Giust.it

Giurisprudenza
n. 7/8-2001.

MAURIZIO GRECO

Ancora sulla modificazione della composizione delle associazioni temporanee d’imprese

(notazioni a margine della determinazione 18 luglio 2001 n. 15 dell'AUTORITA’ PER LA VIGILANZA DEI LAVORI PUBBLICI, già pubblicata in questo numero della rivista, con commento introduttivo di M. VALERO, La modificazione della composizione delle associazioni temporanee d'imprese....)

La recente determinazione n. 15/2001 ha consentito all’Autorità di Vigilanza di affrontare alcune questioni riguardanti l’interpretazione delle norme che regolano la partecipazione alle gare dei raggruppamenti di imprese.

In particolare, a fronte del divieto, di cui all’articolo 13, comma 5-bis, della legge n. 109/1994 e successive modificazioni, di modificare la composizione delle associazioni temporanee di imprese rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, l’Autorità si è soffermata sulle possibili deroghe al divieto prescritto dalla norma in questione.

Era stato fatto presente, in particolare, che in base all’articolo 12 del D.P.R. n. 252/1998, qualora una delle cause interdittive previste dalla normativa antimafia interessi un’impresa di un raggruppamento, diversa dalla mandataria, sia possibile estromettere tale impresa e conseguentemente tale causa non operi nei confronti delle altre imprese partecipanti.

L’Autorità ha ritenuto peraltro che:                       

a)      il divieto di qualsiasi modificazione alla composizione delle associazioni temporanee di imprese rispetto a quelle risultanti dall’impegno presentato in sede di offerta costituisce principio generale;

a)      la disposizione di cui all’articolo 94 del D.P.R. n. 554/1999, che consente di proseguire il rapporto nel caso di fallimento dell’impresa mandataria o di un’impresa mandante e, qualora la mandataria o la mandante sia una impresa individuale, anche in casi di morte, interdizione, inabilitazione del suo titolare, ha carattere eccezionale rispetto a tale principio[1];

b)      anche la disposizione contenuta nell’articolo 12 del D.P.R. n. 252/1998, che costituisce normativa speciale in materia di ordine pubblico, compatibile con la disciplina generale sui lavori pubblici, deroga al generale anzidetto divieto di cui all’articolo 13, comma 5-bis della legge 109/94 e successive modificazioni.

Deve subito dirsi che - stante il dato normativo - il pronunciamento dell’Autorità è praticamente scontato e inoppugnabile.

A completezza della ricognizione normativa sul punto, deve anzi soggiungersi che il comma 3 dell’art. 93 del D.P.R. n. 554/99 prescrive che la violazione delle disposizioni di cui alla citata norma della legge “Merloni” comporta l’annullamento dell’aggiudicazione o la nullità del contratto[2].

Purtuttavia, qualche breve ulteriore riflessione è forse opportuna per verificare la razionalità del medesimo divieto a fronte del contesto normativo in cui è introdotto, delle finalità dell’istituto dell’associazione temporanea d’imprese e delle tendenze più recenti dell’ordinamento degli appalti pubblici volte, in definitiva, a ritenere tutto sommato irrilevante la soggettività dell’appaltatore a fronte del possesso dei requisiti di qualificazione, con superamento assai netto della nozione di “intuitus personae” nell’appalto di lavori.

Sotto il primo profilo, infatti, non può non rilevarsi che il divieto è introdotto immediatamente dopo il comma 5 dello stesso articolo, che ha previsto la facoltà per le ATI e i consorzi di costituirsi anche successivamente alla presentazione delle offerte e in caso di aggiudicazione dell’appalto, costituendone, sostanzialmente, un contrappeso[3].

Ora, se il divieto ha - come evidenziato dalla dottrina - la stessa finalità della previsione dell’irrevocabilità del mandato preventivo conferito dalle imprese partecipanti all’ATI per partecipare alla gara, tale constatazione consentirebbe di poter applicare alla fattispecie la conclusione già raggiunta in giurisprudenza, in base alla quale in caso di recesso di una delle imprese mandanti non vi è “nullità” del contratto, ma soccorre il temperamento rappresentato dalla circostanza che i mutamenti soggettivi che intervengano all’interno dell’associazione non possono essere opposti alla p.a. dall’impresa mandataria, rimanendo quest’ultima obbligata all’esecuzione dei lavori di competenza dell’impresa receduta o direttamente o attraverso l’indicazione di altra impresa[4].

D’altronde, occorre considerare che il divieto potrebbe comunque facilmente essere eluso, ad esempio proprio mediante l’applicazione dell’art. 94 del D.P.R. n. 554/99.

Si pensi alla presentazione di un’offerta da parte di un’ATI comprendente una o più imprese in situazione (in senso atecnico) prefallimentare, maturata, con l’attivazione delle relative procedure, dopo l’aggiudicazione dell’appalto.

In tale caso - tra l’altro - potrebbero così farsi avanti le “vere” mandanti, che paradossalmente non sarebbero neanche colpite dai divieti di cui al comma 4 dell’art. 13 (divieto di partecipare alla gara in più di un’associazione temporanea e di partecipare in forma individuale qualora l’impresa medesima abbia partecipato alla stessa gara quale associata), con il conseguente rischio di evidenti turbative.

Sotto il secondo profilo, vanno più in generale ricordate le finalità dell’istituto de quo, nonché della relativa disciplina nazionale e comunitaria, volta ad evitare che la presentazione di un’offerta congiunta da parte di più imprese trovi ostacoli, in ragione del favor per uno strumento di facile formazione e scioglimento e di grande penetrazione sul mercato, specie per le piccole e medie imprese, atteso il superiore tasso di competitività che assicura[5]

Se così è, vanno ad evidenza attentamente valutate le conseguenze di una normazione nazionale e di un’interpretazione restrittiva rispetto alla direttiva europea (che limita, come noto, il suo intervento ad agevolare la presentazione delle offerte), tenuto conto altresì che un’applicazione “forte”  e non funzionalmente orientata dell’art. 13, comma 5-bis potrebbe finire tra l’altro per dare un enorme potere - nei confronti delle altre imprese associate - all’impresa che manifestasse l’intenzione di recedere dall’ATI, in definitiva favorendo fenomeni che potrebbero contrastare con lo stesso buon andamento della p.a..

Va infine ricordato che sono ormai plurime - nello stesso contesto normativo della disciplina degli appalti di lavori - le disposizioni che consentono modificazioni soggettive o che comunque prendono in considerazione non tanto le imprese in quanto tali, quanto il “patrimonio” di requisiti di idoneità che esse esprimono, sia nella fase di qualificazione, sia nella fase di esecuzione dell’appalto[6].

Si pensi, ad esempio, alla più recente modifica della normativa sul subappalto, che ha escluso la preventiva (in sede di offerta) indicazione nominativa dei subappaltatori.

Se si considera che per la legge è del tutto indifferente chi esegua sino al 30% delle lavorazioni prevalenti e tutte le lavorazioni subappaltabili (purché sia in possesso delle relative qualificazioni), si comprende come l’interpretazione fatta propria nella fattispecie dall’Autorità di Vigilanza rischi di creare un eccesso di “ingessamento” della disciplina all’istituto dell’ATI, che potrebbe - in contrasto con l’atteggiamento di favor pure espresso al riguardo dalle fonti normative - sconsigliare o limitare il ricorso allo stesso[7].

La lettura della richiamata normativa vale, in conclusione, a corroborare l’ipotesi che la norma in commento non esprima affatto un principio di immutabilità soggettiva di portata più generale di quella che la sua ratio sorregge.

D’altronde, come avevano rilevato coloro che hanno sollevato il quesito all’Autorità, se si considera possibile, sulla base del disposto dell’art. 12 D.P.R. n. 252/1998, ritenuto tuttora vigente e applicabile, consentire la sostituzione di un’impresa interessata da fenomeni mafiosi, ferma restando la validità dell’ATI e del contratto di appalto, risulta difficile comprendere perché altre e più “ordinarie” e non patologiche ragioni (assunzione di altri impegni concomitanti non compatibili con l’appalto, ecc.) non dovrebbero poter condurre al medesimo risultato.

[1] Anticipando alcune delle conclusioni del presente contributo, deve viceversa dirsi che tale affermazione è forse uno dei punti deboli del ragionamento dell’Autorità.

Se infatti è vero che il complesso legge - regolamento generale - regolamento sulla qualificazione -capitolato, è volto, nell’intenzione del legislatore, ad esaurire tendenzialmente l’ordinamento degli appalti pubblici di lavori, deve peraltro ricordarsi che:

-  lo stesso complesso normativo fa salve disposizioni di altre fonti (es. contabilità di Stato);

-          lo stesso complesso normativo contiene altre ipotesi che fanno pensare che l’art. 94, lungi dal costituire una norma eccezionale, sia espressivo - come più oltre illustrato - di un più generale orientamento volto a focalizzare l’attenzione sul possesso dei requisiti di qualificazione “in senso oggettivo” e a rendere sempre meno rilevante la soggettività dell’appaltatore, sia in fase di qualificazione, sia in fase di esecuzione dell’appalto;

-          non si rinviene alcuna particolare ragione per ritenere che tale norma (che tra l’altro ha derivazione comunitaria, riprendendo analoga disposizione del D.Lgs. 406/91) o altre del regolamento abbiano un carattere “eccezionale” e pertanto non siano suscettibili di applicazione analogica (o quanto meno estensiva) secondo le normali regole di interpretazione della legge. 

[2] Proprio tale norma suggerisce peraltro che, anche a fronte di un’eventuale violazione del divieto, la consolidazione dei provvedimenti per inoppugnabilità potrebbe consentire di considerare e tenere fermi e validi tutti gli atti dell’appalto.

Per altro verso, suscita qualche perplessità che la nullità del relativo contratto sia comminata in una disposizione regolamentare - sia pure di delegificazione - in considerazione del principio generale per cui le cause di nullità sono stabilite dalla legge ed anche dei notori problemi in ordine alla sfera d’applicazione del D.P.R. n. 554/1999 (tale norma ad esempio non si applicherebbe alle regioni).

[3] Così Damonte, sub art. 13, in AA.VV. (cur. Caringella), “La nuova legge quadro sui lavori pubblici”, Milano, 1999, pag. 363.

[4] Cass. Civ., Sez. I, 11 maggio 1998, n. 4728, in “Urbanistica e appalti”, con nota di Frascolla.

[5] Così ancora Damonte, loc. op. cit..

[6] Addirittura, alcune di esse sono sicuramente applicabili anche a ciascuna delle imprese associate (es. art. 35 L. 109/1994: riconoscimento del cessionario in caso di cessione d’azienda), ancora una volta a riprova della non tassatività dell’ipotesi di cui all’art. 94 D.P.R. 554/1999 e della necessità di un’interpretazione limitativa e adeguatrice dell’art. 13, comma 5-bis.

[7] Vengono altresì in luce a tali fini le seguenti, note, disposizioni, sulle quali nella presente sede non è possibile soffermarsi in un’analitica disamina:

-          l’art. 15, comma 9 del D.P.R. n. 34/2000, in base al quale in caso di fusione o di altra operazione che comporti il trasferimento di azienda o di un suo ramo, il nuovo soggetto può avvalersi per la qualificazione dei requisiti posseduti dalle imprese che ad esso hanno dato origine;

-          l’art. 18, comma 14 dello stesso D.P.R., in base al quale per la qualificazione fino alla III classifica di importo i requisiti di idoneità tecnica possono essere dimostrati dall’impresa mediante i lavori affidati ad altre imprese della cui condotta è stato responsabile uno dei propri direttori tecnici;

-          lo stesso art. 94, 1° comma del D.P.R. 554/99, che consente la sostituzione dell’impresa fallita con altra impresa “purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori ancora da eseguire”;

-          l’art. 35 della L. 109/1994, in base al quale le cessioni di azienda e gli atti di trasformazione, fusione e scissione relativi ad imprese che eseguono opere pubbliche non hanno singolarmente effetto nei confronti di ciascuna amministrazione aggiudicatrice fino a che il cessionario, ovvero il soggetto risultante dall’avvenuta trasformazione, fusione o scissione, non abbia proceduto nei confronti di essa alle comunicazioni previste dall’articolo 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11 maggio 1991, n. 187, e non abbia documentato il possesso dei requisiti previsti dagli articolo 8 e 9 della legge;

-          l’art. 36 della stessa L. 109/1994, che estende il beneficio di cui al precedente art. 35 alle ulteriori ipotesi ivi contemplate.

Copertina