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Giurisprudenza
n. 7/8-2001 - © copyright.

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - Sentenza 26 luglio 2001 n. 4134 - Pres. de Roberto, Est. Cafini - De Rosa e c.ti (Avv. L. di Raimondo) e Della Rosa (Avv. A. Contieri) c. Università degli Studi di Napoli Federico II (Avv. Stato Sclafani e Avv. L. Napoletano) - (annulla in parte T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, sent. 9 dicembre 1998 nn. 3726, 3755, 3756, 3719, 3757, 3720, 3748 e 3720).

Pubblico impiego - In genere - Rapporti costituiti con la P.A. in violazione di divieti previsti dalla legge - Sono da considerare come rapporti di mero fatto - Effetti derivanti da tali rapporti - Individuazione.

Pubblico impiego - In genere - Rapporti costituiti con la P.A. in violazione di divieti previsti dalla legge - Prestazioni assicurative e previdenziali - Sono in genere dovute ex art. 2126 cod. civ. - Esclusione nei soli casi in cui la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto e della causa.

Pubblico impiego - Dipendenti Università - Medici "gettonati" in servizio presso Policlinici universitari - Prestazioni assicurative e previdenziali - Sono dovute.

I rapporti di lavoro instaurati con la P.A. in contrasto con le disposizioni che li disciplinano, ove sia espressamente prevista dalla legislazione la sanzione di nullità del rapporti stessi, nascono e vivono come rapporti di mero fatto, rispetto ai quali gli indici rilevatori del pubblico impiego assumono solo funzione di astratta qualificazione al fine della determinazione della giurisdizione e della disciplina economica e previdenziale cui debbono essere sottoposte le prestazioni lavorative.

Al dipendente assunto dalla P.A. in violazione di un espresso divieto di legge, spettano di regola, ai sensi dell'art. 2126 c.c., le prestazioni retributivo-previdenziali (1). La sola ipotesi in cui va esclusa la tutela di cui all'art. 2126 c.c. è quella prevista dalla norma stessa nell'inciso "salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto e della causa", ipotesi questa non verificabile nel caso di violazione di norme di mera ristretta legalità, ma soltanto nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari dell'ordinamento (2).

La nullità dell'atto costitutivo del rapporto di pubblico impiego dei c.d. medici "gettonati" che hanno prestato servizio presso i Policlinici universitari - nullità questa derivante dagli artt. 18 della legge 25.10.1977 n. 808 e unico del D.L. 23.12.1978 n. 817, convertito con mod. dalla legge 19.2.1979 n. 54 - comporta che i provvedimenti relativi alla costituzione del rapporto sono certamente improduttivi di qualsiasi effetto giuridico, salvo che ai fini della considerazione dell'esistenza di un rapporto lavorativo "di fatto" con tutte le conseguenze favorevoli di cui all'art. 2126 c.c., secondo cui la nullità del contratto di lavoro non rileva per il periodo in cui le prestazioni sono state effettivamente svolte.

Deve infatti ritenersi che per i suddetti medici il rapporto di lavoro di fatto sia comunque esistito, sia pure in violazione di un divieto assoluto, con collegamento ad esigenze reali, sicché da esso non possono che scaturire tutte le conseguenze retributive e previdenziali connesse derivanti dall'applicabilità dell'art. 2126 c.c. (3).

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(1) Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 29 febbraio 1992, nn. 1 e 2 e 5 marzo 1992 nn. 5 e 6.

(2) V. in tal senso, anche Corte Cost., sent. 19 giugno 1990 n. 296, la quale, riprendendo un indirizzo già tracciato dalla Cassazione (SS.UU., sent. 11 gennaio 1973 n. 63), ha affermato che "l'illiceità che, ai sensi dell'art. 2126, I comma, c.c., priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto di lavoro, non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento".

(3) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 novembre 1998, n. 1419.

Alla stregua del principio, pertanto, la Sez. VI, con la sentenza in rassegna, ha condannato le Amministrazioni appellate, ciascuna per il periodo di competenza, al pagamento delle relative prestazioni contributive in favore dei soli medici "gettonati" aventi diritto. E' stato precisato che le prestazioni assicurative, assistenziali e previdenziali sono dovute dalle due intimate amministrazioni (ciascuna per il periodo rispettivo) tenendo, comunque, conto, caso per caso, della singola posizione dei ricorrenti e dell'eventuale loro appartenenza anche ad altre amministrazioni, con possibile costituzione preesistente di posizioni assicurativo-previdenziali.

Con la sentenza in rassegna la Sez. VI ha così disatteso le conclusioni a cui erano pervenute le sentenze appellate del T.A.R. per la Campania le quali, aderendo alla sentenza della Sez. lavoro della Cassazione 12 novembre 1996 n. 9883 e alla sentenza del Tribunale Civile di Napoli, in funzione di Giudice del lavoro n. 121/1998, avevano ritenuto che la locuzione "non produce alcun effetto a carico dell'Amministrazione" presente nella normativa di settore (L. n. 808/1977; D.L. n.817/1978 conv. in L. n. 54/1979; D.P.R. n. 382/1980) debba essere interpretata nel senso dell'esclusione anche dell'effetto dell'applicabilità dell'art.2126 c.c., stante la radicale nullità dell'atto implicito di assunzione e la natura di mero fatto della prestazione, tutelabile solo ex art. 2041 c.c..

La Sez. VI, invece, aderendo, alle decisioni dell'Adunanza Plenaria nn. 1 e 2 del 29 febbraio 1992 nonché nn. 5 e 6 del 5 marzo 1992 - ha ritenuto dovute le prestazioni previdenziali ed assicurative nella considerazione anche "che è intenzione del legislatore tutelare le prestazioni esplicate effettivamente dal lavoratore, a meno che il contratto nullo che ha reso di fatto possibili tali prestazioni, non urti, con la partecipazione di entrambi i contraenti, con indirizzi vitali per l'integrità dell'ordinamento; cosa questa che nella specie deve certamente escludersi".

