Giust.it

Giurisprudenza
n. 10-2001 - © copyright.

I

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SEZ. II – Sentenza 2 agosto 2001 in causa 37710/1997 - Pres. Rozakis - Elia srl (Avv. I.Fiorillio) c. Governo italiano (Ag. U.Leanza, V.Esposito).

Edilizia ed urbanistica - Piano regolatore generale - Vincoli preordinati all’esproprio – Limiti all’edificabilità dei suoli senza indennizzo – Violazione del principio del rispetto della proprietà posto dalla Convenzione per i diritti umani – Sussistenza .

Sussiste la violazione del principio del rispetto della proprietà (art. 1 del protocollo protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo firmato a Parigi il 20.03.1952) qualora vi sia una continua rinnovazione di vincoli su aree. Tale comportamento, pur non potendo essere assimilato ad una privazione della proprietà, può violare il giusto equilibrio tra esigenze dell’interesse generale ed imperativi a salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (nel caso di specie, un vincolo protrattosi per 33 anni senza indennizzi e con sola utilizzabilità agricola con una completa incertezza sull’utilizzazione edilizia del bene, ha generato un peso speciale ed esorbitante, con violazione del principio del rispetto della proprietà; lo Stato italiano ed il ricorrente sono stati quindi invitati a raggiungere un accordo che possa dare al privato equa soddisfazione ex art. 41 della Convenzione).

 

II

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SEZ. II – Sentenza 2 agosto 2001 in causa  2352/94 - Pres. A.B. Baka - Cooperativa La Laurentina (Avv. M. De Stefano) c. Governo italiano (Ag. U.Leanza, V.Esposito).

Edilizia ed urbanistica - Piano regolatore generale - Vincoli preordinati all’esproprio – Limiti all’edificabilità dei suoli senza indennizzo – Possibilità di attivare convenzioni edilizie - Violazione del principio del rispetto della proprietà posto dalla Convenzione per i diritti umani esclusione.

Va esclusa la violazione del principio del rispetto della proprietà (art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo firmato a Parigi il 20.03.1952)) se l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni del privato risponda – con un giudizio che compete alla Corte - alle esigenze dell’interesse generale (nel caso di specie la ricorrente, in lite fin dal 1965 con il Comune, avrebbe potuto dal 1974 in poi concludere una convenzione di lottizzazione: tale possibilità è stata ritenuta sufficiente ad assicurare la tutela del diritto al rispetto dei beni).

 

 

Commento di

GUGLIELMO SAPORITO

I vincoli ultraquinquennali preordinati all'esproprio violano il diritto al rispetto della proprietà

La Corte di Strasburgo condanna il Governo italiano per un vincolo ultratrentennale, mentre lo assolve nel caso di un vincolo, anch’esso ultraventennale, ma nel corso del quale l’interessato avrebbe avuto la possibilità di convenzionarsi con il Comune.

Dalla lettura delle due sentenze, redatte con particolare attenzione allo svolgimento dei fatti, emerge in modo chiaro il defatigante percorso subito da molti proprietari, che hanno visto paralizzata qualsiasi attività edilizia per periodi insopportabili.

Nelle sentenze di Strasburgo riecheggia il contenuto innovativo della pronuncia della Corte costituzionale n. 179 del 1999, cui si deve il riacquisto della dignità dei suoli, in precedenza mortificata da decenni di vincoli solo formalmente preordinati all’esproprio.

La materia dei vincoli è di recente stata innovata dall’art. 9 del testo unico sulle espropriazioni, che prevede un vincolo quinquennale. Qualora tale vincolo sia rinnovato, l’art. 39 impone un indennizzo.

Nel caso invece in cui il quinquennio spiri senza che l’opera sia iniziata, si applica l’art. 9 del T. U. in materia di edilizia (in corso di pubblicazione dopo il visto, ad ottobre 2001, della Corte dei Conti) e cioè l’indice dello 0,03 già previsto dall’art. 4 della legge 10/1977.

Quanto possa valere un vincolo ultraquinquennale, è suggerito dalla sentenza della Corte Costituzionale 179/1999, che ipotizza una somma pari : 1) al mancato uso normale del bene, oppure, 2) alla riduzione di utilizzazione; o ancora 3) alla diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.

In concreto, per chi voglia cimentarsi con formule finanziarie, si rinvia all’articolo di Maurizio D’Amato in Riv. Giur. Edilizia, 2000, II, 247 ss.

Sul TESTO UNICO ESPROPRIAZIONE PER P.U. (D.P.R. n. 327/2001, in G.U. n. 189 del 16 agosto 2001 - Suppl. Ord. n. 211) v. il parere del Consiglio di Stato, Ad. Gen., 29 marzo 2001 n. 4  ed il commento di P. VIRGA, Luci ed ombre nel nuovo testo unico sulle espropriazioni*; v. anche L. OLIVERI, Testo unico degli espropri: la "sindrome di Aristofane"; Id., D.P.R. 327/2001 e sue influenze sull’ordinamento degli enti locali ...

****

Sul funzionamento della Corte dei diritti dell’Uomo si rinvia al commento a margine della sentenza 30 maggio 2000 - Belvedere Alberghiera vs. Italy, in questa rivista, con nota di G. SAPORITO, L’occupazione acquisitiva è contraria ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le osservazioni ivi svolte vanno rettificate nel punto relativo alla esecuzione delle decisioni della Corte.

In particolare, come osserva in una cortese nota di chiarimento alla sentenza 30 maggio 2000 la dott.ssa Elena Malagoni, del Service de l'Exécution des arrêts CEDH,  l'esecuzione delle sentenze di condanna per uno Stato contraente spetta, in virtù dell'articolo 46§1 della Convenzione, allo Stato stesso, sotto il controllo del Comitato dei Ministri (articolo 46§2 CEDU).

Il fatto che una causa si concluda con un risarcimento dei danni non esclude affatto l'adozione di altre misure, ed in particolare l'adozione di misure di ripristino della situazione quo ante. Il fatto che ciò non appaia  esplicitamente nelle singole sentenze non è rilevante, poichè non rientra tra le competenze della Corte quella di indicare le misure specifiche d'esecuzione della sentenza.

La Corte ha infatti più volte ribadito che tale compito spetta appunto al Comitato dei Ministri.

A tale riguardo si può per esempio vedere la sentenza Scozzari & Giunta c/ Italia del 13 luglio 2000, par. 249-250, dove si legge che le parti si sino impegnate a conformarsi alle sentenze definitive nelle liti cui partecipano. Il Comitato dei ministri ha l’incarico di sorvegliare sull’esecuzione delle sentenze.

Ne deriva che lo Stato riconosciuto responsabile di una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, deve non solo erogare le somme dovute a titolo di equo ristoro, ma anche ad adottare, sotto il controllo del Comitato di Ministri, le misure generali e/o , se il caso lo richieda, individuali nell’ordinamento giuridico interno, per porre termine alla violazione accertata dalla Corte o di attutirne, per quanto possibile le conseguenze. (cfr., mutatis mutandis, sentenza  Papamichalopoulos ed altri c. Grèce du 31 ottobre 1995 (articolo 50) série A n° 330-B, pp. 58-59, § 34).

Resta inoltre inteso che lo Stato resta libero, sotto il controllo del Comitato die Ministri, di scegliere i mezzi di adempimento della sua obbligazione giuridica riguardo l’art. 46 della Convenzione, sempre che tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte. Per l’art. 41 della Convenzione, la finalità delle somme dovute a titolo di equa soddisfazione è solo quella di riparare i danni agli interessati, nella misura in cui tali danni costituiscono una conseguenza della violazione che non può essere eliminata.  

Al di là del pagamento di un eventuale equo indennizzo, l'obbligo giuridico d'esecuzione della sentenza da parte dello Stato contraente può dunque comportare l'adozione di misure due tipi:

1) misure specifiche volte, come si è detto, a ripristinare la situazione anteriore alla violazione o a rimediarne le conseguenze (si parla allora di "misure individuali").

Esempi di tali misure sono il rilascio di permessi di soggiorno o di autorizzazioni amministrative, la radiazione di una condanna, la revisione o riapertura di procedure giudiziarie, l'accelerazione e conclusione di determinati procedimenti, la restituzione di beni ecc....

2) misure "generali", volte a evitare nuove violazioni dello stesso tipo, quando le circostanze della violazione lasciano pensare che non si tratti di errore occasionale, ma rivelano piuttosto il rischio di nuove violazioni.

Il caso più evidente è quello in cui la violazione sia direttamente riconducibile ad una norma legislativa contraria alla Convenzione, ma in molti casi l'origine della violazione può essere di natura giurisprudenziale o addirittura risultare da provvedimenti o pratiche amministrative o anche da situazioni di fatto.

Le misure richieste saranno quindi a loro volta di natura legislativa, giurisprudenziale o amministrativa.

Sarebbe inesatto dire che "non si parla mai di efficacia diretta o cogente della sentenza della Corte di Strasburgo, nè di disapplicazione della norma italiana". È vero piuttosto il contrario, almeno per quanto riguarda tutti gli altri Stati contraenti. Il fatto che gli operatori giuridici italiani conoscano poco e male la Convenzione e di conseguenza l'applichino o la invochino ancor peggio non significa assolutamente che la Convenzione non abbia efficacia diretta. I casi di disapplicazione, da parte dei giudici, di norme interne a seguito di sentenze della Corte sono  tutt'altro che rari nei paesi che, rispetto all'Italia, hanno una migliore cultura dei diritti dell'uomo.

Inoltre, la responsabilità di esecuzione delle sentenze incombe allo Stato contraente in quanto tale, senza distinzione di ruoli (legislativo, esecutivo, giudiziario): il giudice è anzi il primo responsabile dell'applicazione diretta della Convenzione nell'ordinamento interno, e il legislatore dovrebbe intervenire solo quando ciò è reso assolutamente necessario dalla presenza di una norma palesemente e irriducibilmente contraria alla Convenzione. Con riferimento a questo punto, tra l'altro, il Consiglio Superiore della Magistratura ha recentemente attirato l'attenzione dei magistrati italiani sui doveri di cooperazione nella messa in atto della Convenzione (circolare CSM del 7.07.2000).

Il Comitato dei Ministri non si limita affatto a "prendere atto" delle modifiche apportate dagli Stati. I compiti di controllo che esso svolge gli permettono anzi di controllare pienamente i contenuti delle misure proposte.

Se infatti lo Stato è in principio libero di scegliere i mezzi per dare esecuzione ad una sentenza di condanna, resta che lo Stato è comunque vincolato ad un obbligo di risultato. Anche per quanto riguarda i mezzi, peraltro, in molti casi il Comitato dei Ministri interviene direttamente per indicare le misure da adottare quando ciò che lo Stato propone appare chiaramente insufficiente per risolvere il problema. Questo però sfugge all'attenzione dell'opinione pubblica poichè si tratta di procedura confidenziale.

È pur vero che talvolta le misure "accettate" dal Comitato dei Ministri si sono in seguito rivelate inadeguate per risolvere il problema all'origine della violazione.

L'esempio tipico è quello della durata eccessiva dei procedimenti in Italia. Ciò non dipende però tanto dalla difficoltà di vincolare la politica legislativa dello Stato e ancor meno da un presunto "lassismo".

Dipende invece da una serie di altri fattori quali il fatto che non è sempre possibile attendere per anni o decenni di verificare i risultati effettivi delle misure prese : se le misure adottate appaiono rispondere ragionevolmente al problema, ciò è spesso ritenuto sufficiente.

Inoltre è vero che il Comitato dei Ministri è ampiamente tributario delle informazioni, spesso frammentarie, fornite dallo Stato stesso.

Possono così sfuggire al controllo degli elementi importanti per la valutazione dell'efficacia futura delle misure prese, soprattutto quando alla scarsa qualità intrinseca delle informazioni ufficiali si aggiungono ostacoli derivanti dalla lingua in cui sono redatti i testi legislativi o un'imperfetta conoscenza dei sistemi giuridici interessati, per non parlare delle difficoltà dovute semplicemente all'insufficienza materiale delle risorse di cui il Comitato dispone per l'esercizio di questo delicato compito (forse non tutti sanno che tutto il lavoro di controllo dell'esecuzione delle sentenze, di tutte le sentenze della Corte, contro tutti gli Stati, è attualmente svolto da un servizio composto di soli 3 giuristi permanenti, 2 temporanei, 2 coordinatori e 2 collaboratori amministrativi).

