Giustizia amministrativa

Articoli e note

Antonio Romano Tassone
(Ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Reggio Calabria)

Il problema della dirigenza locale

(Relazione introduttiva al Convegno di studi sul tema: "La dirigenza degli enti locali nella Regione Siciliana" organizzato dal Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro "Domenico Napoletano" Sez. di Catania, il 27 ottobre 1995, pubblicata in Giur. amm. sic. 1995, fascicolo 4).

1- Prima ancora che rappresentare un problema dal punto di vista giuridico, la dirigenza locale costituisce un’entità problematica sul piano sociologico.

Ciò, ovviamente, non manca di riverberare i propri effetti sulla stessa dimensione giuridica della dirigenza locale, poichè l’indubbia forza maieutica delle norme non è tale nè da distruggere strutture burocratiche preesistenti, nè da costituire ipso facto entità sociologiche prive di consistenza reale.

La dirigenza locale non è infatti riguardabile come un gruppo o una categoria sociale: i suoi (possibili) membri, infatti, ben poco hanno di comune; in particolare, non esistono per i dirigenti locali quei sistemi di cooptazione e/o quei percorsi formativi omogenei che normalmente concorrono a determinare il senso di comunità e di appartenenza dei membri di un gruppo sociale, e che non casualmente il decreto legislativo n° 29/93 tenta di introdurre.

Ma soprattutto, la c.d. dirigenza locale non è neppure espressione di una funzione diffusa ed omogenea, i cui titolari possano quindi, da un momento all’altro, maturare, alla luce di una comune esperienza di lavoro, una consapevolezza collettiva: almeno finora, infatti, essa è stata individuata più per l’ordine di grandezza dell’ente, che per caratteri qualitativi intrinseci della prestazione.

Si osservi peraltro che la funzione dirigenziale tende naturalmente ad emergere, con proprie peculiari caratteristiche, soltanto nell’ambito di quelle che Giannini chiama amministrazioni disaggregate (costituite da molti addetti e con una rigida partizione del lavoro), mentre resta tendenzialmente allo stato larvale nelle cosiddette amministrazioni compatte (di ridotte dimensioni e/o con scarsa differenziazione funzionale degli addetti), tra le quali, come si vedrà, è la quasi totalità degli enti locali italiani.

Anche a prescindere da tali difficoltà, peraltro, l’atteggiamento del legislatore nei confronti della dirigenza locale ha seguito percorsi non lineari in ragione di una considerazione politica di fondo che non và assolutamente trascurata: la burocrazia locale, infatti, è connotata da un elevato grado di compromissione, quando non di identificazione personale, con la preesistente classe politica (oltre il 60% degli amministratori locali, che nei primi anni ‘50 provenivano dall’agricoltura, appartiene oggi al settore terziario, tradizionalmente identificantesi, nel Meridione d’Italia, con l’impiego pubblico).

I recenti venti di riforma hanno investito, bene o male, la classe politica municipale, eliminando dalla scena, a torto o a ragione, molti dei precedenti protagonisti, ma non hanno affatto intaccato la vecchia burocrazia, la quale pertanto, per la naturale inerzia che connota gli apparati amministrativi, tende a conformarsi ai consueti modus operandi, reiterando modelli comportamentali non più consoni alle esigenze attuali.

Ciò determina naturalmente un maggior peso della rinnovata classe politica locale, uscita direttamente dalle consultazioni popolari, quindi maggiormente legittimata rispetto ad una burocrazia non riformata e non particolarmente qualificata per la sua competenza (si ricordi che investitura popolare e indiscussa competenza tecnica costituiscono, alternativamente, crismi di legittimazione necessari per il titolare di poteri pubblici).

Sul piano giuridico, tutto questo contribuisce a render più incerto il già di per sè difficile percorso che deve condurre alla costituzione di una dirigenza effettivamente capace di gestire in autonomia le amministrazioni locali.

Le norme che tale dirigenza mirano a costituire sono state definite "norme annuncio", intendendosi dire che esse si limitano a preannunciare una realtà normativa ancora da perfezionare; alla luce delle osservazioni svolte fin qui, a mio avviso, esse vanno piuttosto ritenute "norme progetto", ossia disposizioni che, pur senza aver carattere programmatico, indicano un risultato tuttora lontano dall’effettivo conseguimento.

2- Poste queste premesse, si comprende bene l’intrinseca problematicità che esse inducono sulla fisionomia giuridica della dirigenza locale.

Senza alcuna pretesa di completezza, mi limiterò a trattare quelli che mi sembrano i tre problemi principali emersi dall’esperienza fin qui maturata: l’applicabilità immediata del criterio di distribuzione delle competenze che fa leva sulla distinzione tra politica e amministrazione; la stessa individuazione giuridica della dirigenza locale; il rapporto della dirigenza con gli amministratori, e, in particolare, con il Sindaco.

Alla definizione di tali problemi sono connesse, poi, tematiche non secondarie, quali quelle della definizione dell’ambito oggettivo della competenza dei dirigenti (ossia della definizione dei concetti di indirizzo e controllo da un lato, e di gestione dall’altro), e dell’incerta collocazione del segretario comunale o provinciale.

3- Il problema dell’immediata applicabilità delle norme che sanciscono le rinnovate competenze della burocrazia locale, separando politica e amministrazione, si è posto già subito dopo l’emanazione della L. n. 142/1990, e ciò non solo con riguardo alle attribuzioni che dovevano esser previste dalle emanande norme statutarie, ma anche in relazione alle stesse competenze che la legge (ed in particolare l’art. 51) assegnava direttamente ai dirigenti.

Già allora ci fu chi, traendo spunto dal fatto che le modalità di esercizio di tali competenze venivano lasciate alla determinazione della normativa secondaria, sostenne l’inapplicabilità immediata di questa disposizione.

Ciò perchè, com’è ovvio, le resistenze ad una riforma che espropria la classe politica locale di gran parte dei suoi poteri sono fortissime e tutt’altro che sopite.

Proprio per contrastare tali tendenze dilatorie, parte autorevole della dottrina ha sostenuto la immediata applicabilità delle disposizioni del decreto legislativo n. 29/1993 anche agli enti locali.

Il fatto che l’art. 13 di tale decreto espressamente preveda la necessità di una conformazione dell’ordinamento degli enti autonomi alle statuizioni relative alla dirigenza, non costituirebbe - secondo tale dottrina - un ostacolo all’immediata applicazione del criterio distintivo delle competenze basato sulla separazione tra indirizzo e controllo da un lato e gestione dall’altro.

A tal proposito, vi è infatti chi sottolinea come l’art. 3 del decreto legislativo n. 29/93, che tale criterio sancisce, non faccia parte delle norme che l’art. 13 prevede debbano essere recepite nell’ordinamento locale, sicchè esso risulterebbe ivi immediatamente applicabile (Viscomi; Zoppoli).

Altri autori (Sciullo) ritengono che la ratio della previsione del citato art. 13 stia nel carattere ancora troppo generale di alcune disposizioni del relativo Capo II, che pertanto necessiterebbero di specificazione da parte della normazione secondaria; ne segue che solo talune delle norme sulla dirigenza del decreto legislativo n. 29/93 richiederebbero una effettiva conformazione da parte degli enti locali, mentre altre, e soprattutto gli artt. 14, 16 e 17, che enumerano le nuove attribuzioni degli amministratori e della dirigenza locale, sarebbero di immediata applicazione.

Pur tenendo nel debito conto le preoccupazioni di quanti temono che l’intermediazione statutaria si trasformi in pretesto per rinviare sine die l’entrata in vigore della riforma, debbo dire che trovo molto più persuasive, sul piano sistematico oltre che su quello testuale, le tesi opposte.

Per la necessità di una intermediazione statutaria si è del resto pronunciata la giurisprudenza amministrativa: sia il T.A.R. Toscana (Sez. I 12 gennaio 1995 n. l7) sia il T.A.R. Veneto (2 febbraio 1995 n. 152) hanno infatti affermato, ancorchè con diversa argomentazione, che le norme sulla dirigenza non trovano immediata applicazione nel settore degli enti locali, e che a tal fine questi ultimi sono obbligati a modificare il proprio ordinamento.

Egualmente orientata parte della dottrina (Staderini).

Le ragioni che mi spingono a preferire questa soluzione sono, in sintesi, le seguenti:

a) la dirigenza amministrativa, com’è disciplinata dal decreto legislativo n. 29/93, è, per unanime opinione, essenzialmente quella statale. A parte la difficoltà di trasferire tout court un tale modello in amministrazioni che, come si è ricordato, sono nella stragrande maggioranza di tipo "compatto" e non "disaggregate", mi pare essenziale lasciare uno spazio di opzione all’autonomia locale, la quale ha come proprio contenuto minimo la potestà di auto-organizzazione. Si consideri ancora che le maggiori critiche al disegno del decreto legislativo n. 29/93 riguardano proprio, in una prospettiva di buon andamento, il carattere eccessivamente centralistico ed omogeneizzante del modello, non applicabile senza adattamenti al variegato mondo delle amministrazioni pubbliche contemporanee;

b) l’ambito oggettivo delle rispettive sfere di competenze è tutt’altro che definito. Politica ed amministrazione sono infatti fenomeni diversi, ma non contrapponibili, e tra di essi corre una linea di confine tutt’altro che rigida. Politici ed amministratori, soprattutto nell’ambito di strutture amministrative poco consistenti, quindi tendenzialmente "compatte", sono destinati a lavorare insieme, subendo reciproche continue influenze. Basti ricordare che in Germania il problema della separazione tra politica ed amministrazione non è visto, come invece da noi, come esigenza di depoliticizzare l’attività amministrativa, ma, al contrario, come necessità di evitare l’eccessivo condizionamento della struttura burocratica nei confronti del personale politico. Sempre nella prospettiva della salvaguardia delle autonomie, imposta dall’art. 5 della Costituzione, mi sembra dunque necessario che il rispettivo ambito di tali due attività sia definito, volta per volta e ordinamento per ordinamento, da ciascun ente locale.

4- Altrettanto, se non più grave il problema della individuazione giuridica della dirigenza locale, cioè dei concreti destinatari delle norme attributive delle nuove competenze.

Il problema nasce, com’è noto, dal fatto che la dirigenza locale è stata definita per la prima volta da disposizioni dei contratti collettivi di lavoro (D.P.R. n. 347/1983), peraltro in termini tali da renderla presente solo nei comuni maggiori, ed assente pertanto nella stragrande maggioranza degli enti locali italiani.

Già con l’entrata in vigore della L. n. l42/1990, il problema della individuazione del soggetto cui attribuire, nei comuni minori, le competenze riservate ai dirigenti aveva quindi assunto notevole entità; oggi esso è aggravato dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 29/1993.

Le soluzioni concretamente prospettabili sono solo tre: che tali competenze, nei comuni minori, spettino agli amministratori; che esse vadano invece attribuite al segretario comunale; che si debbano riconoscere, infine, ai dipendenti che ricoprono i posti "apicali", qualunque ne sia la qualifica.

La prima soluzione è stata sostenuta, subito dopo l’entrata in vigore della L. n. 142/90, da Vandelli, ma non ha avuto che scarsissima fortuna: nella prospettiva di tale legge, ed ancor di più in quella del decreto legislativo n. 29/93, infatti, l’attribuzione agli amministratori, ed in particolare al Sindaco, di compiti di gestione amministrativa è in palese contraddizione con tutta l’ispirazione della riforma, tendente ad evitare influenze politiche sulle funzioni amministrative di tipo gestionale (questa tesi peraltro, come più avanti si dirà, meriterebbe di esser oggi riconsiderata nell’ottica degli adeguamenti statutari imposti dalla riforma concernente l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia).

La seconda soluzione, che affida al segretario comunale i compiti della dirigenza locale de jure inesistente nei comuni minori, è quella che incontra di gran lunga i maggiori consensi nella dottrina e che risulta in parte adottata nella nota circolare ministeriale n. 6/1993.

Questa soluzione, inoltre, sembra aver un preciso avallo nella previsione dell’art. 53, secondo comma, della L. n. 142/1990, che affida appunto al segretario i pareri di regolarità tecnica in caso di mancanza dei dirigenti locali, in via generale a ciò competenti.

Vi è da dire, ancora, che in ogni organizzazione esistono uffici a ruolo variabile, che possano consentire l’adeguamento della struttura alle varie evenienze concrete, e che, nell’ordinamento locale, tale è appunto l’ufficio del segretario comunale.

Con tutto ciò, deve osservarsi come il ruolo del segretario, pur estremamente duttile e variabile, non sembri del tutto sovrapponibile a quello della dirigenza, soprattutto quale risulta dal decreto legislativo n. 29/93: il segretario degli enti locali, infatti, appare piuttosto il custode della legalità e della correttezza dell’azione amministrativa che non il responsabile della sua efficenza su un piano, per di più, aziendalistico.

Non pare, quindi, del tutto confacente alla figura del segretario l’attribuzione di compiti e responsabilità gestionali che trascendono, tra l’altro, le sue specifiche competenze.

La terza soluzione, infine, è stata sostenuta da quanti ritengono che, ai fini della applicazione della riforma delle autonomie, bisogna distinguere la qualifica dirigenziale così come definita nell’ambito del rapporto di lavoro da quella che risulta dall’assetto organizzativo dell’ente (Corso), si che i poteri e le competenze previsti dalla legislazione del ‘90 e del ‘93 vanno attribuiti a quanti, in ciascun ente locale, ricoprono i posti "apicali".

Anche questa soluzione ha avuto il sia pur parziale avallo della circolare ministeriale n. 6/93, che ha ritenuto che essa vada adottata in tutti i comuni in cui la qualifica apicale sia di grado non inferiore al sesto.

Si tratta di una soluzione che lascia anch’essa, però, ampi margini di insoddisfazione, soprattutto se si pretende di applicare immediatamente e direttamente agli enti locali le norme specifiche degli artt. 16 e 17 del decreto legislativo n. 29/93.

Data l’assoluta eterogeneità delle figure professionali che, nei vari enti autonomi, reggono gli uffici "apicali" e la constatata assenza di un vero e proprio corpo di dirigenti locali, appare evidente infatti il rischio che compiti di grande delicatezza e di elevata responsabilità vengano commessi a personale che può in concreto esser del tutto privo della competenza necessaria (si pensi soltanto, sia pur senza enfatizzarne il valore, al titolo di studio).

Il problema dunque esiste, ed è tuttora drammaticamente aperto.

5- La legge sull’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia ha, infine, ulteriormente complicato il problema della dirigenza locale.

Sotto molti aspetti, infatti, essa appare come un passo indietro rispetto al disegno della L. n. 142/1990.

Beninteso, sul piano puramente giuridico e della attribuzione delle competenze, le norme sull’elezione diretta degli organi monocratici delle amministrazioni locali possono esser lette (e lo sono in effetti state) come una pura modifica interna all’assetto degli organismi politici comunali e provinciali, tale da non intaccare lo status della dirigenza e, soprattutto, la fondamentale ripartizione tra politica e amministrazione posta dalle leggi del 1990 e del 1993.

Anche ammesso che così sia e che, pertanto, le recenti riforme elettorali nulla in effetti tolgano alle attribuzioni dei dirigenti locali, si dovrà però convenire che il ruolo di questi ultimi ne risulta complessivamente modificato e sminuito.

L’evoluzione normativa ha infatti visto la dirigenza (ministeriale e locale) nascere dapprima in funzione di mera collaborazione degli organismi politici (è tale il significato della riforma del 1972), per quindi assumere, con le leggi del l990 e del 1993 appunto, una veste autonoma, di diretta gestione e diretta responsabilità.

Le recenti disposizioni in tema di elezione del Sindaco, invece, fanno chiaramente riferimento ad un rapporto di mera collaborazione tra organismo politico direttamente eletto dal popolo e dirigenza locale, com’è reso evidente dalla semplice considerazione che spetta appunto al Sindaco o al Presidente della Provincia la nomina dei dirigenti ed il conferimento dei relativi incarichi.

E poichè tali designazioni avvengono su base strettamente fiduciaria, tanto da esser naturalmente revocabili (così, per esempio, T.A.R. Umbria, 6 febbraio 1995 n. 18), anche coloro che assegnano un penetrante ruolo gestorio alla dirigenza locale riconoscono che quest’ultima viene oggi a configurarsi sostanzialmente quale collaboratrice del Sindaco, in termini, se non identici certamente analoghi, a quelli degli assessori.

Si è addirittura sostenuto, al riguardo, che ad ogni nuova elezione del Sindaco o del Presidente della Provincia si realizzi una sorta di spoils system in miniatura.

Anche se ciò non è del tutto esatto (perchè certamente la revoca di un dirigente è oggetto di ben altre garanzie che non quella di un assessore), non può tuttavia negarsi che, nel confronto con i nuovi organi monocratici locali, la dirigenza finisce con assumere una veste di più accentuata dipendenza.

Tanto più questo, quando si consideri che il Sindaco e il Presidente della Provincia sono espressamente definiti dalla legge come "responsabili dell’amministrazione" e che, almeno nella disciplina regionale siciliana, il Sindaco rappresenta l’organo a competenza generale per ogni "atto di amministrazione" che non sia espressamente attribuito ad altri uffici.

Se si tiene conto che la stragrande maggioranza delle amministrazioni locali sono, come si è più volte ricordato, di tipo c.d. "compatto", risulta chiara la tendenza a fare del Sindaco una sorta di "superdirigente", anche perchè, rispetto ad una dirigenza locale non particolarmente qualificata e quindi non legittimata per "competenza", il Sindaco finisce con il far valere quel plus di legittimazione democratica che ne determina la primazia nella gestione concreta dell’ente.

Se inoltre si considera che, come si è visto, gli indirizzi prevalenti ritengono necessaria, ai fini dell’applicazione del decreto legislativo n. 29/1993, la preventiva conformazione ad esso delle norme statutarie, che peraltro debbono esser modificate anche nella prospettiva della elezione diretta del Sindaco, sembra probabile che tali due momenti finiscano per fondersi, determinando così, in concreto, una disciplina statutaria della dirigenza locale fortemente marcata dal penalizzante confronto con un organo di amministrazione iper-legittimato, quindi pervadente.

Vi fosse o meno, nei fautori della riforma elettorale, la consapevolezza di render assai più complicato il cammino della dirigenza locale verso una dimensione meno fantasmatica ed incerta, non v'è dubbio che tale riforma rappresenti un netto passo indietro su questa strada.

Le perplessità, dunque, invece di dissiparsi, crescono man mano che si procede, com’è forse inevitabile in un’epoca di profondo travaglio come l’attuale.

Nei Sonetten an Orpheus, agli inizi di questo secolo, Rilke scriveva che "Apollo non ha altari all’incrociarsi di due vie del cuore". E’ proprio qui, invece, che sembrano destinati a sorgere oggi gli altari di Temi.