La Sez. VI ha viceversa ritenuto non censurabili le sentenze appellate nella parte in cui avevano riconosciuto congrua la retribuzione dei medici "gettonati" rispetto alle prestazioni da essi effettivamente rese, tenuto conto dei seguenti elementi che erano stati valutati dal giudice di prime cure: a) la limitazione dell'attività lavorativa del medico gettonato alle sole prestazioni assistenziali, con esclusione di quelle riferibili alla ricerca e alla didattica, pur essenziali nel quadro mansionistico della qualifica di più immediato riferimento nell'ambito del ruolo universitario, vale a dire quella di ricercatore; b) la non esclusività - effettiva o possibile - della prestazione in favore dell'Università; c) le transazioni intervenute a chiusura di vertenze intentate dai medici gettonati innanzi al Pretore del lavoro in merito all'entità della retribuzione percepita.

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Commento di GIUSEPPE SARTORIO (Avvocato del Foro di Napoli)

A ventuno anni dalla loro "istituzione", avvenuta con la deliberazione n. 35 del 1980, i medici "gettonati'' dell'Università di Napoli ricevono finalmente un riconoscimento, sia pure parziale, dell'attività medico assistenziale svolta, come vero e proprio "rapporto di pubblico impiego dì fatto".

L'argomento è di notevole rilevanza, posto che, nel corso del passato ventennio, i medici coinvolti nelle numerosissime ed annose querelle (che hanno spaziato tra Preture del Lavoro, Tribunali, Tribunali Amministrativi, Cassazione e Consiglio di Stato) sono stati più di un migliaio.

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4134 in commento, depositata in dada 26 luglio 2001, ha riunito gli otto giudizi di appello proposti contro altrettante sentenze del Tribunale Amministrativo per la Campania, riformandole in senso favorevole agli appellati.

Le sentenze del T.A.R. Campania annullate, pur avendo riconosciuto senza riserve la natura di rapporto di pubblico impiego di fatto dell'attività medico assistenziale svolta dai ricorrenti per oltre venti anni all'interno dei Policlinici universitari napoletani, avevano rigettato tutte le richieste formulate dai sanitari, sia sotto il profilo retributivo che sotto quello contributivo-previdenziale,

Il Tribunale partenopeo aveva fatto propria un'interpretazione restrittiva di alcune norme che riguardavano specificamente le amministrazioni universitarie (in particolare gli artt. 18 della legge 25.10.1977, n. 808 e unico del d.l. 23.12.1978, n. 817), in base alle quali "è fatto divieto di assumere, a qualsiasi titolo e sotto qualsiasi forma, personale non docente non di ruolo comunque denominato'' e "l'assunzione di personale effettuata in violazione del divieto posto dal precedente comma è nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico dell'amministrazione".

Secondo i Giudici napoletani, l'inciso finale della norma ("e non produce alcun effetto a carico dell'amministrazione") avrebbe rivestito un carattere più grave rispetto alla semplice nullità, escludendo in modo assoluto ogni effetto e rendendo di fatto inapplicabile anche l'art. 2126 Cod.Civ., in base al quale, come è noto, si è affermato che spettano comunque al dipendente pubblico di mero fatto le prestazioni retributivo-previdenziali (Cons. Stato, Ad. Plen., 29.2.1992, nn. l e 2 e 5.3,92, nn. 5 e 6).

Seguendo un pregevole percorso storico-ermeneutico, la Sesta Sezione ha ribaltato il disposto delle sentenze appellate, accogliendo le doglianze degli appellanti sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, è stato affermato che non è possibile enucleare diversi "gradi'" di nullità, soprattutto per invocare l'inapplicabilità di una norma posta a tutela del lavoratore e prevista dal legislatore proprio per i casi di "violazione di legge".

D'altro canto, il Consiglio di Stato ha affermato come non possa essere dimenticato che le norme applicate sono intervenute sul finire degli anni settanta, allorquando l'orientamento della Giurisprudenza amministrativa era improntato ad una maggiore apertura rispetto alla conversione ed alla sanatoria dì rapporti di pubblico impiego i quali, seppur viziati dal punto di vista genetico, venivano spesso considerato idonei (in presenza degli indici rivelatori) alla costituzione od alla conservazione del rapporto in essere, con la conseguente immissione in ruolo del pubblico dipendente di fatto.

Per arginare gli effetti di tale orientamento, il Legislatore introduceva le norme surriferite, cercando così di impedire la trasformazione in rapporti stabili di pubblico impiego con le Università di tutta quella pletora di convenzioni, incarichi a tempo indeterminato e quant'altro che avevano costituito per anni l'unico canale di immissione in servizio di nuovo personale, necessario per far fronte alle esigenze istituzionali degli Atenei.

Questa e non altra è stata considerata, dai Giudici di Palazzo Spada, la ratio delle disposizioni in esame e la loro interpretazione letterale.

La "coerenza" della voluntas del Legislatore, come sopra individuata, risulta confermata in relazione a quanto avvenuto negli anni successivi: se si esclude (pur con qualche eccezione) il caso dei "gettonati" dei Policlinici napoletani, tutti i rapporti precari instauratesi in quegli anni sono stati sanati con leggi e leggine approvate ad hoc dal Parlamento, spesso in sessioni di fine anno o di fine legislatura, con evidenti fini elettorali e propagandistici.