Si ringrazia la dott.ssa Elena Malagoni per tali chiarimenti, utili in attesa che la Corte di Strasburgo si occupi di altri casi di violazione del “diritto al rispetto di diritti”.

 (testo delle due sentenze della Corte - traduzione non ufficiale a cura di G. Saporito)

 

 

I

Procedura

1. all’origine della vicenda vi è una richiesta indirizzata contro la Repubblica italiana e con la quale una società a responsabilità limitata, soc.Elia (“la ricorrente”), ha adito la Commissione europea dei Diritti dell’Uomo (“la Commissione”) il 6 agosto 1997, in virtù dell’art. 25 della Convenzione sulla salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (“la Convenzione”).

2. La ricorrente è rappresentata davanti la Corte dalla sig.ra I . Fiorillo, avvocato in Roma.I l governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente sig. U.Leanza e dal suo cogente sig. V.Esposito.

3. La ricorrente prospetta al violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 a causa dell’impossibilità di costruire sul terreno.

4. La richiesta è stata trasmessa ala Corte il 1 novembre 1998, data di entrata in vigore del protocollo 11 della Convenzione (art.5 § 2 del protocollo n. 11).

5. La richiesta è stata attribuita alla seconda sezione della Corte (art. 52 § 1 del regolamento). In ragione di ciò, il collegio incaricato di esaminare la vicenda (art. 27 § 1 della Convenzione) è stato costituito conformemente all’art. 26 § 1 del regolamento.

6. Con decisione 14 dicembre 2000 la Corte ha dichiarato la richiesta ricevibile.

7. Sia la ricorrente che il governo hanno depositato osservazioni scritte sull’oggetto della vicenda (art. 59 § 1 del regolamento).

IN FATTO

I – LE CIRCOSTANZE DELLA SPECIE

8. La ricorrente è proprietaria dal 1967 di un terreno di circa 65.000 metri quadrati, sto nel comune di Pomezia ed accatastato al foglio 11 particella 66. Nel 1963 il Comune di Pomezia aveva espresso il proprio parere favorevole ad un progetto edilizio da realizzare su detto terreno.

A. Il primo divieto posto con provvedimento amministrativo.

9. Il 29 dicembre 1967, il Comune di Pomezia deliberò l’adozione di un piano regolatore generale che destinò il terreno della ricorrente a parco pubblico.

10. Il 20 novembre 1974 la Regione Lazio approvò il P.R.G. di Pomezia. Questo destinava il terreno della ricorrente alla realizzazione di un parco pubblico e, in conseguenza, colpì detta area con un divieto assoluto di edificare in funzione dell’espropriazione.

11. In conformità all’art. 2 della legge 1187 del 1968, il divieto di costruire imposto dal PRG venne meno nel 1979, non essendo stato adottato alcun piano particolareggiato entro cinque anni.

B. I limiti al diritto di costruire derivanti dall’applicazione dell’art. 4 della legge 10/1977.

12. Malgrado il venir meno del divieto di costruire, l’area della ricorrente non recuperò la propria destinazione d’origine.

13. Ciò perchè, in attesa della decisione del Comune di Pomezia circa la nuova destinazione da imporre sull’area in contestazione, l’area stessa fu sottoposta al regime previsto dall’art. 4 della legge 10/1977, norma considerata applicabile a tale tipo di situazione dalla giurisprudenza (vedi §§ 38-40) e, dal 1990, dalla legge 86 della regione Lazio.

14. In conseguenza, l’area della ricorrente fu colpita dalle limitazioni derivanti dalla applicazione di detta legge.

15. Il 12 marzo 1987 la ricorrente chiese al Comune di Pomezia di determinare la nuova destinazione dell’area. Tale domanda restò senza risposta.

16. In assenza di risposta da parte del Comune, equivalente ad un rifiuto di provvedere, la ricorrente adì il TAR. Essa osservava in primo luogo che il Comune di Pomezia aveva l’obbligo di determinare la nuova destinazione d’uso della sua area e che l’inerzia dell’amministrazione era illegittima. Inoltre, la ricorrente chiese che l’amministrazione classificasse l’area come edificabile.

17. Con decisione del 16 ottobre 1989 il TAR Lazio accolse il ricorso della ricorrente, e riconobbe che l’inerzia del Comne di Pomezia era illegittima.

18. Il tribunale considerò che il divieto di costruire imposto nel 1974 era divenuto inefficace dopo cinque anni, a norma della legge 1187/1968, non avendo il Comune adottato alcun piano urbanistico particolareggiato. Successivamente, l’area della ricorrente era stata sottoposta al regime della legge 10/1977. Il TAR ritenne che le limitazioni al diritto di costruire derivanti dall’applicazione di tale legge 10/1977 non potevano sostituire un provvedimento amministrativo che determinasse in positivo quale fosse la destinazione del terreno; in conseguenza, l’amministrazione aveva l’obbligo di provvedere ad una ricostituzione della disciplina urbanistica e l’inerzia dell’amministrazione era illegittima. Comunque, il comune restava totalmente libero di attribuire all’area in contestazione la destinazione che credesse, non potendo il TAR ordinare che l’area fosse classificata in un modo o nell’altro.

19. In conclusione il TAR ordinò all’amministrazione di attribuire una nuova destinazione all’area della ricorrente.

20. Il Comune di Pomezia interpose appello su detta sentenza.

21. Con decisione 28 febbraio 1992 il Consiglio di Stato rigettò il ricorso del comune di Pomezia e confermò la sentenza impugnata.

22. Non avendo il Comune di Pomezia dato seguito alla decisione del Consiglio di Stato, il 10 settembre 1992 la ricorrente invitò l’amministrazione ad adottare una decisione sull’area. Inoltre, la ricorrente propose una soluzione, secondo la quale se il Comune avesse classificato 15.000 metri quadrati come area edificabile, la restante superficie sarebbe stata ceduta gratuitamente al Comune stesso. Questa proposta rimase senza seguito.

C. Il secondo limite derivante da atto amministrativo.

23. Con delibera del 25 ottobre 1995, il Comune di Pomezia deliberò l’adozione di un piano particolareggiato di urbanizzazione e impose nuovamente un divieto assoluto di costruire in funzione dell’esproprio dell’area della ricorrente. Il Comune classificò l’area come destinata a servizi pubblici.

24. La ricorrente inoltrò ricorso contro questo provvedimento al CO.RE.CO. per ottenere l’annullamento della decisione del Comune. Essa sosteneva che la destinazione dell’area era stata indicata in modo troppo vago e che le condizioni per rinnovare il blocco dell’edificabilità, tra le quali l’interesse pubblico, non erano presenti. L’esito di questo ricorso non è noto.

25. Risulta da una perizia prodotta dalla ricorrente, che al 22 marzo 1999 il piano particolareggiato che prevedeva il divieto di costruire sull’area della ricorrente è stato adottato.

II – Il diritto e la prassi interna rilevanti.

1 – Nozioni generali in tema di urbanistica.

26. Secondo l’art. 42 co. 2 e 3 della Costituzione italiana, la proprietà privata è garantita e riconosciuta dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e di godimento nonchè i limiti con la finalità di assicurarne la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere espropriata nei casi previsti dalla legge, salvo indennizzo per motivi di interesse generale.

La legge urbanistica 1950 del 1942 e sue modifiche regolano lo sviluppo urbanistico del territorio e affidano ai Comuni il potere di adottare piani urbanistici che devono riguardare l’intero territorio comunale.

27. Il Piano regolatore generale, P.R.G., è un atto a durata indeterminata. L’adozione del P.R.G. inizia con una delibera dopo la quale inizia un periodo “di salvaguardia” durante il quale le decisioni sulle domande di concessione potenzialmente in conflitto con la realizzazione del piano sono sospese (Legge 1902/1952 e sue modifiche). L’approvazione del P.R.G. è sottoposta al parere della regione (art. 1 D.P.R. 8/1972 ed art. 79 e 80 D.P.R. 616/1977) mentre prima avveniva per decreto del Presidente della Repubblica. Una volta approvato, il piano è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e depositato in Comune.

28. Quando disciplina in modo preciso il territorio, il P.R.G. può essere eseguito de plano; molto spesso tuttavia il P.R.G. ha bisogno, per essere applicato, di procedure complementari. Queste ultime possono dipendere dall’iniziativa pubblica, come in particolare avviene per il piano particolareggiato, che ha una durata determinata.

In effetti, dopo l’adozione del piano particolareggiato (piano che equivale ad una dichiarazione di pubblica utilità) l’amministrazione dispone di un termine massimo (non superiore ai 10 anni, art. 16 L. 1150 del 1942) per espropriare le aree ed in tutti i casi per eseguire il piano particolareggiato stesso sotto pena di decadenza del piano. Quando il P.R.G. ha bisogno di un piano particolareggiato per essere applicato, è onere del Comune adottarne uno.

Tuttavia, non è previsto alcun termine massimo per l’adozione di un piano particolareggiato.

2 - L’imposizione e la durata di un divieto di costruire: i principi fissati dalla Corte costituzionale.

29. I limiti al diritto di disporre della proprietà, quali il divieto di costruire, sono imposti con l’adozione di un piano urbanistico. Un divieto di costruire può essere imposto in funzione dell’esproprio di un’area (vincolo preordinato all’esproprio), quando riguarda un’area destinata ad uso pubblico o la realizzazione di manufatti o infrastrutture pubbliche (art. 7 co. 3 e 4 L. 1150/1942).

30. La legge urbanistica, nel suo testo originale, prevedeva che i limiti al diritto di proprietà dei singoli, previsti da un P.R.G., ed in particolare i divieti di costruire avessero una durata equivalente a quella del P.R.G., cioè una durata indeterminata; contemporaneamente, non era previsto alcun indennizzo per i proprietari (art. 40).

31. La Corte costituzionale fu investita del quesito se un divieto che incideva gravemente sul diritto di proprietà, come un vincolo espropriativo o un vincolo di inedificabilità che poteva prolungarsi sine die senza alcun indennizzo, fosse compatibile con il diritto di proprietà.

32. Con sentenze rese tra il 1966 ed il 1968 (in particolare n. 6 del 1966 e n. 65 del 1968), la Corte costituzionale espresse un giudizio sfavorevole e dichiarò la legge urbanistica incostituzionale nella parte in cui prevedeva una durata indeterminata delle limitazioni che intaccavano gravemente il diritto di proprietà, come i divieti di costruire o i divieti finalizzati all’esproprio, in mancanza di qualsiasi indennizzo.

33. La Corte costituzionale ha precisato che la legge può limitare il diritto di proprietà dei singoli a condizione che tale diritto non sia tuttavia svuotato nella sostanza. D’altra parte, il diritto di costruire deve essere considerato come una facoltà inerente al diritto di proprietà, che non può essere limitato se non per motivi di interesse pubblico precisi ed attuali. In caso di esproprio o di limite contrario alla natura stessa del diritto in questione (come ad esempio un divieto di costruire) a durata indeterminata, il proprietario deve ricevere una compensazione economica. Nel contempo, non è dovuto alcun indennizzo per limiti di edificabità a durata limitata.

34. Dopo queste sentenze della Corte costituzionale che ponevano i principi in tema di limiti al diritto di proprietà, il legislatore aveva due scelte: optare per limiti a durata limitata senza indennizzo, o in alternativa, optare per limiti a durata indeterminata con indennizzo immediato.

35. Il legislatore italiano ha dato seguito a queste sentenze scegliendo la prima opzione, ed adottando, il 19 novembre 1968, la legge 1187 che ha modificato la legge urbanistica. L’art. 2 co. 1 di questa legge prevede che, al di fuori dell’adozione di un piano urbanistico, le autorità locali possono imporre ai singoli divieti in vista dell’esproprio dell’area e divieti di costruire. Tuttavia questi limiti decadono in 5 anni se l’esproprio non ha luogo oppure se nessun piano urbanistico di esecuzione, come il piano particolareggiato, viene adottato.

