così penalizzante nel contesto di un atto programmatorio impeditivo pro futuro di una valutazione caso per caso; o al limite adducendo l’ingiustificata compressione, per l’intero arco del quadriennio considerato, della libertà di iniziativa economica privata e/o la frustrazione degli affidamenti maturati, se esistenti). Al contrario, come, come incidentalmente ma significativamente rileva il Giudicante, la previsione stessa non era stata “contestata nel merito dal ricorrente”.

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