Prova ne sia che, per quanto approfondita sia stata la ricerca svolta dalla difesa dei "gettonati", neppure un precedente giurisprudenziale è stato rinvenuto con riferimento alle norme richiamate, se non con riferimento ai "gettonati" napoletani!

Tale circostanza (che risulta avallata nella sentenza in commento, la quale non richiama nessun diverso precedente specifico, a conferma della novità del presente decisum) dovrebbe far riflettere, in quanto è la prova provata che le numerose categorie cui l'Università avrebbe potuto opporre la norma nel corso degli anni non hanno avuto motivi di contenzioso, per essere state tutte sanate ex lege.

Con riferimento, poi, alle specifiche richieste degli appellanti, il Consiglio di Stato, dopo aver escluso le pure avanzate pretese retributive, ha accolto quelle relative al trattamento assicurativo, assistenziale e previdenziale.

In conseguenza, ha condannato le Amministrazioni appellate (l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli e l'Azienda Universitaria Policlinico, ciascuna per i periodi di rispettiva competenza) al pagamento, in favore dei medici "gettonati" aventi diritto, delle relative prestazioni assicurative, assistenziali e previdenziali, tenendo anche conto delle possibili posizioni già medio tempore costituite presso altre amministrazioni, con la sola esclusione di quei medici che, nel periodo di lavoro prestato, avevano già ottenuto in altro modo le prestazioni contributivo-assicurative.

 

 

FATTO

Con i ricorsi in appello ora all'esame gli istanti chiedono l'annullamento e la riforma delle sentenze della I Sez. del T.A.R. per la Campania - Napoli, in epigrafe specificate, pronunciate in relazione a più gravami proposti in primo grado per l'accertamento della natura di rapporto di pubblico impiego dell'attività medico assistenziale svolta dai medesimi presso il Policlinico Universitario della Facoltà di Medicina e Chirurgia, alle dipendenze dell'Università degli Studi di Napoli Federico II (prima) e dell'azienda Universitaria Policlinico (successivamente), con sede entrambe in Napoli, nei periodi menzionati in ciascun ricorso e, quindi, per il conseguimento delle differenze retributive, maturate nei periodi indicati, calcolate nella differenza tra quanto percepito a titolo di "gettone" e quanto spettante secondo le retribuzioni dei pubblici dipendenti dell'Amministrazione Universitaria con mansioni analoghe (ricercatori) e del S.S.N. (aiuti, o, in subordine, assistenti ospedalieri), ivi compresi la tredicesima mensilità, l'indennità integrativa speciale, il contributo pasto, il premio di produzione e ogni altra indennità spettante in base al c.c.n.l., oltre all'indennità sostitutiva di ferie non godute, con la conseguente condanna delle Amministrazioni resistenti, ciascuna per il periodo di competenza, al pagamento di tutte le somme, con rivalutazione monetaria e interessi; nonché per l'accertamento del diritto relativo al versamento dei contributi assicurativi, assistenziali e previdenziali con la conseguente condanna delle Amministrazioni resistenti, ciascuna per il periodo di competenza, al pagamento di tutti i relativi contributi, anche in favore degli Enti di competenza.

Negli stessi gravami gli interessati chiedono altresì, in subordine, in caso di accertamento e declaratoria della nullità del suddetto rapporto di pubblico impiego,

- l'accertamento e la declaratoria del diritto al pagamento, ai sensi dell'art.2126 c.c., di tutte le differenze retributive "ut supra", ovvero, in subordine, accertata e dichiarata l'insufficienza e la sproporzione, ex art.36 Costituzione, della retribuzione percepita a titolo di "gettone" rispetto all'attività lavorativa effettivamente svolta, calcolando le suddette differenze retributive spettanti, anche in applicazione dell'art.2099 c.c. - nella differenza tra il gettone ed una congrua percentuale delle suddette retribuzioni di pubblici dipendenti, e, in ogni caso, con la conseguente condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento di tutte le relative somme, con rivalutazione monetarie e interessi,

- in ogni caso, l'accertamento e la declaratoria del diritto dei ricorrenti, per tutti i periodi da ciascuno indicati, al trattamento assicurativo, assistenziale e previdenziale, con la conseguente condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento di tutti i relativi contributi, anche in favore degli Enti di competenza,

- nonché, in ogni caso, l'accertamento e la declaratoria del diritto al conseguimento dell'indennità di buonuscita, rapportata al periodo di attività prestato, con la conseguente condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento di tale indennità di buonuscita, con rivalutazione monetaria ed interessi

Nei ricorsi nn.839, 840 e 841 del 2000 viene, peraltro chiesto anche l'annullamento dei provvedimenti di cessazione del rapporto degli interessati.

Espongono in generale gli istanti nei loro vari atti di appello di aver erogato prestazioni mediche quali collaboratori professionali laureati esterni, ai sensi della delibera del Consiglio di Amministrazione dell'Università Federico II di Napoli n.35 del 30 marzo 1980, a partire dalla data in ciascun ricorso indicata, prima con l'Università degli Studi di Napoli Federico II, poi con l'Azienda Universitaria Policlinico, "svolgendo di fatto, mansioni di aiuto (o in subordine di assistente), stante la cronica carenza di altro personale strutturato" e di aver ritenuto di chiedere, quindi, sull'assunto della "totale assimilazione" del rapporto di gettonamento a quello "di lavoro di pubblico impiego subordinato" (predeterminazione dell'orario (almeno 120 ore mensili); inserimento nei turni di guardia e di reperibilità; rilevazione presenze a mezzo apposizione di firma su apposito registro o mediante orologio marcatempo; preventiva autorizzazione per le assenze o ferie; modalità di erogazione della prestazione definite gerarchicamente dai direttori), l'accertamento e la declaratoria dalla natura di pubblico impiego del rapporto dedotto con condanna dell'amministrazione al pagamento delle differenze retributive e di tutti gli accessori economici non erogati fino all'indennità di buonuscita e alla contribuzione previdenziale e assistenziale e inoltre, in via subordinata, la condanna dell'amministrazione ex art.2126 c.c., ovvero ex artt.36 Costituzione e 2099 c.c., secondo i parametri e i criteri di computo da essi stessi prospettati.