36. L’art. 2 della legge 1187/1968 prevedeva inoltre, nel secondo comma, una proroga ex lege, per 5 anni dei termini fissati dai piani urbanistici approvati prima della sua entrata in vigore. Le leggi 756 del 1973 e 696 del 1975, nonchè il Decreto legge 781 del 26 novembre 1976 hanno prorogato queste scadenze fino all’entrata in vigore della L. n. 10 del 1977 (disposizioni in tema di edificabilità dei suoli).

37. Con sentenza n. 92 del 1992 la Corte costituzionale ha precisato la portata della legge 10 del 1977 sottolineando che, anche dopo l’ entrata in vigore di tale norma, il diritto di costruire è una facoltà inerente il diritto di proprietà. Per ciò che riguarda i divieti di costruire, la Corte ha precisato che essi restano sottoposti alla legge 1187 del 1968, cioè la durata di tali divieti non può superare i 5 anni senza l’adozione di un piano particolareggiato.

3 – Situazione dopo la scadenza del vincolo di inedificabilità.

38. Secondo la giurisprudenza, nel caso in cui il divieto di costruire viene meno a norma dell’art. 2 comma 1 della L. 1187 del 1968, dopo il decorrere del termine quinquennale le aree non recuperano in modo automatico la loro destinazione iniziale e non acquistano in modo automatico la destinazione delle aree confinanti. Per individuare la nuova destinazione di un'area è necessario un atto specifico dell'amministrazione, come un piano particolareggiato.

Nell’attesa di questo atto dell’amministrazione, le aree sono considerate dalla giurisprudenza sottomesse al regime previsto dall’art.4 della L. 10 del 1977 relativo ai terreni dei Comuni che non hanno adottato P.R.G. (giurisprudenza del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria n. 7 e 10 del 1984).

Secondo l’art. 4 della legge 10/1977, (in assenza di PRG) una concessione edilizia può essere ottenuta se l’area è situata fuori dal centro abitato ed a certe condizioni con un volume molto ridotto. Se l’area è situata all’interno del centro abitato, è vietata ogni nuova costruzione.

39. La Regione Lazio ha trasfuso questa giurisprudenza nella legge 826 del 24 novembre 1980 la quale prevede espressamente che un divieto assoluto di costruire colpisca le aree prive di destinazione urbanistica situate all’interno di un centro abitato.

4. In caso di inerzia dell’amministrazione.

40. Dopo la scadenza del divieto di costruire, spetta al Comune determinare rapidamente la nuova destinazione dell’area; tuttavia non è previsto alcun termine essenziale.

41. L’inerzia dell’amministrazione può essere impugnata dagli interessati davanti alla giustizia amministrativa (decisione del Consiglio di Stato Sez. IV , 20 maggio 1996 n. 664). Quest’ ultima può ordinare al Comune di individuare la nuova destinazione degli immobili, senza tuttavia potersi sostituire alle autorità competenti nella scelta della destinazione. Nella sentenza n. 67/1990, resa in un caso di esproprio in cui si discuteva dell’inerzia dell’amministrazione, la Corte costituzionale ha affermato che il ricorso avverso l’inerzia dell’amministrazione davanti al TAR è defatigante e non conclusivo, con conseguente scarsa efficacia.

42. La Corte costituzionale è stata investita del dubbio relativo alla sottoposizione di un’area al regime previsto dall’art. 4 della L. 10/1977 ed alla compatibilità con la Costituzione, in quanto questo regime genera un divieto di costruire sine die senza indennizzo, in caso di inerzia dell’amministrazione nella determinazione di una nuova destinazione dell’area (in particolare, nell’adozione di un piano urbanistico). Nella sentenza 185 del 1993 la Corte costituzionale ha dichiarato irricevibile la questione poichè appartiene alla competenza esclusiva del legislatore la facoltà di intervenire rapidamente per rimediare a questa situazione.

5. Il rinnovo del divieto di costruire (da parte di un atto amministrativo)

43. Con sentenza del 1989 (n. 575), la Corte Costituzionale ha sancito che, decorso il periodo di cinque anni previsto dall’art. 2 della legge n. 1187 del 1968 e al momento di una nuova pianificazione del territorio, le autorità locali hanno il potere di rinnovare il divieto di costruire per ragioni di pubblica utilità. Questa sentenza ha dunque riconosciuto il potere dell’amministrazione di reiterare il divieto una volta scaduto il primo.

44. Tuttavia, il potere dell’amministrazione di rinnovare il divieto di costruire non può tradursi in un divieto di costruire sine die nell’assenza di una qualsivoglia forma di indennizzo. Infatti, allorchè il divieto di costruire priva di sostanza il diritto di proprietà in quanto dà luogo ad una incertezza sostanziale, a causa della sua proroga per una durata indeterminata o della sua reiterazione, il proprietario dovrebbe beneficiare di un indennizzo (vedasi in senso conforme le sentenze della Corte Costituzionale n. 186 del 1993, n. 344 del 1995 e la decisione del Consiglio di Stato (sez. IV) n. 159 del 1994).

6. L’assenza di indennizzo

45. La Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di limitazioni al diritto di proprietà in vista di espropriazione e anche in assenza di un qualunque indennizzo, il proprietario colpito è titolare di un semplice interesse legittimo, quindi di una posizione soggettiva tutelata in via indiretta e subordinata rispetto all’interesse pubblico e non ha un diritto pieno e assoluto (diritto soggettivo) alla concessione di un compenso finanziario (vedere le sentenze delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 11308 del 28 ottobre 1995, 11257 del 15 ottobre 1992 e 3987 del 10 giugno 1983).

46. Da quel momento, a fronte della decisione delle autorità locali che gli impongano un divieto di costruire, il proprietario può adire il giudice amministrativo al fine di fare accertare se, nell’esercizio del suo potere discrezionale, l’amministrazione abbia rispettato le regole fissate dalla legge e non abbia ecceduto il margine di apprezzamento di cui dispone nella valutazione dell’equilibrio tra l’interesse pubblico e il suo interesse privato. Tuttavia, anche ove il giudice amministrativo annulli il divieto di costruire, nessun compenso economico è dovuto quando il divieto di costruire sia stato previsto per una durata indeterminata, segnatamente se esso è sottoposto al termine di cinque anni previsto dall’art. 2 della legge n. 1187 del 1968.

47. Riprendendo i principi fissati nella sua giurisprudenza anteriore (vedere le sentenze citate al paragrafo 32 come le sentenze n. 82 del 1982, n. 575 del 1989, n. 344 del 1995), la Corte Costituzionale ha, con la sentenz n. 179 del 12-20 maggio 1999, dichiarato costituzionalmente illegittima la mancata previsione da parte della legge di una forma di indennizzo per il caso in cui un vincolo preordinato all’esproprio o un divieto di costruire, siano reiterati dall’amminisrazione in modo che il diritto di proprietà risulti gravemente leso. Il diritto di proprietà è limitato in modo problematico quando un divieto sia rinnovato o prorogato sine die o quando sia rinnovato più volte per un periodo indeterminato.

Lasciando in ogni caso inalterata la possibilità per l’amministrazione di rinnovare i divieti di costruire, la Corte ha affermato che è necessario che il legislatore intervenga e preveda una forma di indennizzo, precisando i criteri e le modalità dello stesso.

La Corte non ha escluso che un giudice adito per una domanda di indennizzo prima dell’intervento del legislatore possa ricercare all’interno dell’ordinamento giuridico criteri che gli permettano di concedere, se del caso, un indennizzo.

La Corte ha in egual misura precisato che l’obbligo di rilasciare l’indennizzo non concerne che il periodo successivo ai primi cinque anni di divieto (periodo di franchigia).

IN DIRITTO

1. SULLA CONTESTATA VIOLAZIONE DELL’ART. 1 DEL PROTOCOLLO N. 1

48. La Società ricorrente contesta che i limiti imposti sul suo terreno per un lungo periodo e in assenza di indennizzo ledono il suo diritto al rispetto dei suoi beni, garantito dall’art. 1 del Protocollo n. 1, che è così formulato:

“Ogni persona fisica o morale ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà che per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni che precedono non incidono sul diritto degli Stati di emanare le leggi che reputino necessarie per regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi, o delle sanzioni.”

1. Sull’esistenza di una ingerenza nel diritto di proprietà della ricorrente

49. La Corte rileva che le parti concordano nel dire che c’è stata ingerenza nel diritto al rispetto dei beni della ricorrente.

50. Resta da esaminare se la detta ingerenza è in contrasto o meno con l’art. 1 del Protocollo n. 1.

2. Sulla giustificazione dell’ingerenza nel diritto di proprietà della ricorrente

a)       la regola applicabile

51. La Corte rammenta che l’art. 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: “la prima, che si esprime nel primo periodo del primo comma e riveste un carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, presente nel secondo periodo del medesimo comma, riguarda la privazione della proprietà e la sottopone a certe condizioni; quanto alla terza, contenuta nel secondo comma, essa riconosce agli Stati il potere, tra l’altro, di regolamentare l’uso dei beni in conformità dell’interesse generale (…). Non si tratta pertanto di regole prive tra loro di relazione. La seconda e la terza si riferiscono a esempi particolari di lesione del diritto di proprietà; pertanto, esse si devono interpretare alla luce del principio sancito dalla prima” (vedasi, tra le altri, la sentenza James et autres c. Regno Unito del 21 febbraio 1986, serie A n° 98-B, pp. 29-30, § 37, la quale riprende in parte i termini dell’analisi che la Corte ha sviluppato nella sua sentenza Sporrong e Lonnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, serie A n° 52, p. 24 § 61; vedere anche le sentenze I Santi Monasteri c. Grecia del 9 dicembre 1994, serie A n° 301-A, p. 31, § 56, e Iatridis c. Grecia [GC], n° 31107/96, § 55, CEDH 1999-II).

52. La ricorrente lamenta di essere vittima di un esproprio di fatto per l’effetto combinato di divieti di costruire in vista dell’esproprio del terreno, che hanno azzerato a niente il valore e le possibilità di disporre dello stesso.

53. Il Governo sostiene che la situazione litigiosa dipende dalla regolamentazione dell’uso dei beni.

54. La Corte rileva che il terreno della ricorrente è stato sottoposto a divieti di costruire in previsione dell’esproprio. Ora, queste misure non hanno generato una privazione formale della proprietà, ai sensi del secondo periodo del primo comma dell’art. 1, poiché il diritto di proprietà della ricorrente è rimasto giuridicamente intatto.

55. Nell’assenza di un trasferimento della proprietà, la Corte deve guardare al di là delle apparenze e analizzare la realtà della situazione di lite. A questo riguardo, è importante ricercare se la detta situazione non equivalesse a un esproprio di fatto, come pretende l’interessata (vedere, mutatis mutandis, la sentenza Airey c. Irlanda del 9 ottobre 1979, serie A n° 32, p. 14, § 25).

56. La Corte rileva che gli effetti della situazione di lite denunciati dalla ricorrente derivano tutti dalla diminuzione della disponibilità del bene in oggetto. Risultano limitazioni apportate al diritto di proprietà come conseguenze di queste sul valore dell’immobile. Pertanto, pur avendo perduto di sostanza, il diritto in oggetto non è scomparso. Gli effetti delle misure in questione non sono tali da potere essere assimilati ad una privazione della proprietà. La Corte nota a questo proposito che la ricorrente non ha perduto né l’accesso al terreno né il dominio dello stesso e che in principio la possibilità di vendere il terreno, anche se reso più disagevole, è rimasto (sentenza Loizidou c. Turchia del 18 dicembre 1996, Raccolta 1996-VI, p. 2237, § 63; sentenza Sporrong e Lonnroth precitata, p. 24, § 63). A queste condizioni, la Corte ritiene che non si è avuto esproprio di fatto e quindi il secondo periodo del primo comma non trova applicazione nella specie.

57. La Corte è dell’avviso che i rimedi di lite non attengono nemmeno alla regolamentazione dell’uso dei beni, ai sensi del secondo comma dell’art. 1 del Protocollo n. 1. Infatti, se è vero che si tratta di divieti di costruire derivanti da regolamentazione del territorio (sentenza Sporrong precitata, p. 25, § 64), ciò non significa che le stesse misure non tendessero allo stesso tempo all’esproprio del terreno (vedasi § 29).

La Corte ritiene quindi che la situazione denunciata dalla ricorrente rientri nel primo periodo dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (sentenza Sporrong precitata, p. 25, § 65; sentenza Erkner e Hofauer c. Austria del 23 aprile 1987, serie A n° 117, p. 65, § 74 e Poiss c. Austria del 23 aprile 1987, serie A n° 117, p. 108, § 64).

b)       Il rispetto della norma enunciata al primo periodo del primo comma

58. Ai fini del primo periodo del primo comma, la Corte deve ricercare se un giusto equilibrio sia stato mantenuto tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (sentenza Sporrong e Lonnroth precitata, p. 26, § 69; sentenza Phocas c. Francia del 23 aprile 1996, Raccolta 1996-II, p. 542, § 53).

i. Tesi difesa dalla ricorrente

59 La ricorrente sostiene che la situazione denunciata non è conforme all’art. 1 del Protocollo n. 1.

60. Essa fa osservare che l’ingerenza nel suo diritto al rispetto dei bene dura da più di trentatre anni, dato che prima dell’adozione del piano regolatore generale del 1974 e dell’imposizione del primo divieto, il suo terreno si trovava sotto il peso delle misure di salvaguardia del 1967.

61. La ricorrente rimprovera alle autorità amministrative un lungo periodo d’inerzia: essa sottolinea i ritardi nell’attribuzione di una destinazione al terreno, dopo il venir meno del primo divieto, cosicchè l’amministrazione non ha mai proceduto all’esproprio del terreno. A questo riguardo, essa fa osservare che a partire dal novembre 1979, dopo la scadenza del divieto di costruire imposto nel piano regolatore generale, il terreno è stato sottoposto al regime della legge n. 10 del 1977, ciò che equivale a un nuovo divieto di costruire, che è durato fino all’adozione del piano particolareggiato. La ricorrente afferma che l’illegittimità di questo sistema è stata sottolineata dalla sentenza della Corte Costituzionale emessa nel 1999.

62. L’interessata fa osservare che, per l’effetto combinato dei divieti di costruire in vista dell’esproprio del suo terreno, il suo diritto di proprietà è stato “congelato” per tutto questo periodo: essa ha perso ogni possibilità di utilizzare il terreno e il valore di questo si è ridotto a niente.

63. La ricorrente contesta l’affermazione del Governo secondo la quale essa avrebbe potuto utilizzare il terreno a fini agricoli, dato che il terreno in oggetto è situato nel pieno centro di Pomezia. D’altra parte, il fatto che, prima dell’adozione del piano regolatore generale, il Comune di Pomezia era favorevole a un progetto di costruzione confermerebbe che il terreno non si presta ad un uso agricolo.

64. Essa afferma che non era nemmeno possibile cedere il terreno in locazione, poiché non sarebbe stata autorizzata alcuna attività sopra lo stesso.

65. Quanto alla possibilità di vendere il terreno, la ricorrente sostiene che la situazione di lite ha eliminato ogni possibilità concreta di trovare un acquirente.

66. Essa contesta la tesi del Governo secondo la quale l’acquirente potenziale, nel caso in cui il terreno fosse successivamente espropriato, riceverebbe un indennizzo quasi equivalente al valore venale. A questo riguardo la ricorrente si riferisce alla legge n° 359 del 1992, che fissa i criteri per la determinazione dell’indennizzo in caso di esproprio, e sostiene che l’indennizzo equivarrebbe al 30% del valore venale del terreno. Conseguentemente, non si potrebbe sostenere che il terreno in questione possa essere venduto.

67. D’altra parte, se il terreno non fosse espropriato e l’atto impositivo del divieto di costruire perdesse efficacia, il potenziale acquirente dovrebbe attendere che l’amministrazione attribuisca una nuova destinazione al terreno. Ora, contro l’inerzia dell’amministrazione interessata non vi è che il ricorso davanti al tribunale amministrativo, ricorso che ha una debole efficacia, in base a quanto sancito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n° 67 del 1990 e in base a quanto dimostra il ricorso che la ricorrente ha essa stessa intentato davanti al giudice amministrativo. Questo rafforza le conclusione che il terreno era un bene al di fuori del commercio.

68. Tenuto conto della gravità dell’attentato al suo diritto di proprietà, la ricorrente osserva che l’assenza di indennizzo è incompatibile con l’articolo 1 del Protocollo n. 1. Riferendosi alla giurisprudenza della Corte (sentenze precitate Sporrong e Lonnroth, Erkner e Hofauer, Poiss) la ricorrente osserva che una frattura del giusto equilibrio è stata riconosciuta in questi casi ove l’ingerenza avesse una durata inferiore a quella del caso di specie.

69. La ricorrente sottolinea che i principi fissati dalla Corte Costituzionale in materia non sono stati tenuti in considerazione dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione, dal momento che un terreno può sempre essere sottoposto per una durata indeterminata a un divieto di construire senza possibilità di indennizzo.

70. In conclusione, la ricorrente chiede alla Corte di accertare una violazione dell’art. 1 del Protocollo n° 1.

ii. Tesi difesa dal Governo

71. Il Governo osserva che la situazione denunciata non può essere assimilata ad una privazione della proprietà. Infatti, la doglianza della ricorrente riguarda il divieto di costruire che colpisce il suo terreno, ciò che non equivale all’impossibilità di utilizzare il terreno. A questo riguardo, il Governo sostiene che una utilizzazione a fini agricoli sarebbe stata possibile.

72. Inoltre, la ricorrente avrebbe sempre avuto la possibilità di vendere il suo terreno, malgrado il fatto che lo stesso poteva essere espropriato. Infatti, in caso di esproprio, un indennizzo pari quasi al valore di mercato del bene sarebbe stato versato dall’amministrazione.

73. Avuto riguardo a queste considerazioni, secono il Governo nella specie non si è avuta una rottura del giusto equilibrio, poiché il divieto di costruire controverso rientra nell’ambito di apprezzamento lasciato agli Stati, che in questa materia è particolarmente largo. Il Governo si riferisce alla giurisprudenza della Corte negli affari Mellacher c. Austria, Fredin c. Svezia, Allan Jacobsson c. Svezia e Pine Vally Developments Ltd e altri c. Irlanda.

74. Il Governo afferma infine che il diritto di proprietà come garantito dalla Costituzione italiana risponde ad una funzione sociale.

75. In conclusione, il Governo sostiene che la situazione denunciata dalla ricorrente è compatibile con l’art. 1 del Protocollo n° 1 e chiede alla Corte di concludere per la non-violazione di questa disposizione.

iii. Valutazioni della Corte

76. La Corte rileva che il terreno della ricorrente è stato sottoposto a un divieto di costruire in vista del suo esproprio imposto dal piano regolatore generale; dopo la sua scadenza, il divieto di costruire è stato mantenuto dall’applicazione del regime previsto dalla legge n° 10 del 1977; un divieto di costruire in vista dell’esproprio è stato infine imposto di nuovo dal piano particolareggiato. Ne risulta che la vertenza di lite dura da più di venticinque anni a decorrere dall’approvazione del piano urbanistico regionale (vedere § 10), e da più di trentatre anni decorrenti dalla delibera comunale in vista dell’adozione dello stesso (vedere § 9).

77. La Corte reputa naturale che in una materia così complessa e difficile come la gestione del territorio, gli Stati contraenti beneficino di un ampio margine di apprezzamento per orientare la loro politica urbanistica (sentenza Sporrong e Lonnroth precitata, p. 26, § 69). Essa ritiene che l’ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto dei suoi beni rispondeva alle esigenze di interesse generale. Ciononostante essa non rinuncia al proprio potere di controllo.

78. È compito della Corte verificare che l’equilibrio voluto sia stato preservato in maniera compatibile con il diritto della ricorrente al rispetto dei suoi beni, ai sensi del primo periodo dell' art. 1.

79. La Corte ritiene che durante tutto il periodo dedotto, la ricorrente è rimasta nella completa incertezza quanto alla sorte della sua proprietà: in un primo tempo, posto che il piano regolatore generale colpiva il terreno con un divieto in vista dell’esproprio, lo stesso terreno avrebbe potuto essere espropriato a condizione che fosse adottato un piano particolareggiato, ciò che non è avvenuto (vedere § 11); dopo il 1979, il terreno avrebbe potuto, in ogni momento, essere di nuovo colpito da un altro divieto in vista dell’esproprio, ciò che è avvenuto sedici anni più tardi, nell’ottobre 1995, con una delibera comunale divenuta definitiva nel 1999 (vedere §§ 12, 13, 24 e 25); attualmente il terreno può, in ogni momento, essere espropriato.

80. La Corte nota che le domande rivolte al Comune e i ricorsi introdotti dalla ricorrente davanti al giudice amministrativo non hanno rimediato all’incertezza patita fra il 1979 e il 1995 (vedere §§ 15-22).

81. La Corte ritiene inoltre che l’esistenza, durante tutto il periodo in oggetto, dei divieti di costruire ha ostacolato il pieno esercizio del diritto di proprietà della ricorrente e ha accentuato le ripercussioni dannose sulla situazione della ricorrente, diminuendo considerevolmente, tra l’altro, le possibilità di vendere il terreno.

82. Essa constata infine che la legislazione nazionale non prevede la possibilità di ottenere un indennizzo.

83. Le circostanze di causa, in particolare l’incertezza accoppiata all’ inesistenza di qualsivoglia efficace rimedio interno suscettibile di attenuare la situazione di lite combinata con l’impedimento al pieno esercizio del diritto di proprietà e l’assenza di un indennizzo, inducono la Corte a considerare che la ricorrente ha dovuto sopportare un peso speciale ed esorbitante che ha infranto il giusto equilibrio che deve sussistere, da una parte, tra le esigenze di interesse generale e, dall’altra parte, la salvaguardia del diritto al rispetto dei beni (sentenza Sporrong precitata, p. 28 §§ 73-74; sentenza Erkner e Hofauer precitata, p. 66, §§ 78-79; sentenza Poiss precitata, p. 109, §§ 68, 69; Almeida Garrett, Mascarenhas Falcao e altri c. Portogallo, nn. 29813/96 e 30229/96 (Sez. I) CEDH 2000, § 54).

84. In conclusione, si è avuta violazione dell’art. 1 del Protocollo n° 1.

II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

85. Ai sensi dell’art. 41 della Convenzione,

“Se la Corte dichiara che si è avuta violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno delle Alte Parti contraenti non permette di eliminare che non perfettamente le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se del caso, una equa soddisfazione”.

86. A titolo di danno materiale, la ricorrente sollecita 5 389 410 000 lire italiane (ITL), corrispondenti al valore del terreno nel 1979, data alla quale è scaduto il primo divieto. Questa somma deve essere rivalutata e maggiorata degli interessi. La ricorrente si fonda su una perizia effettuata nel novembre 1977 su terreni vicini, che sono stati costruiti nel limite di 3 metri cubi per metro quadrato. La ricorrente indica che il valore del terreno calcolato nel dicembre 2000 è di 550 000 ITL per metro quadrato.

87. A titolo di danno morale la ricorrente chiede 5 000 000 000 ITL. Essa sottolinea che, trattandosi di una società gestita da una famiglia (madre, padre e figli), essa può pretendere un indennizzo per l’incertezza e l’angoscia che le vicende del terreno hanno provocato. Infatti, il terreno rappresentava l’essenziale risorsa familiare. D’altra parte, due soci avrebbero avuto delle ripercussioni sul loro stato di salute.

88. La ricorrente reclama il rimborso delle spese diverse sostenute a livello nazionale, che ammontano a 200 milioni ITL e di cui essa ammette di non essere in possesso della totalità dei titoli giustificativi. Per ciò che riguarda la procedura davanti al TAR e al Consiglio di Stato (vedere §§ 16-21), la ricorrente ha fornito due note spese, per importi complessivi di 7 500 000 ITL e 2 150 000 ITL; inoltre, essa ha fornito una terza nota spese ammontante a 5 000 000 ITL, corrispondente all’assistenza ulteriore dell’avvocato che la ha difesa nella presente procedura. L’importo globale di queste tre note spese di cui la ricorrente sollecita il pagamento è di 14 650 000 ITL, più IVA (imposta sul valore aggiunto) e CPA (contributo alla cassa di previdenza degli avvocati).