Fanno quindi presente gli interessati che, dopo aver proposto ricorso innanzi al T.A.R. per la Campania prospettando i motivi e le richieste sopra specificate, il giudice adito, con le sentenze in epigrafe, ha dichiarato i gravami in parte inammissibili e, in parte, li ha rigettati perché ritenuti infondati nel merito.

Nel chiedere ora la riforma di dette sentenze, gli appellanti deducono, più specificamente, i seguenti motivi:

A) Con i ricorsi in prime cure gli istanti chiedevano, anzi tutto, accertarsi e dichiararsi la natura di pubblico impiego del rapporto di lavoro intercorrente tra gli stessi e l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli, cui è subentrata, dal 1° gennaio 1995, l'Azienda Universitaria Policlinico, rilevando che, con deliberazione del Consiglio di Amministrazione n.35 del 31 marzo 1980, l'Università predetta, al fine di sopperire alle carenze manifestate nelle strutture assistenziali dei Policlinici, aveva deciso di avvalersi, della collaborazione professionale di laureati esterni, scelti tra i medici iscritti all'Albo.

Al riguardo, per gli interessati va subito chiarito, al fine di contestare l'eccezione d'inammissibilità della domanda sollevata dall'Amministrazione universitaria e accolta dai giudici di primo grado, il tenore della suddetta Deliberazione n.35/1980.

Il T.A.R. ha accolto, infatti, "acriticamente" l'eccezione di inammissibilità dell'Avvocatura erariale, fondata sul rilievo della mancata tempestiva impugnazione degli atti che hanno costituito e prorogato il rapporto relativo a prestazioni libero professionale a termine, senza farsi carico di approfondire la lettura del deliberato in questione; e ciò perché i ricorrenti mai avrebbero potuto insorgere avverso il contenuto della delibera n.35/1980 e successive in quanto "non è stato in esecuzione di una loro illegittima formulazione che si è instaurato un rapporto di pubblico impiego "di fatto", bensì attraverso il totale stravolgimento dei principi in detti atti contenuti...".

Alla parte appellante, invero, appare privo di ogni logica giuridica pretendere che i "gettonati" avrebbero dovuto impugnare una delibera - ad essi mai notificata nel corso del rapporto - il cui "disciplinare" (debitamente sottoscritto) affermava dei ferrei principi di "collaborazione libero-professionale".

B) Gli appellanti hanno erogato da almeno dieci anni (e tutt'ora erogano) le loro prestazioni professionali presso le strutture sanitarie del Policlinico suindicato (annesso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università "Federico II di Napoli") alle dipendenze dirette dell'Università fino al 31 dicembre 1994 e dal 1° gennaio 1995 alle dipendenze della neo costituita Azienda Universitaria Policlinico (subentrata ex lege alla prima). L'espletamento della loro attività è peraltro comprovato da quel "certificato di servizio" espressamente vietato ai sensi del punto 8 della delibera n.35/1980, puntualmente rilasciato dall'Azienda Universitaria Policlinico.

Se si considerano le prestazioni svolte dai medesimi, si può notare che il rapporto che ad esse si riferisce presenta i c.d. indici rivelatori del rapporto di pubblico impiego e, tra questi, in particolare:

a) l'attendere a compiti di assistenza medica, espletata "fianco a fianco" con i medici "dipendenti", con una perfetta identità di funzione e ripartizione delle mansioni;

b) l'espletamento dell'attività lavorativa con continuità e secondo orari predeterminati dai direttori delle varie Cliniche, orari che tutti i c.d. "gettonati" sono tenuti a rispettare e osservare;.

c) il regolare inserimento nei turni di guardia, unitamente ai sanitari "dipendenti";

d) la rilevazione della loro presenza sul lavoro sempre o a mezzo di firma da apporre su un apposito modulo ("foglio di presenza") ovvero a mezzo di un orologio marcatempo, così come avviene per i medici interni;

e) le richieste di autorizzazione ai superiori, nell'ipotesi in cui per motivi personali si è costretti ad assentarsi dal lavoro;

f) l'obbligo di concordare il periodo di godimento delle ferie con gli altri medici interni in servizio presso la stessa clinica e di assicurare la loro "reperibilità";

g) la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro da parte dei direttori delle varie cliniche da cui dipendono gerarchicamente, come gli altri sanitari;

h) l'erogazione di una retribuzione c.d. a gettone, quale corrispettivo del servizio reso;

i) la prefissione delle ore di lavoro da effettuare (in genere 120 mensili).

Nelle conclusioni gli appellanti - atteso che il rapporto di lavoro che li riguarda, svolto da numerosi anni, ha tutte le caratteristiche di totale assimilazione al rapporto di pubblico impiego, come del resto sembra riconosciuto nelle stesse decisioni gravate che l'hanno qualificato come pubblico impiego "di fatto" - chiedono in accoglimento del motivo e in riforma delle sentenze del T.A.R. per la Campania in epigrafe:

che sia accertata e dichiarata la natura di rapporto di pubblico impiego dell'attività svolta prima presso l'Università e poi, dall'1.1.1995, presso l'Azienda suindicata;

che sia accertato e dichiarato il loro diritto al conseguimento delle differenze retributive maturate per detto periodo, calcolate nella differenza tra quanto percepito a titolo di "gettone" e quanto spettante secondo le retribuzioni dei dipendenti, con analoghe mansioni, dell'Amministrazione universitaria, con condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento delle somme loro rispettivamente dovute, con rivalutazione monetaria e interessi;

che sia accertato e dichiarato il loro diritto al trattamento assicurativo, assistenziale e previdenziale, con la conseguente condanna delle Amministrazioni interessate al pagamento dei relativi contributi;

che sia dichiarata l'illegittimità dell'atto di cessazione del rapporto, ove esistente e, in subordine, in caso di cessazione di detto rapporto, anche il diritto al conseguimento dell'indennità di buonuscita, con pagamento da parte delle predette Amministrazioni, di tale indennità con interessi e rivalutazione monetaria.

Gli appellanti, in subordine, qualora si volesse accedere all'orientamento giurisprudenziale in tema di "nullità" del rapporto di pubblico impiego "di fatto", chiedono che alle prestazioni di fatto da loro svolte debba applicarsi, contrariamente a quanto statuito nelle gravate sentenze, l'art.2126 c.c., con tutte le conseguenze retributive e previdenziali connesse.

Con un'articolata memoria depositata, soltanto relativamente ai ricorsi nn.839, 840 e 841 del 2000, l'Università degli Studi di Napoli Federico II ha controdedotto ai motivi di appello contestandone la fondatezza. Nelle conclusioni la stessa Amministrazione chiede che siano rigettati gli appelli come sopra proposti e confermate l'impugnate sentenze, con ogni conseguenziale pronunzia in ordine alle spese del presente grado di giudizio.

Gli appellanti con memoria in data 20.3.2001 ribadiscono in gran parte i motivi di appello insistendo nelle loro richieste e conclusioni.

All'udienza odierna, uditi i difensori delle parti, le cause sono trattenute per la decisione.

DIRITTO

1. Va preliminarmente disposta, ai sensi dell'art.52 del R.D. 17.8.1907 n.642, la riunione degli appelli in epigrafe, attesa l'esistenza di evidenti ragioni di connessione soggettiva e oggettiva.

Ciò tanto più che - avendo taluno dei ricorrenti proposto due distinti ricorsi in appello contenenti in parte analoghe domande (v., ad es., ric. n.839 e n.840 del 2000, rispettivamente contro le sentenze nn.3726/98 e 3755/98, nei quali figura lo stesso nominativo del dr. Michele Fiore) e risultando proposti, inoltre, due ricorsi contro la stessa sentenza - si rende necessario, per esigenze di coerenza e di completezza del giudizio, l'attuazione in appello dell'unità del rapporto processuale.

2. Con gli atti di appello specificati in epigrafe, gli istanti impugnano le sentenze suindicate del T.A.R. per la Campania principalmente nella parte in cui, pur essendo stata riconosciuta la sussistenza di tutti gli indici rilevatori del rapporto di pubblico impiego di fatto, è stata negata ogni conseguenza giuridica in loro favore sotto il profilo del riconoscimento delle richieste differenze retributive ed, anche, sotto il profilo del loro diritto al trattamento assicurativo, previdenziale e assistenziale.

3. Come emerge dalla memoria in data 20.3.2001, depositata da parte dei ricorrenti, e come ribadito all'udienza di discussione dei ricorsi - atteso che, rispetto agli atti originariamente impugnati, è sopravvenuta, già al momento della delibazione delle sentenze in epigrafe, la carenza di interesse, avendo adottato le amministrazioni ulteriori provvedimenti che hanno inteso superare il contenzioso pregresso accertando implicitamente l'utilità delle prestazioni erogate - deve prendersi atto del non interesse al primo motivo di appello con cui gli istanti, poi espressamente rinunciandovi, chiedevano sostanzialmente la riforma delle sentenze in epigrafe nel senso del riconoscimento del loro rapporto di lavoro come rapporto di pubblico impiego; e ciò in conformità alla giurisprudenza del Consiglio di Stato che, a partire dalle sentenze dell'Adunanza Plenaria nn.1 e 2 del 1992, ha chiarito che l'accertamento della sussistenza di un rapporto di pubblico impiego "di fatto" non costituisce titolo idoneo a sanare la situazione, per l'appunto di fatto, determinatasi, con conseguente "nullità" del medesimo rapporto e obbligo dell'Amministrazione, a seguito del suo accertamento come tale, di farne cessare le conseguenze.

4. Residua, pertanto - come evidenziato dagli stessi ricorrenti - soltanto l'esame delle censure proposte nel secondo motivo d'appello, in relazione al quale appaiono erronee, ad avviso degli interessati, le motivazioni di rigetto delle seguenti istanze da loro prodotte in primo grado; e cioè a) che l'incarico attribuito ai medici "gettonati", a prescindere dal "nomen iuris" contenuto nell'atto costitutivo del rapporto, si sia realizzato in effetti come un rapporto con tutti gli indici rilevatori propri del rapporto di pubblico impiego; b) che il rapporto in questione, essendosi espletato in contrasto con norme imperative, sia affetto da nullità; c) che al rapporto predetto, soggetto alla cognizione del giudice amministrativo quanto alle retribuzioni spettanti e agli obblighi previdenziali e assicurativi dovuti dall'Amministrazione, si applichi l'art.2126 c.c., anche nel rispetto dei principi costituzionali (in particolare, degli artt.36 e 38 Cost.).

Mentre sui precedenti punti ora indicati il giudice adito in prime cure si è pronunciato accogliendo sostanzialmente la tesi degli interessati, sull'ultimo punto, invece, lo stesso T.A.R. ha statuito, in ritenuta applicazione della legge 25.10.1977, n.808 (art.18) e del D.L. 23.12.1987, n.817, convertito nella L. 19.2.1979, n.54, (art. unico), oltre che dell'art.23 del D.P.R. 11.7.1980, n.382, l'infondatezza delle pretese retributive e contributivo-assistenziali degli attuali ricorrenti.

Il T.A.R. per la Campania, infatti, ha ritenuto inapplicabile al caso di specie l'art.2126 c.c. in quanto il divieto violato nella specie assumerebbe un carattere più grave rispetto ad una semplice nullità; e ciò nella considerazione che le norme violate sancivano, oltre alla semplice nullità, anche e soprattutto l'improduttività di effetti, a carico dell'Amministrazione, delle assunzioni effettuate in violazione delle norme imperative di divieto e di disciplina della legittima procedura di reclutamento.

Ad avviso del giudice di primo grado, con l'inciso predetto, si sarebbe voluto escludere in modo assoluto ogni effetto, compreso quello relativo all'applicazione dell'art.2126 c.c., mentre, secondo gli appellanti, non sarebbe possibile enucleare "gradi" diversi di nullità, soprattutto per invocare l'inapplicabilità di una norma posta a tutela del lavoratore e prevista dal legislatore proprio per i casi di "violazione di legge".

5. Ora, in relazione alla questione anzi detta che costituisce il punto centrale della controversia, il Collegio ritiene che non vi sia alcun dubbio che nella specie la costituzione di fatto dei rapporti di lavoro subordinato è avvenuta in violazione di precise norme imperative, giacché detta costituzione era preclusa da chiare disposizioni generali volte a vietare in modo assoluto l'assunzione senza concorso di dipendenti pubblici, oltre che da apposite disposizioni che riguardavano specificamente le amministrazioni universitarie.

In proposito (in particolare, con gli artt.18 della legge 25.10.1977 n.808 e unico del D.L. 23.12.1978 n.817, convertito con mod. dalla legge 19.2.1979 n.54) è stato disposto, infatti, da una parte, che "è fatto divieto di assumere, a qualsiasi titolo e sotto qualsiasi forma, personale non docente non di ruolo comunque denominato" e che "l'assunzione di personale effettuata in violazione del divieto posto dal precedente comma è nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico dell'amministrazione" e, dall'altro, che: "restano ferme le nullità di diritto e l'assoluta improduttività di qualunque effetto e conseguenza nei confronti dell'amministrazione dell'assunzione di personale e dell'affidamento di compiti istituzionali effettuati in violazione della già vigente legislazione universitaria ovvero di quanto previsto nel presente decreto"; disposizioni queste, ora richiamate, che non seguivano certamente la tendenza manifestatasi nella produzione legislativa degli anni precedenti, allorquando la giurisprudenza - come evidenziato nella citata memoria - aveva espresso una certa apertura nei confronti della sanatoria di rapporti di impiego pubblico, i quali, anche se viziati sotto il profilo genetico, erano in genere considerati comunque idonei - sussistendo appositi indici rilevatori - ai fini della costituzione del rapporto di lavoro, con conseguente assunzione in ruolo dello stesso dipendente di fatto.

Il legislatore, dunque, per limitare gli effetti (certamente pregiudizievoli per l'erario) derivanti da detto orientamento è intervenuto con la normativa (più rigida) sopra menzionata, impedendo con ciò la trasformazione in rapporti di pubblico impiego con le Università di numerosi contratti ed incarichi a tempo indeterminato, che erano il mezzo più diffuso per assumere nuovo personale necessario a soddisfare le crescenti esigenze organizzative e istituzionali delle stesse Università.

Ciò posto, si deve comunque ritenere che le disposizioni suindicate, che hanno alla loro base le ragioni accennate, debbano essere interpretate tenendo conto delle loro specifiche finalità e non nel senso indicato nelle sentenze appellate che giungono ad escludere nella specie anche l'applicabilità dell'art.2126 cit..

Ed invero l'interpretazione che emerge da dette sentenze con riguardo all'espressione contenuta nell'art.18 cit. "non produce alcun effetto a carico dell'amministrazione" - nel senso che il rapporto sorto senza rispettare norme imperative non sia soggetto alla tutela ex art.2126 c.c., ma soltanto a quella di cui all'art.2041 c.c. - non può essere condivisa dal Collegio, atteso che - a parte la considerazione che l'esercizio dell'azione di indebito arricchimento costituisce pur sempre un effetto a carico dell'amministrazione - l'improduttività di effetti a carico dell'amministrazione stessa, di cui al menzionato art.18, ha rilevanza sotto il profilo della valida costituzione e della stabilità del rapporto di pubblico impiego (effetti questi impediti dalla nullità per violazione di norme imperative) ferma comunque restando l'applicabilità dell'art.2126 c.c. ai fini retributivo-previdenziali.

L'art.18 appena richiamato, unitamente alle altre disposizioni sopra citate, si inserisce in effetti nell'ambito di quei precetti che esprimono un netto orientamento del legislatore, volto allo scopo evidente di contenere la spesa pubblica e di garantire nello stesso tempo l'imparzialità amministrativa, a reprimere in modo più specifico ed incisivo le frequenti illegalità nel campo delle assunzioni, in particolare, di personale presso le Università; e ciò attraverso una tecnica normativa consistente, in genere - come evidenziato nella sentenza dell'Adunanza plenaria 29.2.1992 n.2 - nello stabilire la sanzione di nullità dell'assunzione illegittima, la quale viene formalmente ed espressamente dichiarata improduttiva di alcun effetto a carico dell'Amministrazione, e nel prevedere la responsabilità degli impiegati (o degli amministratori) che hanno provveduto all'assunzione stessa; criterio rigoroso questo recepito per gli Amministratori statali ai fini delle assunzioni di ruolo, dall'art.3, VI comma del T.U. 10 gennaio 1957 n.3 e, per le assunzioni non di ruolo, dagli artt.12 D.L.C.P.S. 4 aprile 1947 n.207 e 4 D.P.R. 31 marzo 1971 n.276 e anche, con un modello legale poi generalizzatosi, per enti pubblici, tra i quali, appunto, anche le Università.

Si tratta, quindi, di norme inserite in un corpo normativo omogeneo, avente ad oggetto un ben individuato tipo di provvedimenti (le assunzioni senza concorso di personale non di ruolo fuori dei casi e dei modi consentiti, che comportano oneri di bilancio continuativi) in relazione al quale non sembra dubbio - come sottolineato nella citata sentenza n.2 dell'Adunanza Plenaria - che il legislatore, consapevole del principio generale dell'imperatività dei provvedimenti amministrativi e di quella sua specie che è l'esecutività, abbia inteso derogarvi in casi particolari, con norme di stretta interpretazione, sancendo la nullità assoluta, la radicale improduttività di effetti, cioè l'inidoneità a costituire rapporti di pubblico impiego, dei provvedimenti in questione.

Da ciò discende una serie di conseguenze (cfr. Ad. Plen. 29.2.1992 n.1), tra le quali, la prima è che il rapporto di lavoro instaurato in contrasto con le disposizioni che lo disciplinano, ove sia espressamente prevista una sanzione di "nullità" del tipo sopra menzionato, sia esso rapporto a termine o a tempo indeterminato, nasce e vive come rapporto di fatto, rispetto al quale gli indici rilevatori del pubblico impiego assumono solo funzione di astratta qualificazione al fine della determinazione della giurisdizione e della disciplina economica e previdenziale cui debbono essere sottoposte le prestazioni lavorative.

In definitiva, il Consiglio di Stato, nelle sentenze dell'Ad. Plen. 29.2.1992, nn.1 e 2 e 5.3.1992 nn.5 e 6, pur sancendo la nullità del rapporto avente le caratteristiche del pubblico impiego, ma sorto in violazione di norme imperative che disponevano la sanzione della nullità, ha statuito anche l'applicabilità, in tale caso, dell'art.2126 c.c., affermando che sulla base di tale norma spettano comunque al dipendente di mero fatto della P.A. le prestazioni retributivo-previdenziali.

La sola ipotesi in cui viene esclusa la tutela di cui al citato art.2126 è quella prevista dalla norma stessa nell'inciso "salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto e della causa", ipotesi questa non verificabile nel caso in esame, come in ogni altro caso di violazione di norme di mera ristretta legalità, ma soltanto, come ribadito nelle citate decisioni dell'Adunanza Plenaria, nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari dell'ordinamento (cfr. in tal senso, anche Corte Cost.14-19 giugno 1990 n.296), che, riprendendo un indirizzo già tracciato dalla Cassazione (Cass. SS.UU. 11 gennaio 1973 n.63), si è pronunciata su tale argomento affermando che "l'illiceità che, ai sensi dell'art.2126, I comma, c.c., priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto di lavoro, non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento".

La nullità dell'atto costitutivo del rapporto di pubblico impiego, nel caso in esame determinata dalle menzionate specifiche norme, comporta, in altri termini, che i provvedimenti relativi alla costituzione del rapporto sono certamente improduttivi di qualsiasi effetto giuridico, salvo che ai fini della considerazione dell'esistenza di un rapporto lavorativo "di fatto" con tutte le conseguenze favorevoli di cui all'art.2126 c.c., secondo cui la nullità del contratto di lavoro non rileva per il periodo in cui le prestazioni sono state effettivamente svolte" (cfr. Cons. St., IV Sez., 3.11.1998, 1419).

Il Collegio - aderendo, tra i contrastanti indirizzi giurisprudenziali manifestati nel tempo, sia dalle SS.UU. della Cassazione che dal Consiglio di Stato circa l'applicabilità dell'art.2126 c.c., alla tesi positiva (prevalente per quel che concerne l'area pubblicistica) di cui alle decisioni dell'Adunanza Plenaria nn.1 e 2 del 29.2.1992 nonché nn.5 e 6 del 5.3.1992 - condivide, dunque, l'accennata impostazione, nella considerazione anche che è intenzione del legislatore tutelare le prestazioni esplicate effettivamente dal lavoratore, a meno che il contratto nullo che ha reso di fatto possibili tali prestazioni, non urti, con la partecipazione di entrambi i contraenti, con indirizzi vitali per l'integrità dell'ordinamento; cosa questa che nella specie deve certamente escludersi.

Sulla base delle considerazioni che precedono vanno disattese, dunque, le conclusioni a cui pervengono le sentenze appellate del T.A.R. per la Campania che, aderendo alla sentenza della Sez. lavoro della Cassazione 12.11.1996 n.9883 e alla sentenza del Tribunale Civile di Napoli, in funzione di Giudice del lavoro n.0121/1998, ritengono che la locuzione "non produce alcun effetto a carico dell'Amministrazione" presente nella normativa di settore (L. n.808/1977; D.L. n.817/1978 conv. in L. n.54/1979; D.P.R. n.382/1980) debba essere interpretata nel senso dell'esclusione anche dell'effetto dell'applicabilità dell'art.2126 c.c., stante la radicale nullità dell'atto implicito di assunzione e la natura di mero fatto della prestazione, tutelabile solo ex art.2041 c.c..

Ritenuto, in conclusione, che anche l'improduttività di cui è cenno nella normativa di settore anzidetta rientra nell'ambito della generale improduttività, come sopra considerata, conseguente alla nullità delle assunzioni sancita dalle norme violate, il Collegio osserva che la conseguenza, che deriva in concreto dalla nullità del rapporto costituito, è che gli interessati, pur se non possono invocare la costituzione di un rapporto di pubblico impiego efficace anche se invalido (giacché, per volontà di legge, l'improduttività in quanto tale si riferisce a qualsiasi effetto giuridico nei loro confronti) tuttavia i fatti e le attività verificatisi a seguito del negozio nullo possono, in base ad una diversa valutazione, produrre certamente autonome e limitate conseguenze.

In definitiva nel caso dei "gettonati" di cui si discute - una volta considerato superato l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui le prestazioni in contrasto con il divieto legale di assunzione sono affette da nullità assoluta con conseguente improduttività di ogni effetto giuridico ed esclusione anche della tutela ex art.2126 c.c. per le pretese retributive, essendo esperibile solo l'azione ex art.2041 c.c. - il Collegio deve ritenere, alla luce della citata giurisprudenza (in particolare dell'Ad. Plen. nn.1 e 2/1992, che ha affermato anche per i rapporti di lavoro affetti da nullità per violazione di norme imperative, l'applicabilità dell'art.2126 c.c.), che il rapporto di lavoro di fatto è comunque esistito nel caso di cui trattasi, sia pure in violazione di un divieto assoluto, con collegamento ad esigenze reali, sicché da esso non possono che scaturire tutte le conseguenze retributive e previdenziali connesse derivanti dall'applicabilità dell'art.2126 c.c..

6. Occorre allora verificare in concreto quali siano nel caso in esame gli effetti di tali conseguenze, dapprima con riguardo alle differenze retributive pretese dagli interessati e poi con riguardo a quelle contributive, assicurative e previdenziali.

A. Quanto alla prima verifica, non sembra censurabile la parte delle sentenze in epigrafe che ha riconosciuto congrua la retribuzione dei medici "gettonati" rispetto alle prestazioni da essi effettivamente rese. In proposito i ricorrenti si limitano a fare riferimento alle retribuzioni dei ricercatori universitari o degli assistenti ospedalieri per affermare, in virtù della analogia delle mansioni espletate, il loro diritto a vedere la propria retribuzione ad esse rapportata.

Al riguardo, premessa la considerazione di ordine generale secondo cui la retribuzione dei soggetti illegittimamente assunti non può essere automaticamente assimilata a quella dei pubblici dipendenti, va osservato che il giudice di primo grado nella specie si è fatto carico dell'esame della adeguatezza della retribuzione corrisposta ai "medici gettonati" per giungere, attraverso una motivazione puntuale, a stabilire la sua congruità rispetto alle prestazioni di lavoro effettuate dai medici in questione.

In particolare, gli elementi di valutazione che hanno indotto il giudice di prime cure a ritenere "non sproporzionato" il corrisposto "gettone" sono così individuati: a) la limitazione dell'attività lavorativa del medico gettonato alle sole prestazioni assistenziali, con esclusione di quelle riferibili alla ricerca e alla didattica, pur essenziali nel quadro mansionistico della qualifica di più immediato riferimento nell'ambito del ruolo universitario, vale a dire quella di ricercatore; b) la non esclusività - effettiva o possibile - della prestazione in favore dell'Università; c) le transazioni intervenute a chiusura di vertenze intentate dai medici gettonati innanzi al Pretore del lavoro in merito all'entità della retribuzione percepita.

Pertanto, le appellate sentenze, in tale parte, debbono ritenersi immuni dalle rilevate censure anche perché gli interessati non espongono alcuna specifica argomentazione rispetto alle conclusioni dell'Amministrazione e soprattutto rispetto alla congrua e diffusa motivazione sul punto resa nelle gravate decisioni.

Non possono essere, quindi, modificate dette decisioni, nella parte in cui hanno escluso ogni pretesa dei ricorrenti di ordine retributivo.

B. Quanto alla seconda verifica, con riguardo al trattamento assicurativo, assistenziale e previdenziale, il Collegio ritiene invece che la relativa pretesa debba essere accolta.

Ciò vale ovviamente soltanto nei riguardi di quei ricorrenti che nel periodo di lavoro prestato non hanno ottenuto in altro modo le relative prestazioni contributivo-assicurative.

Le Amministrazioni appellate vanno di conseguenza condannate, ciascuna per il periodo di competenza, al pagamento delle relative prestazioni contributive in favore dei soli medici "gettonati" aventi diritto. Le prestazioni assicurative, assistenziali e previdenziali sono dovute dalle due intimate amministrazioni (ciascuna per il periodo rispettivo) tenendo, comunque, conto, caso per caso, della singola posizione dei ricorrenti e dell'eventuale loro appartenenza anche ad altre amministrazioni, con possibile costituzione preesistente, come accennato, di posizioni assicurativo-previdenziali.

7. Per le considerazioni esposte, deve concludersi nel senso della fondatezza nel merito della pretesa di parte ricorrente limitatamente alla ulteriore domanda subordinata ex art.2126 c.c., riferita alle residue richieste di ordine previdenziale-assicurativo, secondo quanto precisato in motivazione.

Per l'effetto, in riforma parziale delle sentenze appellate, i ricorsi proposti in primo grado debbono essere accolti nella parte relativa alla pretesa sopra specificata.

Le spese del grado, attesa la particolarità della controversia, possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta:

- accoglie in parte e nei limiti di cui in motivazione i ricorsi in epigrafe;

- compensa tra le parti le spese del grado;

- ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2001, dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, riunita in camera di consiglio con l'intervento dei signori magistrati:

Alberto de ROBERTO Presidente

Sergio SANTORO Consigliere

Calogero PISCITELLO Consigliere

Luigi MARUOTTI Consigliere

Domenico CAFINI Consigliere Est.

Depositata in segreteria il 27 luglio 2001.

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