89. Quanto alla procedura a Strasburgo, presentando uno schema di nota spese redatta sulla base del tariffario nazionale, la ricorrente sollecita il rimborso di 238 000 000 ITL più IVA e CPA.

90. Secondo il Governo, la ricorrente non è legittimata a reclamare un pregiudizio materiale, nella misura in cui chiede una somma per un terreno edificabile e si riferisce ai terreni vicini che non sono sottoposti al divieto di costruire. A suo parere, pretendere un pregiudizio materiale di questo tipo equivale a negare il potere dell’amministrazione di regolamentare il territorio e significherebbe che il proprietario ha il diritto di costruire.

91. Quanto al danno morale, il Governo osserva che nessuna somma deve essere accordata alla ricorrente a questo titolo, in quanto si tratta di una società. In ogni caso, il Governo sostiene che la somma richiesta è esorbitante.

92. Il Governo fa infine osservare che le spese esposte dalla ricorrente non sembrano essere rimborsabili.

93. La Corte ritiene che la questione dell’applicazione dell’art. 41 non sia matura, di modo che la riserva ad un momento ulteriore riguardo all’eventualità di un accordo tra lo Stato e l’interessato (artt. 75 §§ e 4 del regolamento).

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

1. Decide, con sei voti contro uno, che si è avuta violazione dell’art. 1 del Protocollo n° 1;

2. Decide, con sei voti contro uno, che la questione dell’applicazione dell’art. 41 della Convenzione non è matura per la decisione allo stato;

3. Di conseguenza,

a) la riserva integralmente;

b) invita il Governo e la ricorrente ad inviarle per iscritto, entro tre mesi, le loro osservazioni su questa questione e in particolare per fornire la conoscenza di tutti gli accordi cui essi potrebbero addivenire;

c) riserva la ulteriore procedura e delega al presidente del collegio il compito di fissarla all’occorrenza.

Scritto in francese, poi comunicato per iscritto il 2 agosto 2001 in applicazione dell’art. 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Erik Fribergh Christos Rozakis

Greffier Presidente

Alla presente sentenza è allegato, conformemente agli artt. 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, il testo dell’opinione dissenziente del Sig. Conforti.

OPINIONE DISSENZIENTE

DEL GIUDICE CONFORTI

A mio avviso, l’art. 1 del Protocollo n° 1 non è stato violato in questo caso.

La questione principale che il caso ha sollevato è il divieto di costruire che ha colpito il terreno della società ricorrente per venticinque anni a causa sia del comportamento del Comune di Pomezia sia, e soprattutto, a causa della legge n° 10 del 1977 dello Stato italiano e della legge della Regione Lazio n° 86 del 1990 (vedere §§ 13 e 38-40 della sentenza).

Secondo la maggioranza della Corte, essendo la società ricorrente rimasta in uno stato di incertezza completa quanto alla sorte della sua proprietà in ragione del divieto di costruire in vista dell’esproprio e dovuto alla mancanza dei piani particolareggiati, il giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e il diritto al rispetto dei beni della ricorrente è stato infranto.

Non sono d’accordo.

Tutti in Italia sanno che il divieto di costruire previsto dalla legge del 1977 è stato una reazione a un comportamento dei singoli – società immobiliari o persone fisiche – che avevano ridotto la più gran parte del territorio italiano – dunque di quello che era stato definito il più bel giardino d’Europa! – a una massa di cemento. Tutti in Italia sanno che la possibilità di espropriare la totalità dei terreni colpiti dal divieto di costruire non era che puramente virtuale e non attuale e che dunque il divieto non era “in vista dell’esproprio” ma semplicemente un divieto di costruire.

Secondo il mio parere, la Corte avrebbe dovuto tenere conto di ciò nel momento in cui ha dovuto valutare gli interessi in gioco per non rischiare di decidere in astratto o, lo dico con rispetto, nel vuoto. Essa avrebbe dovuto chiedersi se una misura di divieto di costruire per i terreni che, per la loro più gran parte, erano terreni agricoli o giardini privati, e che dunque dovevano restare agricoli o giardini, non si giustificasse nell’interesse generale.

Per me sarebbe stata la soluzione giusta.

 

II

PROCEDURA

1. All’origine del caso vi è un ricorso (n° 23529/94) diretto contro la Repubblica italiana e per mezzo del quale una società cooperativa a responsabilità limitata di diritto italiano, la società Cooperativa La Laurentina (“la ricorrente”), aveva adito la Commissione europea dei Diritti dell’Uomo (“La Commissione”) il 31 maggio 1993 in forza del vecchio articolo 25 della Convenzione di salvalguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (“La Convenzione”).

2. La ricorrente è rappresentata dalla Sig.ra M. De Stefano, avvocato del Foro di Roma. Il Governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, U. Leanza, e dal suo coagente, V. Esposito.

3. La ricorrente lamentava in particolare una lesione al diritto al rispetto dei suoi beni in quanto non le era stato possibile ottenere una concessione edilizia sul suo terreno.

4. La Commissione ha dichiarato la richiesta in parte irricevibile il 6 settembre 1995 e in parte ricevibile il 15 maggio 1996.

5. Si è tenuta udienza pubblica preliminare al Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 15 gennaio 1997.

6. Non avendo potuto terminare l’esame del ricorso prima del primo novembre 1999, la Commissione lo ha deferito alla Corte a questa data, conformemente all’art. 5 § 3, secondo periodo, del Protocollo n° 11 della Convenzione.

7. Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione della Corte (art. 52 § 1 del regolamento). All’interno della stessa, il collegio incaricato di esaminare la questione (art. 27 § 1 della Convenzione) è stato costituito conformemente all’art. 26 § 1 del regolamento.

IN FATTO

1. LE CIRCOSTANZE DELLA SPECIE

8. La ricorrente è una società cooperativa a responsabilità limitata, costituita a Roma nel 1955 secondo il diritto italiano. Essa ha per oggetto sociale costruire alloggi per i suoi soci. Nel 1960, la ricorrente acquistò un terreno di circa 2000 metri quadrati, situato nella città di Roma (iscritto al catasto, foglio 852, particelle 58, 336 e 317), sul quale insisteva un piccolo immobile comprendente cinque alloggi, sempre in locazione.

9. All’epoca, il terreno della ricorrente era edificabile, conformemente al vecchio piano regolatore di Roma (legge n° 1433 del 1940).

10. Il 21 settembre 1960 e il 4 dicembre 1961, la ricorrente presentò al Comune di Roma due progetti di costruzione di un immobile elaborati conformemente al piano regolatore in vigore all’epoca e richiese la corrispondente concessione edilizia.

11. Il 21 maggio 1962, il Comune espresse parere favorevole al secondo progetto di costruzione sotto condizione sospensiva che la dimensione dell’immobile fosse ridotta.

12. Il 26 novembre 1962, la ricorrente presentò il progetto modificato secondo le indicazioni del Comune e reiterò la sua richiesta di concessione edilizia.

13. Il 17 dicembre 1963, non essendosi il Comune di Roma pronunciato sulla sua richiesta di concessione edilizia, la ricorrente inoltrò ricorso davanti al Consiglio di Stato.

14. Nel frattempo, il 18 dicembre 1962, il Comune di Roma aveva deliberato l’adozione di un nuovo piano regolatore generale. In questo nuovo piano, il terreno della ricorrente era classificato nella zona I/2, ed era dunque sempre edificabile ma nei limiti più rigorosi fissati dalle norme tecniche di esecuzione del piano regolatore generale (di seguito-PRG).

15. Con un’ordinanza del 12 maggio 1965, il Comune di Roma informò la ricorrente che ogni decisione sulla concessione edilizia era stata sospesa, costituendo questa sospensione una misura di salvaguardia ai sensi della legge n° 1902 del 1952.

16. La ricorrente inoltrò ricorso al Consiglio di Stato contro tale ordinanza, affermando che il nuovo piano regolatore generale non si applicava al suo terreno, che continuava ad essere regolato dal vecchio piano regolatore generale e dal vecchio piano particolareggiato. In via subordinata, la ricorrente sosteneva che non ci fossero i presupposti per adottare una misura di salvaguardia in quanto il progetto presentato non era incompatibile con il nuovo piano regolatore.

17. Il 16 dicembre 1965, il nuovo piano regolatore generale di Roma fu approvato con decreto del Presidente della Repubblica.

18. Il PRG di Roma classificava il terreno della ricorrente nella zona I/2, vale a dire come terreno edificabile, nei limiti fissati dalle norme tecniche di esecuzione del piano. Una concessione edilizia poteva essere ottenuta per i terreni inclusi in questa zona sotto condizione dell’approvazione di un piano di esecuzione del PRG, vale a dire o un piano particolareggiato di iniziativa pubblica, o una convenzione di lottizzazione di iniziativa privata.

La prima sentenza del Consiglio di Stato

19. Con una sentenza del 4 marzo 1996, il Consiglio di Stato si pronunciò sui due ricorsi proposti dalla ricorrente.

20. Quanto al primo ricorso, il Consiglio di Stato ritenne che non ci fosse luogo a decidere, poiché, con l’ordinanza del 12 maggio 1965, l’amministrazione aveva rotto il suo silenzio.

21. Quanto al secondo ricorso, il Consiglio di Stato precisò in primo luogo che il terreno della ricorrente ricadeva sotto la previsione del nuovo PRG, che era stato adottato in applicazione della legge urbanistica del 1942 ed aveva dunque rimpiazzato il vecchio piano regolatore conformemente al principio della successione delle leggi nel tempo. Di conseguenza il Comune aveva il potere di adottare misure di salvaguardia dopo la deliberazione del 18 dicembre 1962 in vista dell’adozione del PRG. Per altro, il Consiglio di Stato constatò un vizio di forma, perchè la misura di salvaguardia era stata adottata da un organo incompetente. Per questa ragione, e senza pronunciarsi sulla compatibilità con il PRG del progetto di costruzione presentato dalla ricorrente, esso annullò la misura di salvaguardia.

Misure successive a questa sentenza

22. Il 17 ottobre 1967, il Comune di Roma deliberò l’adozione di una variante al PRG. Questa variante classificava come zona di completamento, vale a dire come zona ampiamente edificata e già interamente urbanizzata, un’area vicina al terreno della ricorrente. In data successiva questa variante fu definitivamente approvata.

23. Il 31 gennaio 1969, la ricorrente chiese che il suo terreno fosse classificato entro questa zona di completamento. La richiesta rimase priva di seguito.

24. Il 21 dicembre 1970, la ricorrente, con i proprietari dei due terreni vicini, presentò un nuovo progetto di costruzione, da realizzarsi sui tre terreni la cui la superficie globale era di 9 000 metri quadrati, e chiese la corrispondente concessione edilizia. Il Comune non si pronunciò.

25. A fronte del silenzio dell’amministrazione, la società ricorrente e i suoi vicini adirono il tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio.

26. Il 3 aprile 1971, il sindaco di Roma negò formalmente la concessione edilizia, in quanto il progetto in questione era in contrasto con il PRG relativo alla zona I/2, zona che non era sottoposta a un progetto unitario di sistemazione urbanistica.

27. La ricorrente e i suoi vicini inoltrarono ricorso davanti al TAR contro detta decisione.

28. Poco dopo, la ricorrente e i suoi vicini depositarono una nuova richiesta di concessione edilizia per un progetto di costruzione parzialmente modificato. Il 23 novembre 1971, il sindaco di Roma negò il rilascio della concessione edilizia, per l’assenza di un piano di esecuzione del PRG, nella la forma di un piano particolareggiato o di una convenzione di lottizzazione.

29. La ricorrente e i suoi vicini presentarono ricorso contro detta decisione davanti al TAR.

30. Con sentenza del 26 marzo 1975, il TAR pronunciò l’improcedibilità del primo ricorso, avendo l’amministrazione rotto il suo silenzio con la decisione di diniego che essa aveva reso il 3 aprile e il 23 novembre 1971; gli altri due ricorsi furono respinti.

31. La ricorrente, e i suoi vicini, interposero appello contro detta sentenza davanti al Consiglio di Stato, affermando in particolare che il nuovo PRG non aveva abrogato il vecchio piano particolareggiato, che continuava a disciplinare il loro terreno; di conseguenza, la condizione posta dal nuovo PRG, cioè l’esistenza di un piano particolareggiato per ottenere una concessione edilizia, era soddisfatta. In via subordinata, la ricorrente sosteneva che essendo il suo terreno interamente urbanizzato e circondato da terreni urbanizzati ed edificati, avrebbe dovuto essere automaticamente considerato come edificabile, indipendentemente dalle condizioni poste dal PRG; aggiungeva che, in ogni caso, il Comune non avrebbe mai adottato un progetto unitario di sistemazione urbanistica.

La seconda sentenza del Consiglio di Stato

32. Con sentenza del 14 marzo 1980, il Consiglio di Stato rigettò il ricorso della ricorrente.

33. Esso sancì in tale decisione che il terreno oggetto della lite era assoggettato al nuovo piano regolatore generale di Roma, poichè tale piano era stato adottato dal Comune di Roma in forza dei poteri che gli erano conferiti dalla legge urbanistica del 1942. Di conseguenza, conformemente al principio della successione delle leggi, i piani regolatori anteriori erano divenuti inoperanti.

34. Ora, il PRG in vigore prevedeva che il rilascio della concessione edilizia nella zona interessata fosse condizionato dalla operatività di un piano di completamento per l’esecuzione del PRG, sotto la forma o di un piano particolareggiato o di una convenzione di lottizzazione (vedere § 46). Il terreno della ricorrente era dunque sottoposto ad un divieto condizionato di costruire.

35. È vero che a questa situazione, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, facevano eccezione i terreni che de facto erano automaticamente edificabili, come nel caso, per esempio, di una piccola particella circondata di edifici. In questo caso, non sarebbe stato necessario avere un piano di esecuzione del PRG per ottenere una concessione edilizia, indipendentemente dalla condizione posta dal PRG (vedere § 47).

36. Ciononostante, l’istruttoria svolta nel corso del procedimento aveva dimostrato che l’urbanizzazione della zona I/2 non era interamente compiuta. Di conseguenza, il terreno della ricorrente non poteva essere considerato come de facto automaticamente edificabile e dunque suscettibile di ottenere una concessione edilizia. Il Consiglio di Stato osservò che, d’altra parte, la ricorrente ne era essa stessa a conoscenza, avuto riguardo alla sua istanza del 1969, che era stata rigettata, tendente ad ottenere l’inclusione del suo terreno nella “zona di completamento” del PRG, interamente urbanizzata, per la quale concessioni edilizie erano di conseguenza state rilasciate malgrado l’assenza di un piano di esecuzione del PRG.

37. In conclusione, il rilascio della concessione edilizia sul terreno oggetto di lite era correttamente sottoposto alle condizioni imposte dal PRG. Pertanto, nell’assenza di un piano di esecuzione del PRG, legittimamente il Comune aveva respinto le istanze della ricorrente.

Misure ulteriori riguardanti il terreno della ricorrente

38.Nel frattempo, con deliberazione del 26 ottobre 1972, il Comune di Roma aveva deciso di espropriare il terreno della ricorrente. Tuttavia, tale deliberazione divenne inefficace, in difetto di approvazione da parte delle autorità competenti.

39.L’8 agosto 1974, il Comune di Roma aveva adottato una variante al PRG, secondo la quale il terreno della ricorrente rimaneva edificabile; tuttavia, non era più possibile costruire delle residenze; potevano essere costruiti soltanto degli edifici destinati al settore terziario (uffici, hotels). La ricorrente non inoltrò alcun ricorso per contestare questa variante del PRG, che fu definitivamente approvata nel 1979.

40. All’udienza del 15 gennaio 1997, la ricorrente ha indicato che, con deliberazione del 12 dicembre 1996, il Comune di Roma aveva deciso una nuova destinazione del proprio terreno, cioè la creazione di spazi verdi, in vista del suo esproprio. Questa deliberazione sarebbe stata trasmessa il 27 dicembre 1996 al Comitato Regionale di controllo (Coreco) per l’approvazione.

41. Nel novembre 2000, la ricorrente ha fatto sapere che la situazione del suo terreno restava immutata dall’udienza.

II. NORMATIVA E PRASSI INTERNA PERTINENTI

42.Ai sensi dell’art. 42 §§ 2 e 3 della Costituzione italiana, la proprietà privata è garantita e riconosciuta dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e di godimento, così come i limiti, al fine di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere espropriata, nei casi previsti dalla legge, salvo indennizzo, per ragioni di interesse generale.

La legge urbanistica (legge n° 1150 del 1942 e successive modificazioni) disciplina lo sviluppo urbanistico del territorio e conferisce ai Comuni il potere di adottare piani regolatori che devono concernere il territorio comunale nella sua integrità.

Il piano regolatore generale

43.Il piano regolatore generale (di seguito il PRG) è un atto a durata indeterminata. Il procedimento di adozione di un PRG inizia con una deliberazione del Comune (delibera di adozione), a seguito della quale si apre un periodo di salvaguardia, durante il quale ogni decisione sulle istanze di concessione che possano confliggere con la realizzazione del PRG resta sospesa (legge n° 1902 del 1952 e art. 10 della legge n° 765 del 1967). L’approvazione del PRG rientra attualmente nella competenza delle regioni (art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica (DPR) n° 8 del 1972 e artt. 79 e 80 del DPR n° 616 del 1977), mentre prima avveniva per decreto del presidente della Repubblica. Una volta approvato, il PRG è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e depositato in municipio.

44.Ove disciplini in modo preciso il territorio, il PRG può essere eseguito de plano. Tuttavia, molto frequentemente, il PRG necessita per la sua applicazione di un atto di completamento. Quest’ultimo può dipendere dall’iniziativa pubblica, come nel caso in particolare di un piano particolareggiato; o dall’iniziativa dei privati, come nel caso della convenzione di lottizzazione.

Il piano particolareggiato

45. Il piano particolareggiato ha una durata indeterminata. Infatti, una volta adottato, esso equivale a una dichiarazione di pubblica utilità e l’amministrazione dispone di un termine massimo (non superiore a dieci anni, ai sensi dell’art. 16 della legge urbanistica) per procedere agli espropri e, in ogni caso, all’esecuzione a pena di decadenza del piano. Quando il PRG abbisogni di un piano particolareggiato per la sua applicazione, compete al Comune adottarne uno. Tuttavia, nessun termine di rigore è previsto per l’adozione di un piano particolareggiato. L’inerzia dell’amministrazione può essere contestata da chi ne abbia interesse davanti al giudice amministrativo. Quest’ultimo può, se del caso, ordinare al Comune di adottare un piano particolareggiato e, all’occorrenza, nominare un commissario ad acta.

La concessione edilizia condizionata: prima ipotesi

46. Secondo la giurisprudenza, nel caso in cui il PRG possa essere eseguito unicamente in presenza di un piano particolareggiato, la cui adozione dipende unicamente dall’iniziativa pubblica, l’inerzia dell’amministrazione ha in quel caso, sulla situazione dei proprietari dei terreni edificabili, lo stesso effetto di un divieto assoluto di costruire. Ove l’amministrazione ritardi nell’adottare un piano particolareggiato, la giurisprudenza ha ritenuto che la possibilità di ottenere una concessione edilizia sotto condizione che sia stato adottato un piano particolareggiato equivale a un divieto assoluto di costruire, suscettibile di ledere la sostanza del diritto di proprietà. In seguito a ciò, a queste situazioni si applicano le disposizioni e la giurisprudenza in materia di divieto assoluto di costruire, e in particolare l’art. 2 della legge n° 1187 del 1968, ai sensi del quale le limitazioni di questo tipo discendenti dal PRG divengono inefficaci dopo cinque anni quando il piano particolareggiato non sia adottato (vedere, per esempio, le sentenze del Consiglio di Stato n° 1058 del 22 ottobre 1992, Tovaglieri c. Comune di Gallarate; n° 1225 del 30 ottobre 1997, sez. V; n° 220 del 7 aprile 1989, sez. IV).

La concessione edilizia condizionata: seconda ipotesi

47. Quando, come nel caso di specie, il PRG può essere eseguito con adozione sia di un piano urbanistico di iniziativa pubblica o di una convenzione di lottizzazione, secondo la giurisprudenza il diritto di costruire non è leso nella sostanza: infatti, la scelta offerta tra due soluzioni permette ai singoli di attivarsi in vista di concludere una convenzione di lottizzazione e di colmare così un’eventuale inerzia e i ritardi dell’amministrazione nell’adozione di un piano particolarggiato (vedere, per esempio, le sentenze del Consiglio di Stato n° 1090 del 3 ottobre 1994, sez. V; n° 945 del 30 giugno 1995, sez. V; n° 414 dell’8 luglio 1987, sez. IV). Di conseguenza, le limitazioni al diritto di costruire che discendono dall’alternativa posta dal PRG non sono sottoposte a durata limitata, ai sensi della legge n° 1187 del 1968.

La concessione edilizia condizionata: terza ipotesi

48. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche quando il rilascio di una concessione edilizia è condizionato, esistono terreni che sono immediatamente suscettibili di ottenere una concessione edilizia: si tratta dei terreni situati in zone ampiamente edificate e già interamente urbanizzate (vedere la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 6 ottobre 1991; la sentenza n° 1273 del 18 agosto 1998, sez. V, n° 12 e le sentenze n° 1133 del 1973 e n° 801 del 1976). Di conseguenza, in questo caso, anche nell’assenza di un piano di completamento del PRG, l’amministrazione è tenuta a rilasciare la concessione edilizia.

La convenzione di lottizzazione

49. Quando il PRG prevede che una concessione edilizia può essere rilasciata se vi è una convenzione di lottizzazione tra l’amministrazione interessata e i privati interessati, ai sensi dell’art. 28 della legge urbanistica e della legge n° 765 del 1967, questi ultimi hanno la possibilità di negoziare con il Comune al fine di dare luogo ad un accordo che permetta loro di definire il progetto di costruzione da realizzarsi e di ottenere la corrispondente concessione edilizia. I costi dei lavori di urbanizzazione sono, almeno parzialmente, a carico degli interessati.

IN DIRITTO

1. SULLA CONTESTATA VIOLAZIONE DELL’ART. 1 DEL PROTOCOLLO N° 1

50.La ricorrente lamenta che il Comune di Roma ha omesso di adottare un piano di esecuzione del piano regolatore generale. A suo parere, l’inerzia dell’amministrazione per più di trentacinque anni la ha privata della possibilità di ottenere una concessione edilizia e ha leso il suo diritto di disporre del suo terreno. La ricorrente vede nel comportamento delle autorità una violazione dell’art. 1 del Protocollo n° 1, così formulato.

“Ogni persona fisica o morale ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà che per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non recano pregiudizio del diritto degli Stati di emanare le leggi che reputino necessarie per disciplinare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o degli altri contributi o delle sanzioni”.

A. Sull’eccezione preliminare del Governo relativa al non-esaurimento delle vie interne di ricorso

51. In seguito alla decisione sulla ricevibilità del ricorso, il Governo ha sollevato un’eccezione di non-esaurimento dei mezzi interni di ricorso e ha chiesto il rigetto del ricorso, ai sensi del vecchio art. 29 della Convenzione. Nel caso in cui tale eccezione venga rigettata, il Governo chiede in subordine che l’inerzia di parte ricorrente sia tenuta in considerazione in sede di valutazione del merito della questione.

52. L’eccezione del Governo si fonda sopra due argomenti. In primo luogo, esso sostiene che la ricorrente non ha mai richiesto all’amministrazione di adottare il piano particolareggiato. In seguito a tale istanza, a fronte del rifiuto dell’amministrazione, la ricorrente avrebbe potuto inoltrare ricorso davanti al giudice amministrativo; nel caso in cui il giudice adito avesse giudicato illegittimo il silenzio dell’amministrazione, la ricorrente avrebbe potuto fare eseguire la sentenza amministrativa con il mezzo del commissario ad acta.

53. In secondo luogo, il Governo fa osservare che in nessun momento la ricorrente si è adoperata per ottenere una convenzione di lottizzazione con il Comune di Roma.

54. La ricorrente si oppone agli argomenti del Governo. Essa fa notare, in primo luogo, che l’eccezione è inammissibile, essendo chiaro che non è stata sollevata contro la decisione di ricevibilità.

55. La ricorrente ammette in seguito di non avere mai espressamente chiesto alle autorità amministrative di adottare un piano particolareggiato e di non avere impugnato l’inerzia dell’amministrazione davanti al giudice amministrativo. Tuttavia, essa osserva che il Governo non dimostra l’efficacia del ricorso che a suo dire consentirebbe di rimediare all’inerzia dell’amministrazione. Inoltre, nessun precedente giurisprudenziale contemplerebbe il caso di un commissario ad acta che abbia adottato un piano particolareggiato. Infine, la ricorrente sostiene che un’istanza di concessione edilizia include implicitamente una richiesta di adozione di un piano particolareggiato.

56. La ricorrente riconosce poi di non essersi adoperata in vista della conclusione di una convenzione di lottizzazione. Tuttavia, le possibilità di successo sarebbero state minime in quanto la superficie del suo terreno non è abbastanza importante per avviare negoziati e ci sarebbe stato bisogno di ricercare altri soggetti interessati.

57. La Corte rileva che la tesi del Governo è così strettamente connessa alla sostanza delle doglianze dei ricorrenti sul terreno dell’art. 1 del Protocollo n° 1 che occorre riunire l’eccezione al merito (vedere, per esempio, la sentenza Kremzow c. Austria del 21 settembre 1993, serie A n° 268-B, p. 41, § 42; Athanassaloglou e altri c. Svizzera [GC], n° 27644/65, CEDH 2000-IV).

B. Sull’osservanza dell’art. 1 del Protocollo n° 1

C. 1. Sull’esistenza di un’ingerenza nel diritto di proprietà della ricorrente

58. La Corte rileva che le parti concordano nel dire che c’è stata un’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni della ricorrente.

59. Resta da esaminare se tale ingerenza ha violato o meno l’art. 1 del Protocollo n° 1.

2. Sulla giustificazione dell’ingerenza nel diritto di proprietà della ricorrente

a)       la regola applicabile

60. La Corte ricorda che l’art. 1 del Protocollo n° 1 contiene tre norme distinte: “La prima, che si esprime nel primo periodo del primo comma e riveste carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, collocata nel secondo periodo dello stesso comma, vieta la privazione della proprietà e la sottopone a certe condizioni; quanto alla terza, posta nel secondo comma, riconosce agli Stati il potere, tra gli altri, di disciplinare l’uso dei beni in conformità dell’interesse generale (…). Non si tratta pertanto di regole prive di raccordo tra loro. La seconda e la terza riguardano esempi particolari di lesioni al diritto di proprietà; pertanto, esse debbono interpretarsi alla luce del principio consacrato nella prima” (vedere, tra le altre, la sentenza James e altri c. Regno Unito del 21 febbraio 1986, serie A n° 98-B, pp. 29-30, § 37, la quale riprende in parte i termini dell’analisi che la Corte ha sviluppato nella sentenza Sporrong e Lonnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, serie A n° 52, p. 24, § 61; vedere anche le sentenze Santi monasteri c. Grecia del 9 dicembre 1994, serie A n° 301-A, p. 31, § 56, e Iatridis c. Grecia [GC], n° 31107/96, § 55, CEDH 1999-II).

61. La ricorrente non contesta la legittimità intrinseca del piano regolatore generale e nemmeno della destinazione del terreno ma si duole del comportamento generale delle autorità: essa rimprovera all’amministrazione di non avere mai adottato un piano d’esecuzione del PRG e lamenta le conseguenze di tale inerzia, che, a suo dire, ha portato ad un esproprio de facto del suo terreno.

62. Il Governo sostiene che la situazione di lite dipende dalla disciplina dell’uso dei beni.

63. La Corte nota che la possibilità per la ricorrente di ottenere una concessione edilizia era sottoposta alle condizioni poste dal piano regolatore generale e dipendeva dalla realizzazione delle stesse.

64. Ora, tali misure non hanno cagionato una privazione della proprietà, ai sensi del secondo periodo del primo comma dell’art. 1 poiché il diritto di proprietà della ricorrente è rimasto giuridicamente inalterato. I provvedimenti oggetto della lite non attengono alla disciplina dell’uso dei beni, in quanto essa non perseguiva tale fine. La Corte ritiene pertanto che la situazione contestata dalla ricorrente rientri nel primo periodo del primo comma dell’art. 1 del Protocollo n° 1 (sentenza Phocas c. Francia del 23 aprile 1996, Raccolta 1996-II, p. 542, § 52).

b)       Il rispetto della norma enunciata al primo periodo del primo comma

65. Ai fini del primo periodo del primo comma, La Corte deve indagare se sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (sentenza Sporrong e Lonnroth precitata, p. 26, § 69; sentenza Phocas precitata, p. 542, § 53; sentenza Katte Klitsche de la Grange c. Italia del 27 ottobre 1994, serie A n° 293, p. 35, § 42).

i. Tesi difesa dalla ricorrente

66. Per la ricorrente, il fatto che il Comune di Roma non avesse adottato alcun piano di esecuzione del PRG è illegittimo e privo di giustificazione. Secondo lei, al di là delle ragioni ufficiali, cioè l’obbligo del Comune di trovare i fondi necessari per procedere ai lavori di urbanizzazione che vanno di pari passo con l’adozione di un piano particolareggiato, l’inerzia dell’amministrazione dipende da altre cause, tra cui i contrasti fra i partiti politici.

67. Secondo la ricorrente, l’inerzia dell’amministrazione ha avuto per effetto in primo luogo di privarla della possibilità di ottenere una concessione edilizia; essa ritiene che il suo diritto di costruire è stato di tal guisa azzerato. Secondo la ricorrente questa situazione è assimilabile a un esproprio di fatto, come quello che interviene quando un terreno è sottoposto a un divieto formale e assoluto di costruire.

68. La ricorrente fa osservare che non disponeva di alcun rimedio avverso l’inerzia dell’amministrazione: da una parte, essa non poteva contare su un ricorso efficace per ottenere l’adozione di un piano particolareggiato (vedere §§ 51 e 54).

69. D’altra parte, ammesso che il PRG di Roma le offrisse la possibilità di ottenere una convenzione di lottizzazione, la ricorrente sostiene che le possibilità di concludere una tale convenzione con l’amministrazione locale erano minime, tenuto conto delle dimensioni ridotte del suo terreno e della necessità di ricercare molti altri soggetti interessati. A questo riguardo, la ricorrente ritiene che i 2 000 metri quadrati del suo terreno combinati con i 7 000 metri quadrati dei suoi due vicini non erano de facto sufficienti per proporre una convenzione di lottizzazione e che, pertanto, avrebbe avuto bisogno di ricercare altri soggetti.

70. In ogni caso, la ricorrente osserva che una convenzione di lottizzazione avrebbe comportato costi rilevanti a suo carico.

71. La ricorrente fa osservare che il difetto di piano particolareggiato, privandola della possibilità di ottenere una concessione edilizia, le ha impedito allo stesso tempo di realizzare la sua funzione sociale, cioè di costruire degli alloggi per i suoi soci, e questo almeno fino al 1974.

72. La ricorrente ammette che dal 1974 l’impossibilità di conseguire il suo oggetto sociale deriva dalla modifica delle previsioni del piano regolatore generale. Infatti, in seguito alla variante del PRG dell’8 agosto 1974, il terreno di cui è proprietaria non poteva più essere utilizzato per costruire degli alloggi, essendo autorizzata soltanto la costruzione di edifici ad uso commerciale (uffici, hotels).

73. Malgrado ciò, la ricorrente precisa di non avere inoltrato ricorso per contestare la variante del PRG in quanto quest’ultima aveva l’effetto di aumentare sensibilmente il valore del terreno. L’interessata ritiene che il valore del suo terreno fosse infatti raddoppiato.

74. La ricorrente fa osservare che non avrebbe potuto fare altro uso del suo terreno, dato che il suo statuto di cooperativa le impedisce di esercitare attività con scopo di lucro.

75. Ora, a partire dal momento in cui il terreno in oggetto non poteva più soddisfare gli obiettivi della ricorrente e il valore dello stesso era aumentato, essa avrebbe valutato di vendere il terreno. Essa fa osservare che il suo statuto di società cooperativa le permetteva di porre in vendita il terreno; essa avrebbe potuto reinvestire la somma ottenuta dalla vendita acquistando un altro terreno compatibile con il suo oggetto sociale.

76. Tuttavia, secondo la ricorrente, il fatto che Comune di Roma non avesse adottato un piano particolareggiato ha avuto delle conseguenze gravi per la sua proprietà, anche dopo il 1974 e, in primo luogo, ha fatto del terreno in questione un bene fuori commercio.

77.  A questo riguardo, la ricorrente fa osservare che l’adozione di un piano particolareggiato da parte dell’amministrazione avrebbe agevolato la vendita, in quanto l’acquirente avrebbe potuto ottenere una concessione edilizia.

78. La ricorrente ammette di non essere in grado di provare di avere fatto dei tentativi per vendere il terreno. Ciononostante, secondo lei, l’impossibilità di trovare un acquirente può essere presunta, avuto riguardo al fatto che essa non ha mai ricevuto offerte d’acquisto, in particolare dai suoi due vicini.

79. La ricorrente fa infine osservare che a causa dell’inerzia dell’amministrazione essa si è trovata in una situazione di incertezza quanto alla destinazione del terreno e alle possibilità di farne uso. Nè nel dicembre 1996, quando il Comune di Roma ha deciso, in vista di espropriare il terreno oggetto di lite, di destinarlo alla creazione di spazi verdi, questa incertezza è terminata. La ricorrente ritiene che dopo l’esproprio essa potrà acquistare un altro terreno compatibile con il suo oggetto sociale, anche nel caso in cui l’indennità di esproprio sia nettamente inferiore al valore venale del terreno.

80. In conclusione, la ricorrente chiede alla Corte di accertare la violazione dell’art. 1 del Protocollo n° 1.

ii. Tesi difesa dal Governo

81. Il Governo sostiene che la situazione contestata dalla ricorrente è compatibile con l’art. 1 del Protocollo n° 1.

82. In primo luogo, il Governo osserva che il diritto di costruire della ricorrente era subordinato alle condizioni poste dal piano regolatore generale di Roma del 1965. Di conseguenza, una concessione edilizia avrebbe potuto essere ottenuta in due distinti modi: in seguito all’adozione di un piano particolareggiato da parte del Comune di Roma o della conclusione di una convenzione di lottizzazione, su iniziativa della ricorrente. Questo è stato confermato dal Consiglio di Stato, che ha precisato che il diniego al rilascio di concessione edilizia era giustificato mancando un qualsiasi piano di completamento del PRG.

83. Trattandosi della prima condizione posta per ottenere una concessione edilizia, il Governo fa osservare che il fatto che il Comune di Roma non avesse adottato un piano particolareggiato non è contrario alla legge e si giustifica nell’interesse della collettività: rientra nel margine di discrezionalità delle autorità locali decidere se e quando un piano particolareggiato debba essere adottato, tenuto conto del fatto che l’adozione di un tale piano, che diviene inefficace ove non sia eseguito entro un certo periodo, presuppone la disponibilità delle risorse necessarie per realizzarlo. Ciò significa che se il Comune adotta un certo tipo di piano, esso deve avere i fondi necessari per effettuare in particolare i lavori di urbanizzazione (costruzione di fogne, rete di distribuzione dell’acqua) dei terreni classificati come edificabili o per pagare le indennità di esproprio per i terreni che sono sottoposti al permesso di esproprio. Ora, in una grande città come Roma, la cui popolazione è fortemente aumentata dall’entrata in vigore del piano regolatore generale, l’amministrazione deve procedere ad una attenta valutazione dei bisogni della collettività, fare delle scelte e agire secondo le priorità definite in materia di gestione del territorio.

84. Il Governo fa poi osservare che la ricorrente si è limitata a richiedere la concessione edilizia. In queste condizioni, gli addebita di essere rimasto inerte.

85. Secondo il Governo, da una parte, la ricorrente non ha sollecitato l’adozione di un piano particolareggiato, ciò che le avrebbe permesso di impugnare un eventuale diniego dell’amministrazione davanti al giudice amministrativo, di ottenere da questo una decisione che permettesse di chiarire i motivi per i quali si era avuta inerzia e, in caso di accertamento dell’illegittimità, di ottenere che fosse nominato un commissario ad acta. Tuttavia, il Governo ammette di non essere in grado di fornire esempi nei quali commissari ad acta avessero proceduto all’elaborazione di un piano particolareggiato.

86. D’altra parte, il Governo fa osservare che la ricorrente aveva la possibilità di rimediare ai ritardi del Comune nella adozione del piano particolareggiato e che non ha utilizzato tale possibilità. Infatti, conformemente al piano regolatore generale, la ricorrente avrebbe potuto concludere con l’amministrazione una convenzione di lottizzazione. Quest’ultima dipende dall’iniziativa privata, dalla capacità degli interessati di organizzarsi e di trovare un accordo tra loro e di presentare al Comune un progetto ragionevole. Il vantaggio per l’amministrazione nel caso di una convenzione di lottizzazione è che le spese di urbanizzazione sono essenzialmente poste a carico del privato interessato.

87. Il Governo ammette che un terreno di 2 000 metri quadrati, come quello della ricorrente, anche ove ad esso si aggiungano i 7 000 metri quadrati dei due terreni vicini, non è probabilmente abbastanza grande per una convenzione di lottizzazione e che, di conseguenza, la ricorrente avrebbe dovuto cercare altri alleati. Il Governo riconosce anche che, nel caso di una convenzione di lottizzazione, le spese di urbanizzazione sono essenzialmente poste a carico del privato interessato. Tuttavia, ques’ultimo ha numerosi vantaggi, nella misura in cui dispone di un margine di negoziazione con l’amministrazione e può realizzare rapidamente il suo progetto. Del resto, a Roma sono state concluse numerose convenzioni di lottizzazione.

88. Ora, il Governo fa osservare che la ricorrente non ha mai avviato le pratiche necessarie in vista della conclusione di una convenzione di lottizzazione. Secondo il Governo, questo prova che il terreno della ricorrente non è rimasto indisponibile per trentacinque anni ma che aveva la possibilità di intervenire nell’elaborazione del piano di completamento del PRG.

89. Il Governo fa successivamente osservare che a partire dal 1974, conformemente alla variante del PRG, il terreno della ricorrente non poteva più essere utilizzato per costruirvi degli alloggi e non corrispondeva dunque più al suo oggetto sociale. Inoltre, lo statuto della ricorrente non le permetteva altro che di costruire degli alloggi per i suoi soci. Di conseguenza, il Governo non vede in che cosa l’assenza di un piano particolareggiato avrebbe avuto delle ripercussioni sul terreno della ricorrente.

90. Il Governo sottolinea che la ricorrente non ha impugnato la variante del 1974, anche se in forza di tale variante essa non avrebbe più avuto la possibilità di costruire sul suo terreno.

91. Il Governo fa poi osservare che la ricorrente non ha nemmeno mai tentato di vendere il suo terreno, anche se il suo statuto dava tale possibilità.

92. In sintesi, il Governo chiede alla Corte di accertare che non c’è stata frattura dell’equilibrio fra gli interessi della collettività e quelli della ricorrente.

iii. Valutazioni della Corte

93. La Corte rileva che il terreno della ricorrente è stato classificato nel 1965, dal piano regolatore generale di Roma, come terreno edificabile e che il rilascio di una concessione edilizia era sottoposto a certe condizioni. Ora, la ricorrente lamenta che una di queste condizioni, cioè l’adozione da parte del Comune di un piano di esecuzione del piano regolatore generale, non è mai stata realizzata.

94. La Corte reputa naturale che in una materia così complessa e difficile come la gestione delle grandi città, gli Stati contraenti beneficino di un ampio margine di discrezionalità per orientare le loro politiche urbanistiche (sentenza Sporrong precitata, p. 26, § 69). Essa tiene per fermo che l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni della ricorrente rispondeva alle esigenze dell’interesse generale.

95. Compete alla Corte verificare che l’equilibrio voluto sia stato preservato in maniera compatibile con il diritto della ricorrente al rispetto dei suoi beni, ai sensi del primo periodo dell’art. 1.

96. La Corte rileva che la ricorrente pretende di avere sofferto, per più di trentacinque anni, restrizioni sproporzionate al godimento del suo diritto di proprietà, restrizioni che, secondo lei, avrebbero tutte una sola causa: il fatto che il Comune di Roma ha mancato di adottare un piano particolareggiato.

97. La Corte constata che, in un primo periodo decorrente fino al 1974, il terreno della ricorrente corrispondeva perfettamente all’oggetto sociale della stessa, in quanto era suscettibile di essere utilizzato per ivi costruire alloggi per i suoi soci.

98. La Corte rileva che il piano regolatore generale del 1965 non ha leso nella sostanza il diritto di costruire della ricorrente: non si è avuto divieto assoluto e formale di costruire; non si è avuta nemmeno una situazione assimilabile a un divieto assoluto di costruire, poichè la possibilità di ottenere detta concessione non dipendeva unicamente dall’adozione di un piano di esecuzione del PRG su iniziativa pubblica (vedere § 45).

99. Il diritto di costruire della ricorrente era sottoposto a una condizione: l’adozione di un piano particolareggiato di iniziativa pubblica o di una convenzione di lottizzazione di iniziativa privata (vedere § 46).

100.  Nel maggio 1965, dopo la deliberazione del Comune di Roma in vista dell’adozione del piano regolatore generale, la ricorrente si era opposta ad un differimento della decisione sull’istanza di concessione edilizia.

101.  La Corte rileva che, dopo la sentenza del Consiglio di Stato del 4 marzo 1996, la ricorrente aveva la certezza che il suo terreno rientrasse nel piano regolatore generale entrato in vigore nel frattempo. Essa ritiene che l’interessato avrebbe potuto egualmente dedurre che, senza la realizzazione delle condizioni fissate dal piano regolatore generale, le era impossibile ottenere una concessione edilizia. In queste condizioni, la Corte ritiene che non ci fosse alcuna incertezza quanto alla natura del terreno e alle possibilità di utilizzarlo.

102.  Nel 1970 e nel 1971, la ricorrente ha presentato due nuove istanze di concessione edilizia e si è opposta a due decisioni di diniego, dato che non erano stati adottati né un piano particolareggiato di iniziativa pubblica, né una convenzione di lottizzazione di iniziativa privata.

103.  Ora, come rilevato dal Consiglio di Stato nella sentenza del 1980, le decisioni di diniego dell’amministrazione erano legittime, in quanto il diritto di costruire della società ricorrente era condizionato dall’esistenza di un piano di completamento del PRG, cioè di un piano particolareggiato o di una convenzione di lottizzazione, e nessuna di queste condizioni si era realizzata.

104.  In queste circostanze, la Corte ritiene che innegabilmente, l’assenza di un piano particolareggiato ha indotto l’amministrazione a respingere le istanze di concessione edilizia presentate dalla ricorrente. Quindi, compete alla Corte di valutare l’impatto che l’inerzia dell’amministrazione ha avuto sulla situazione della ricorrente. Per fare questo, la Corte deve stabilire se questa ha avuto la possibilità di contrastare l’inerzia dell’amministrazione.

105.  A questo riguardo, la Corte constata in primo luogo che la ricorrente non ha fatto uso del ricorso invocato dal Governo, in quanto essa non ha impugnato l’inerzia dell’amministrazione davanti al giudice amministrativo. Tuttavia, la Corte ritiene che il Governo non ha provato l’efficacia di tale ricorso e che, pertanto, non si sarebbe potuto rimproverare alla ricorrente di non essersi avvalsa dello stesso.

106.  La Corte rileva poi che la ricorrente disponeva di un’altra possibilità che le era offerta dal piano regolatore generale: la conclusione di convenzioni di lottizzazione. Certo, sarebbe stato necessario che la ricorrente ricercasse dei soggetti interessati, negoziasse un accordo con il Comune e sostenesse la maggior parte delle spese di urbanizzazione. Purtuttavia, la Corte ritiene che nulla nel fascicolo porti a credere che la ricorrente non avesse alcuna possibilità di concludere una convenzione di lottizzazione e ritiene che tale possibilità era sufficiente per assicurare la tutela del diritto al rispetto dei beni. In ogni caso, risulta dal fascicolo che in nessun momento la ricorrente si è adoperata in questo senso e abbia compiuto passi per addivenire ad una convenzione di lottizzazione.

107.  Risulta così che, anche se l’amministrazione ha tardato nella adozione di un piano particolareggiato, l’insuccesso delle istanze di concessione edilizia è in egual modo imputabile al comportamento della società ricorrente, che non si è avvalsa della possibilità che le era offerta dal piano regolatore generale.

108.  In un secondo periodo, dopo il 1974, il terreno della ricorrente non corrispondeva più al suo oggetto sociale, in quanto esso non poteva più essere utilizzato per costruirvi degli alloggi. Ciononostante, la Corte è dell’avviso che le prerogative essenziali di proprietario dell’interessata sono state preservate per i seguenti motivi.

109.  La Corte rileva che la ricorrente, essendo cosciente che il terreno in oggetto non poteva più soddisfare le esigenze dei suoi soci, era ugualmente cosciente che il valore dello stesso terreno era sensibilmente aumentato.

110.  Anche se la ricorrente, in ragione del suo statuto di società cooperativa, non ne ha potuto fare altro uso, a scopo lucrativo, essa ha potuto continuare a percepire i canoni relativi all’immobile situato sul suo terreno.

111.  Soprattutto, essa poteva vendere il terreno.

112.  La Corte non aderisce alla tesi della ricorrente secondo la quale l’assenza di un piano particolareggiato avrebbe fatto del terreno un bene fuori commercio. Essa ritiene che il fatto che i due vicini della ricorrente non le hanno fatto offerte di acquisto non potrebbe costituire una tale prova. La Corte è dell’avviso che sarebbe stato sufficiente ricercare un acquirente interessato alla costruzione di un edificio della categoria autorizzata, in quanto quest’ultimo avrebbe potuto tentare di concludere una convenzione di lottizzazione con il Comune. Comunque sia, la ricorrente non ha dimostrato di avere mai fatto tentativi per vendere il terreno.

113.  È vero che nel dicembre 1996 il Comune ha deciso di destinare il terreno della ricorrente alla creazione di spazi vedi in vista del successivo esproprio. Tuttavia, supponendo che questa delibera comunale sia stata in seguito approvata dalla regione, la Corte ritiene che questa nuova situazione – in particolare la perdita di valore che ne sarebbe seguita e le eventuali difficoltà per vendere un terreno minacciato di esproprio – non avrebbe potuto spiegare un effetto retroattivo e non ha alcuna incidenza sul ragionamento innanzi esposto.

114.  In queste circostanze, la Corte ritiene che il comportamento delle autorità nazionali non ha reso, per un periodo molto lungo, il diritto di proprietà della ricorrente instabile ed aleatorio a un punto tale che si possa dire che ci sia stata frattura del giusto equilibrio di gestione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato.

115.  Quindi, non c’è stata violazione dell’art. 1 del Protocollo n° 1.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ

1. Riunisce al merito l’eccezione preliminare del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie interne di ricorso e decide il non luogo a procedere su detta eccezione;

2. Dichiara che non c’è stata violazione dell’art. 1 del Protocollo n° 1.

Scritto in francese, poi comunicato per iscritto il 2 agosto 2001 in applicazione dell’art. 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Erik Fribergh Andràs baka

Estensore Presidente

Copertina Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico