Articoli e note

Arcangelo Monaciliuni
(Magistrato del T.A.R. Sicilia-Palermo)

I limiti della tutela cautelare nel processo amministrativo

Il dibattito dottrinario sull’ambito dei poteri del giudice amministrativo, in sede cautelare, è sempre più appassionato, in ispecie sul controverso tema della sospendibilità dei provvedimenti negativi, e continua a vedere il campo diviso fra quanti auspicano una sempre maggiore incisività dei poteri cautelari, anche in tema di provvedimenti negativi (puri, spuri, etc.), e chi, invece, rifugge da tale ampliamento (1).

In attesa che la Corte Costituzionale si pronunci su tale ultima, specifica questione sottopostale, con ordinanza n. 722 del 10.11.1995, dalla sezione staccata di Catania (terza sezione interna) del T.A.R. Sicilia (2), siano consentite brevi note, volte, più che a intervenire nel dibattito dottrinario, ad offrire un contributo sotto il profilo, per così dire, pratico, non sempre adeguatamente posto in luce, e pur da aver presente, ove si voglia pervenire a soluzioni, che, in linea con la norma ed i principi, siano in grado di assicurare quella effettività della tutela cautelare, da più parti invocata.

Le ragioni, a sostegno delle due posizioni sono note, e poggiano entrambe su solide basi dottrinarie, cui si farà cenno in appresso, volendosi qui subito anticipare che la soluzione della querelle non potrà che risiedere nel rinvenire gli strumenti più idonei atti a consentire una equilibrata ponderazione dei diversi interessi in gioco: quello privato, del ricorrente; quello pubblico, dell’Amministrazione; quello privato, ancora, dei controinteressati, ed il soddisfacimento di quello meritevole di maggior tutela interinale, alla stregua sia dell’irreparabilità o meno del danno che del grado di fumus a sostegno delle diverse ragioni prospettate in giudizio, ovviamente, nel rispetto del dato normativo, che tutti astringe.

Al fine di delimitare l’ambito della problematica, occorre enucleare alcuni presupposti, da avere per fermi, a partire sia dall’assioma, che tale ha ad essere ritenuto, che la durata del processo non può risolversi in danno del ricorrente che ha ragione, sia di quello che mentre il processo è a tutela del diritto, la cautela è a tutela del processo.

Ove, entrambi, tali principi non siano riconosciuti ed accettati nella loro piena valenza e compiuto significato, come verità evidente, per l’appunto, il confronto non potrà essere portato utilmente avanti, dandosi luogo ad un colloquio fra soggetti destinati a percorrere strade parallele, che non si incontreranno mai.

Ed invero, anche in chi nega una estensione pressocchè indefinita dei poteri cautelari del giudice amministrativo, egualmente viva è la consapevolezza della necessità di interventi - normativi, anche se a mezzo di ingegneria costituzionale - atti a permettere che la pronuncia del giudice non sopravvenga inutilmente, nel caso, in un mutato assetto degli interessi, senza poter arrecare alcuna utilità al ricorrente, ovvero penalizzando, ingiustamente, l’interesse pubblico.

La res deve giungere integra al processo: affermazione all’apparenza semplice e piena di buon senso, e pur così difficilmente realizzabile. La res? Ma quale essa è, che deve conservarsi incontaminata? Molto spesso, in prima battuta, non è definita compiutamente, sicchè rischia di giungere integra al processo quella parte di essa che la decisione cautelare ha cristallizzato, con grave nocumento della sostanzialità del diritto.

Due brevi considerazioni pratiche al riguardo: la prima legata alla difficoltà per l’Amministrazione di far constare, in sede cautelare, le proprie ragioni, la seconda legata alla esistenza di controinteressati (preesistenti e non sopravvenuti) non immediatamente individuati e/o intimati con l’atto introduttivo del giudizio, i cui interessi legittimi possono essere pretermessi in assenza di contraddittorio, ove, come accade di frequente, il ricorso sia comunque ammissibile, o per lo meno lo appaia prima facie, in presenza di avvenuta notifica ad un soggetto, la cui effettiva qualificazione come controinteressato sarà accertata, nel caso, solo successivamente.

Come è noto, dopo l’entrata in vigore della L. 3 aprile 1979, n. 103, la notificazione dei ricorsi avverso gli atti delle amministrazioni difese dall’Avvocatura dello Stato va eseguita presso gli uffici della stessa Avvocatura del distretto ove ha sede il Tribunale Amministrativo adito (od anche, al più, presso altri uffici sempre dell’Avvocatura dello Stato, come da sentenza C.C. 8.7.1967, n. 97).

Tale previsione, all’evidenza finalizzata a consentire una più efficace difesa dell’Amministrazione, in realtà non ha raggiunto i propri scopi, ove si consideri che se è vero, da un canto, che l’Avvocatura dello Stato è stata in tal modo posta in condizione di conoscere immediatamente l’avvenuta proposizione di un ricorso (immediatamente, si fa per dire, non sfuggendo l’Ufficio alle ferree leggi della burocratizzazione, che, nella specie, fanno pervenire l’atto sul tavolo dell’avvocato designato per la difesa di certo non subitaneamente), è ancora vero, d’altro canto, che la medesima non può organizzare la difesa stessa, senza aver prima richiesto all’Amministrazione, invece non - ancora - a conoscenza dell’avvenuta proposizione del gravame, relazione a chiarimento dei fatti di causa. E, come avviene frequentemente, anche quando l’Amministrazione fornisce i dovuti elementi, essi giungono spesso troppo tardi per la sede cautelare, nella quale, non di rado, si assiste alla frustrazione dell’avvocato di turno, costretto ad improvvisare una qualche difesa.

Va aggiunto che le cennate difficoltà di una efficace difesa in sede cautelare non sono esclusive della sola amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura dello Stato, per essere proprie anche delle restanti amministrazioni, che affidano la loro difesa ad uffici legali interni o ad avvocati esterni del libero foro, anche queste ultime non sottratte alle leggi della burocrazia, ed ai passaggi formali comunque richiesti per acquisire elementi e per deliberare la stessa costituzione in giudizio per resistere alla pretesa.

Per quanto attiene, invece, ai controinteressati pretermessi, nel caso senza incorrere in inammissibilità del ricorso, ove non rilevabile immediatamente in sede cautelare, si assiste non di rado alla proposizione di un diverso e successivo gravame da parte di questi ultimi, sostanziali controparti, così imponendosi una nuova pronuncia, anche cautelare, sulla identica res litigiosa, e così aprendosi la stura ad una serie di decisioni, e di attività amministrativa in esecuzione, tale da rendere, a volte, arduo, ricostruire il tutto e far comprendere a chi l’ulteriore pronuncia a rendersi venga effettivamente a giovare e, per quanto più rileva, quale posizione sia effettivamente assistita dal fumus boni iuris, il tutto sempre che si sia in presenza di identico Collegio giudicante, il che non sempre accade, con le ulteriori, immaginabili, possibili, discrasie.

Peraltro, in tali casi, è stata la stessa originaria pronuncia cautelare ad innescare il procedimento che avanzerà, fra il contenzioso e l’amministrativo, in mare aperto, in un sovrapporsi di decisioni, che poco hanno a che vedere con la certezza del diritto.

Non si ignora che la dottrina prefigura una stretta e significativa integrazione fra procedimento e processo amministrativo, ipotizzando un continuum fra amministrazione e giurisdizione, che avrebbe ad essere produttivo.

Ma sia consentito dissentire. In un diverso sistema giudiziario, nel quale la pronuncia del giudice acquisti immediata e definitiva stabilità, od abbia, quanto meno ben poche possibilità, teoriche e pratiche, di essere sovvertita, come accade nei restanti Paesi europei ed extra europei, tale continuum è, e deve essere, effettivamente in re ipsa, garantendo l’ordinato dispiegarsi della corretta azione amministrativa e la tutela piena del cittadino. Ma in un ordinamento, nel quale possono sopravvenire in sequenza, nella sola fase interinale: provvedimento dell’Amministrazione, pronuncia cautelare del giudice di prime cure, esecuzione dell’Amministrazione, nel caso a seguito di nuovo intervento del giudice cautelare, quale giudice dell’esecuzione; pronuncia cautelare di secondo grado e nuovo provvedimento dell’Amministrazione, con possibili sovrapposizioni ed anche con possibili intersecazioni di pronunce giudiziali rese nel corso di separati, e pur tuttavia connessi, procedimenti amministrativi e/o giudiziari, in riferimento al controinteressato pretermesso, ben si vede come in luogo del continuum si assisterà ad un susseguirsi schizofrenico di go and stop, che poco ha da spartire con l’effettività della tutela. Il tutto, poi, aggravato dalla circostanza che, inevitabilmente, in tal modo, il giudice diviene, in qualche misura, parte della complessiva (schizofrenica) azione, con sminuizione del suo ruolo e di quell’imperium iudicis, che avrebbe ad essere preservato, al di sopra ed al di là delle parti in causa, rappresentando la giustizia la più alta espressione della sovranità dello Stato, che tanto più effettiva avrà ad essere quanto più sarà in grado di valutare immediatamente e contestualmente le diverse ragioni, emanando decisioni il più possibile certe e definite, evitandosi che l’alea iudiciorium, riferita alla fase cautelare, possa significare che la partita è giocata con dadi così piccoli, da non rendere chiaro neppure chi «la sorte» abbia favorito.

Si obietterà che le osservazioni sopra esposte sono riferibili all’intera gamma dei procedimenti cautelari e che rappresentano il rovescio della medaglia del doppio grado di giurisdizione, che, tuttavia, ha, dall’altra faccia, il vantaggio insopprimibile di garantire il vaglio successivo del giudice dell’appello anche su dette misure cautelari, rese in prime cure.

Non è questa la sede per approfondire il discorso in relazione alla generalizzazione dell’istituto del doppio grado di giurisdizione ed ai suoi effetti (3); quel che appare potersi qui rilevare è come tale approfondimento andrebbe senza dubbio esperito in una riforma del complessivo sistema giudiziario civile e penale, allo stato incapace di assicurare effettiva giustizia, che significa anche dare effettività alla stessa, se del caso sacrificando qualcosa in tema di garanzie meramente formali, sì da non rendere concreto, al termine della fase cautelare, di quella di merito, delle impugnazioni e di quant’altro ancora possibile, il detto summum ius summa iniuria.

Non potrà, comunque, negarsi che via via che si allarga il potere cautelare del giudice amministrativo, si assiste, in progressione, ad una sempre maggiore sostituzione di questi all’Amministrazione.

Ma se, in via di principio, la funzione ultima del giudice amministrativo è proprio quella di «sostituirsi», dettando la norma del caso concreto ed assicurandone l’esecuzione, pur tuttavia, detta «sostituzione» ha ad essere, per l’appunto, la funzione ultima, che si ha con il giudizio di esecuzione del giudicato, con l’ottemperanza, cui il giudice fa luogo, direttamente o a mezzo del commissario ad acta, al posto dell’Amministrazione inadempiente, nè tale fase appare poter essere anticipata compiutamente al momento cautelare.

Ovviamente, non sfugge a chi scrive che tale conclusione può apparire (prima facie, appunto) del tutto ignara delle evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale che ha condotto ad una progressiva trasformazione della tutela cautelare nel processo amministrativo da strumento di conservazione (della res, che deve giungere integra al processo) in mezzo di propulsione e di anticipazione degli effetti della pronuncia di merito; trasformazione legata soprattutto alla necessità di offrire adeguata tutela agli interessi pretensivi, che, a differenza di quelli oppositivi, non possono trovare soddisfazione da una misura cautelare volta a mantenere immutata la situazione di fatto in attesa della sentenza, ovvero ad impedire la produzione degli effetti materiali conseguenti al provvedimento impugnato.

Ed invero, si è sostenuto, e con ragione, che per i titolari di interessi pretensivi, la misura cautelare si appalesa idonea a soddisfare la pretesa azionata in giudizio solo se viene modificato il quadro degli interessi nei sensi desiderati, non essendovi alcun effetto materiale che possa sospendersi iussu iudicis.

Per pervenire, quindi, alla sospendibilità di tali provvedimenti si è fatto ricorso ad una distinzione fra sospensione incidente sugli effetti giuridici in senso stretto del provvedimento e sui suoi effetti materiali, per concludere che la misura viene ad incidere sui primi, sicchè la stessa sarà adottabile anche nei confronti di provvedimenti che non innovano nella realtà materiale, con la conseguenza che sarà quest’ultima a doversi poi adeguare al dictum del giudice della cautela.

Ma tali effetti, ove a ritenersi pieni, comportano (o possono comportare), in una, spesso, alla irreversibilità della situazione definita dalla pronuncia cautelare, ad una completa anticipazione del merito, il che, per quanto già osservato e per quanto appresso si dirà, non può essere condiviso tout court, a meno dell’apprestamento di «paletti», ancorchè ben distanziati, entro i quali confinare il potere del giudice della cautela.

Del resto, la stessa ordinanza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 8 ottobre 1982, n. 17, che costituisce uno dei primi capisaldi in tema di sospendibilità di provvedimenti non oppositivi (4), per poter dimostrare la (astratta) sospendibilità del provvedimento impugnato e pervenire, in ipotesi di accoglimento, all’ammissione con riserva del ricorrente agli esami di maturità, e poter sostenere che il giudice amministrativo, così operando, non eccedeva dai limiti del suo potere, ha dovuto operare esplicitamente una inversione logica del provvedimento impugnato, affermando che l’ordinanza di sospensione veniva ad incidere sull’effetto preclusivo del provvedimento di non ammissione, «e, per conseguenza, consente l’ammissione condizionata del candidato all’esame, in via provvisoria, ad evitare che il tempo occorrente per il processo vanifichi la tutela giurisdizionale prevista dagli artt. 113 e 24 della Costituzione» senza, tuttavia «sostituire le valutazioni del Consiglio di classe, la cui funzione rimane integra».

E la medesima ordinanza continua facendo rilevare come il sistema delineato presuppone, da parte del giudice, un uso oculato e rigoroso del potere di sospensione, utilizzando appieno il presupposto della sussistenza del fumus boni iuris, ovvero concedendo la sospensiva solo laddove, in una al danno grave ed irreparabile, il ricorso si appalesi sostanzialmente fondato (e, non a caso, quasi, a mò di avvertimento, nel caso di specie, il supremo consesso ebbe a delibare per l’insussistenza di tale presupposto, concludendo, quindi, per il rigetto della sospensiva).

D’altra parte, la impossibilità di far luogo all’azione per l’esecuzione del giudicato, di cui all’art. 27, n. 4, R.D. n. 1054/1924, ai fini dell’esecuzione coattiva dell’ordinanza di sospensione, resta pur sempre il nerbo della precedente ordinanza della Adunanza Plenaria 30 aprile 1982, n. 6, che ha testualmente osservato come «all’applicabilità del c.detto giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di ordinanze (cautelari) si oppone insuperabilmente la circostanza che il contenuto decisorio dell’ordinanza cautelare non acquista mai quell’efficacia definitiva che, in ordine al caso deciso, ha il giudicato».

Nè tale pronuncia è stata poi mai contraddetta dal custode dell’ortodossia della giustizia amministrativa, che, anche laddove, sia nella stessa pronuncia del 1982, che in quelle successive, ha evidenziato il carattere rigorosamente unitario del giudizio cautelare, nel quale non sono identificabili distinti procedimenti di cognizione e di esecuzione, ed ha concluso con l’affermazione che il potere cautelare implica anche la capacità di assicurare l’attuazione della misura adottata con gli ordinari rimedi, essendo l’eseguibilità, anche con mezzi coercitivi, connotato proprio ed indefettibile del tipo di tutela richiesto con la domanda cautelare, non ha spostato i termini del problema, qui all’evidenza, non avendo operato, in tal modo, alcun ampliamento delle categorie di provvedimenti sospendibili (in ordine ai quali l’ordinanza di sospensione può essere portata ad esecuzione anche coercitivamente), quali ad individuarsi nel rispetto dell’art. 21 della legge T.A.R. e del principio costituzionale della separazione fra i poteri dello Stato.

Ed alla stregua di ciò, può evitarsi l’approfondimento, in questa sede, del dibattito teso ad acclarare se il rimedio apprestato dalla «Plenaria», consistente, appunto, nel ritenere conferito al giudice della cautela il potere di emanare «i provvedimenti idonei a garantire l’esecuzione», si configuri o meno come giurisdizione di merito o estesa al merito.

E’ pacifico, e lo ha ribadito più volte la stessa Corte Costituzionale (5), che non sono configurabili giurisdizioni passibili di esecuzione ed altre in cui il dovere di attuare la decisione si arresti di fronte alle particolari competenze attribuite al soggetto, il cui operato è sottoposto a giudizio, sicchè non vi è dubbio sulla pienezza dei poteri del giudice dell’esecuzione (delle pronunce cautelari), e sulla forma specifica della medesima, che contiene un obbligo di facere.

Resta, pur sempre fermo che «la sostituzione» all’Amministrazione, è consentita, nella fase dell’ottemperanza, e se si vuole, per brevità, anche nella fase cautelare, ma pur sempre in relazione alle pregresse statuizioni giudiziali, ad emanarsi, però, nel rispetto dell’ambito della giurisdizione, per ciascuna fase prevista.

Aggiungasi che la succennata decisione dell’Adunanza plenaria n. 6/1982, motiva la impossibilità di far ricorso al giudizio di ottemperanza, per ottenere l’esecuzione delle pronunce cautelari in discorso, anche con la circostanza che le forme previste dal cennato art. 27 «oltre tutto non sono idonee a garantire il rispetto dell’integrità del contraddittorio nei confronti di tutti gli interessati», il che ci riporta ad una delle discrasie suevidenziate, ed alla necessità di rinvenire strumenti idonei a garantire lo stesso, già nell’ambito della fase cautelare.

Ovviamente, ciò non vuol dire che non possono legittimamente rientrare nei poteri del giudice amministrativo l’emanazione di ordinanze di sospensione così dette «propulsive», purchè ci si intenda sul significato di tale termine e sulla portata del potere del giudice.

Se in esse vanno ricomprese quelle che ordinano all’Amministrazione di fornire risposta alle pretese del ricorrente, in ordine alle quali si è formato il silenzio rifiuto, di riesaminare il provvedimento alla luce di elementi non valutati ed evidenziati con il gravame, od anche di doglianze ritenute fondate ad un primo esame, (c.detto remand), nel caso ripetendo l’istruttoria, appare fuor di dubbio che dette pronunce, oltre ad essere pienamente ammissibili, contribuiscono anche alla effettività della tutela, in senso stretto, e della stessa giustizia, consentendo di pervenire, con immediatezza, a circoscrivere la res litigiosa alla sua effettiva consistenza sostanziale, evitandosi il consolidarsi di assetti, destinati inevitabilmente ad essere rimossi, con nocumento di tutte le parti in causa, che poco si gioverebbero della pronuncia sul merito, che, a distanza di anni, venisse solo a censurare l’aspetto formale.

Ma, si badi, detta categoria di pronunce cautelari, non opera in sostituzione dell’Amministrazione, che resta libera, ovviamente nel rispetto delle risultanze della nuova attività, impostale dal giudice cautelare, di adottare le determinazioni ritenute dovute. Trattasi, cioè, dell’emanazione di un «obbligo di provvedere» qualificato dall’osservanza di regole poste dal giudice.

E questo appare il punto più avanzato di tutela possibile. Non va, infatti, dimenticato che solo il richiamo alla effettività della tutela, intesa come sostanzialità della stessa, può condurre a tale risultato, altrimenti non teorizzabile, ove si tenga presente che, nelle more della sentenza di merito, la sospensione cautelare (se, nella fattispecie in discorso, può ancora così essere qualificato il provvedimento emanato dal giudice) non elimina l’atto amministrativo, ma ne paralizza solo gli effetti, sì da rendere ardua l’affermazione della sussistenza di un dovere di provvedere, iussu iudicis, in materia sulla quale si è già provveduto, con un atto, in ispecie se esplicito o tale per previsione normativa, (ancora) presente nel mondo giuridico nella sua integrità.

E se a tale conclusione è opportuno pervenire, se tale potestà va riconosciuta sussistente in capo al giudice della cautela, il suo ambito va nondimeno contenuto nei limiti delle fattispecie su indicate.

Ben diverso è infatti il caso di ordinanze, impropriamente definite propulsive, la cui puntuale esecuzione comporta l’attribuzione immediata di quel bene della vita, oggetto della pretesa dedotta in giudizio, immutando in modo irreversibile, a vantaggio del ricorrente, la situazione controversa.

Al riguardo, vanno operate, ad avviso di chi scrive, più differenziazioni. Di certo, non saranno emanabili provvedimenti cautelari (nè sentenze di merito), in materia riservata alla discrezionalità amministrativa, non potendosi il giudice sostituire all’Amministrazione, in modo espresso, od anche improprio, come qualche volta pur accade. Più complesso il discorso in relazione ad atti implicanti l’esercizio della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione. In esito a questi ultimi, occorrerà valutare con rigore se residui o meno un margine di discrezionalità amministrativa, riservato all’Amministrazione, ovvero se si possa affermare che la manifestazione di scienza, (unico) presupposto dell’impugnato provvedimento, che deve seguire in un rapporto di obbligatoria conseguenzialità, sia perciò avulsa da ogni atto di volizione e che la medesima, alla stregua della documentazione prodotta in giudizio, ovvero, come più di frequente accade, alla stregua delle risultanze della verificazione disposta dal Collegio, risulti decisamente smentita, nel mentre è provata (non appare: è) la contraria affermazione del ricorrente, alla stregua di detti incontrovertibili supporti certificativi, che devono collocarsi su di un piano di certezza, pressocchè assoluta, come oggi, in linea di massima, consentito dalle acquisizioni scientifiche, che hanno ristretto il margine di opinabilità del dato, così consentendo, di converso, per quanto refluente nel giudizio amministrativo, un allargamento dei poteri di cognizione del giudice della legittimità.

Resta fermo che, in tali caso, la prudenza del giudice della cautela avrà ad essere esercitata al massimo, in riferimento al grado di attendibilità, certezza e definitività del dato, restando, comunque, nel sistema attuale, da emanarsi la sentenza, e, quindi, da riesaminare la questione da parte del giudice del merito, che resta pur sempre peritus peritorum, e che non è astretto dalla precedente pronuncia cautelare, che, tuttavia, ha già consentito il pieno soddisfacimento della pretesa, spesso, esso, irreversibile.

In proposito, andrà anche osservato che laddove sia la legge ad individuare la fonte di acquisizione (vedasi in tema di servizio militare o di accertamenti sanitari per l’acquisizione di particolari, status e/o benefici: invalidità, equo indennizzo, etc.) nel caso prevedendo la possibilità di revisione del giudizio, con indicazione degli organismi a tanto deputati, non è dato l’utilizzo dello strumento della «verificazione», così restando il provvedimento pur sempre annullabile e però per vizi specifici, senza impingere nel merito delle risultanze tecnico-scientifiche. Ne deriva, in tal caso, la non sospendibilità del provvedimento, se non per altre e diverse ragioni, suffragate da consistente fumus.

Per quanto attiene alle fattispecie, in cui le censure rivolte al provvedimento impugnato attengano a profili di illegittimità, che, anche quando ritenuti fondati con la sentenza di merito, non consentirebbero il conseguimento automatico del bene della vita, per il cui soddisfacimento il giudizio è stato intentato, ma solo l’annullamento del provvedimento stesso in relazione ai motivi dedotti, il che non preclude l’emanazione di un nuovo provvedimento dell’Amministrazione, depurato dai vizi riconosciuti sussistenti, e, tuttavia, in tesi, ancora di negazione del preteso diritto, va osservato come anche lo spostamento dell’asse del giudizio amministrativo da giudizio sugli atti a giudizio sul rapporto, pur risultando soddisfacente ai fini dell’effettività della tutela, non potrà mai significare sostituzione del giudice all’Amministrazione, se non in relazione a quanto denunciato e fatto oggetto specifico del gravame, fermo restando che, eliminati i vizi ritenuti sussistenti dal giudice, sarà pur sempre l’Amministrazione a dover definire il rapporto.

Diversamente opinando, a tacer d’altro, e senza voler qui mettere in campo i principi sulla divisione dei poteri - che pur sono basilari in uno Stato democratico e di diritto, che predica l’autonomia di tutti e tre i Poteri: il legislativo, quello giudiziario, ma anche quello esecutivo, sì da porsi, per quanto qui riguarda, il problema, nodale, del «limite esterno» della giurisdizione amministrativa - significherebbe convertire il giudice in amministratore, essendo a lui richiesto non più, o non solo, di verificare la legittimità dell’operato dell’Amministrazione, ma di far luogo, al suo posto, a quanta specifica attività necessaria, ancora all’esito della rimozione del vizio, per verificare, ex novo, la sussistenza del preteso diritto.

Ed anticipare, addirittura, tale attività al momento cautelare, all’esito del quale rimane pur sempre sub iudice la effettiva fondatezza dei motivi di ricorso proposti, appare, invero, operazione ardita.

Del resto, il Consiglio di Stato ha di recente (6) statuito che in ipotesi di annullamento giurisdizionale di un atto negativo di controllo, l’organo tutorio debba riesaminare l’atto controllato, che non ha ricevuto alcun riconoscimento di legittimità se non in relazione ai vizi specificamente dedotti e ritenuti sussistenti, con possibilità di emanare un nuovo provvedimento di annullamento, ovviamente in relazione a vizi diversi da quelli riconosciuti sussistenti in sede giudiziale, ed il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana, pur in dichiarata adesione ai principi delineati dal Consiglio di Stato, ha, rettamente, precisato (7) che il giudice amministrativo, nel caso in cui disponga l’annullamento dell’atto di controllo, debba verificare ed esternare i presupposti in base ai quali si debba reiterare il controllo, ovvero si debba considerare lo stesso esaurito, così non comprimendosi oltremodo l’autonomia degli enti, come avverrebbe se l’organo tutorio potesse ripronunciarsi, a più riprese, per un tempo indefinito. Nè erano mancate, peraltro, in precedenza, altre pronunce giurisdizionali, sia pur sporadiche ed avulse da un quadro sistematico, sostanzialmente tese a conseguire lo stesso risultato (8).

Ciò significa che se anche in presenza di tali fattispecie debba poter essere concesso in sede cautelare quanto concedibile in sede di merito, anche in questo caso essendo valido l’assunto che l’anticipare serve a rendere più effettiva la giustizia e la tutela, occorrerà che la motivazione dell’accoglimento sia esplicita e non consenta di ritenere più ampi del dovuto gli effetti della pronuncia medesima.

Può ora passarsi ad esaminare, un poco più dappresso la generale categoria dei provvedimenti negativi c.detti puri, per quanto impossibile da etichettare tutti in modo esaustivo ed uniforme, senza, peraltro, soffermarsi su quelli coinvolgenti i diritti fondamentali, o di libertà, per non allargare oltre misura il tema del discorso, inserendo in campo anche la riserva ed il riparto di giurisdizione, come altrimenti necessario, ma in un contesto ed in uno spazio di trattazione più ampio.

E dunque, fatti salvi quelli (di esclusione da procedure concorsuali in genere, e similari), la cui sospendibilità è ormai accettata unanimamente perchè qualificata (la ammissione con riserva disposta dal giudice) come misura tipica, rispondente alla logica specifica dei provvedimenti impugnati, quelli (dinieghi di dispensa dal servizio militare e similari) cui l’ordinamento riconnette particolari effetti positivi «innovativi», sui quali ultimi viene ad incidere l’ordinanza di sospensione e quelli (di diniego di rinnovi di concessioni amministrative) la cui sospendibilità è ammessa nella considerazione che l’effetto del provvedimento cautelare risiede nella conservazione della posizione di vantaggio, già in capo al soggetto, per il resto dottrina e giurisprudenza sono, come osservato, divise fra chi ammette, tout court, la loro sospendibilità, chi altrettanto recisamente la nega in assoluto e chi ipotizza un sorta di sospendibilità condizionata, come ha, più incisivamente e diffusamente di altri, teorizzato il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (9).

Orbene, nel mentre alcune delle argomentazioni addotte dai fautori della tesi della «sospendibilità condizionata» non appaiono condivisibili tout court, laddove, in particolare, si vorrebbe incidere sulla stessa vis esecutiva dell’ordinanza cautelare di primo grado, a mezzo della prospettata previsione, secondo la quale salvo casi eccezionali, in cui il ritardo nell’esecuzione venisse a compromettere irreversibilmente l’interesse del ricorrente, l’obbligo dell’Amministrazione di provvedere dovrebbe operare «soltanto nell’ipotesi in cui la decisione cautelare di primo grado non sia stata appellata»; principio che, in difetto di una norma di legge, inserita in un contesto organico di riforma del processo amministrativo, anche in relazione ai tempi dell’appello, si appalesa di difficile applicazione in via pretoria, non può tuttavia non apprezzarsi lo sforzo conciliativo fra interesse pubblico e privato, che permea le considerazioni e le conclusioni del Consiglio di giustizia in particolare, nonchè la dichiarata necessità che l’interesse concreto del ricorrente non venga a ricevere, nella fase cautelare, soddisfazione tale da rendere di fatto inutile la decisione nel merito, con conseguente attenuazione della garanzia della tutela giurisdizionale che si realizza appieno solo in questa seconda fase «la cui decisione viene adottata previo un analitico e motivato esame dei vari motivi di gravame» (cfr. ordinanza C.G.A. 18 maggio 1994, n. 358).

D’altra parte, quel che appare essere, in via sostanziale, l’argomento «principe» utilizzato dai sostenitori della generale sospendibilità dei provvedimenti negativi, senza condizioni che non siano quelle della sussistenza di adeguato fumus (che sempre di fumus si tratta, per quanto invasivo abbia ad essere l’esame dei motivi di ricorso) e del periculum in mora, ovvero la immanenza di detto periculum in mora, che renda improcrastinabile l’adozione della misura cautelare, in riferimento a quei provvedimenti intervenuti a negare il conseguimento o il godimento di un bene della vita, di per sè temporalmente limitato (autorizzazioni stagionali, conferimenti di incarichi scolastici, o, comunque a tempo, partecipazione a campionati sportivi, etc), non convince appieno.

Se, infatti, non può negarsi, in presenza di tali fattispecie, la sussistenza del danno grave ed irreparabile, stante l’ontologica fragilità di tali interessi, che non consentirebbe di ottenere, ora per allora, il bene rivendicato, non può altrettanto negarsi che la situazione cristallizzata dalla pronuncia cautelare ne risulterà irreversibilmente definita, in sostanziale contraddizione della necessaria affermazione, pur fatta dai fautori della sospendibilità di detti provvedimenti, «che tali misure non mettono, invero, fine alla lite cautelata, che abbisogna pur sempre della conferma definitiva della sentenza di merito» (cfr. cennata ordinanza del T.A.R. Catania, n. 722/1995).

Ed invero, ove la sentenza di merito avesse a negare la sussistenza del diritto, riconosciuto in sede cautelare, lo status quo ante non sarebbe ripristinabile. E poichè è la sentenza di merito a decidere sulla sussistenza o meno del diritto alla pretesa invocata, il diritto stesso, in sè, ne uscirebbe frustrato e sconfitto, e, con esso, la giustizia, con l’aggravante che, in non pochi casi, ad essere stato pretermesso, e per mano del giudice, sarebbe non solo l’interesse pubblico, ma anche quello del controinteressato, costretto, quanto meno, a sottoporsi, a sua volta, ad una trafila giudiziaria parallela, ove abbia a fare in tempo a percorrerne utilmente (ma comunque per secondo) i tempi, prima di vedersi sottratto il suo diritto (all’incarico, etc.), che, anche per lui, è temporalmente limitato.

Ma, a ben guardare, ciò che si vorrebbe, ma non può affermarsi, ciò che è sotteso all’intera costruzione dogmatica in esame, è la proposizione che il merito non sopraggiungerà a smentire la delibazione fatta in diritto in sede cautelare; e tuttavia, ancorchè ciò sia altamente probabile, non è codificato che accada, e ciò peraltro non tanto in forza di una diversa lettura del giudice del merito della medesima situazione, ma quanto, e proprio in quanto, nel corso del giudizio, l’Amministrazione avrà avuto modo di spiegare una difesa adeguata e, soprattutto, potendo la prima considerazione facilmente esser confutata in punto di diritto, in quanto, nel corso del giudizio, e, come accade, a ridosso della fase cautelare, interviene il controinteressato, le cui ragioni ben possono essere più valide di quelle addotte dal ricorrente, e, nel caso, non contestate dall’Amministrazione, che, con felice espressione, si è detto debba, in non pochi casi, essere necessario difendere da sè stessa, (o, per essere più espliciti, da chi la rappresenta) (10).

E quindi, ancorchè anche i provvedimenti positivi, in particolare se «restrittivi» della sfera giuridica del destinatario, ben possono incidere in maniera irreparabile sugli interessi in gioco, deve convenirsi con il fatto che, in via generale, sono quelli negativi, a prestarsi poco ad una loro paralizzazione, senza conseguenze irreversibili, in ipotesi di accoglimento della istanza di sospensione, che, appunto, dovrebbe solo sospendere gli effetti del provvedimento impugnato, senza attribuire di più di quello che la stessa sentenza potrebbe dare, non potendosi disconoscere che solo nella successiva, eventuale, fase del giudizio di ottemperanza il giudice si sostituisce all’Amministrazione.

Peraltro, il principio di presunzione di legittimità degli atti amministrativi, sul quale si fonda l’assetto stesso dello Stato-organizzazione, verrebbe ad essere in qualche modo caducato, ove si avessero a consentire, in via di fatto, effetti irreversibili alla pronuncia cautelare del giudice, ancor prima della formale delibazione, nella sede naturale del processo di merito, della loro illegittimità; effetti irreversibili, ove si tengano anche presenti tutti i possibili espedienti processuali volti a ritardare la pronuncia di merito - che già di per sè seguirebbe in tempi non brevi - così conservando e consolidando i vantaggi conseguiti nella sede cautelare.

Sicchè dovrà concludersi che, fintanto che non saranno entrati nella disponibilità del giudice della cautela quegli strumenti idonei ad equilibrare le posizioni processuali ed a far luogo a concrete misure di carattere provvisionale (11), occorrerà un ulteriore self restraint, nel senso di condizionare l’emanazione di ordinanze di sospensione di provvedimenti negativi, od anche positivi, ove anch’essi insuscettibili, per la loro natura, ad essere solo paralizzati nella loro efficacia, sia alla difesa dell’Amministrazione, che deve, quanto meno, essere stata posta in condizioni di replicare, ovvero all’assenza di espedienti, quali quello di notificare, con richieste di abbreviazioni di termini per la discussione della sospensione, artatamente il ricorso in limine, anche se sarebbe stato possibile farlo agevolmente prima, sia alla assenza di controinteressati, che, ancorchè non intimati, pure, prima facie, appaiano, al giudice della cautela, essere esistenti e, quindi, pretermessi dal giudizio, sotto il profilo sostanziale.

Ovviamente, la verifica della sussistenza di dette condizioni (positive e negative) come anche delle restanti succennate, sulla validità si è convenuto, in una alla loro refluenza sul caso di specie concretamente all’esame devono, tutte, essere demandate al prudente apprezzamento del giudice della cautela, senza possibilità di uno stretto «imbrigliamento» a monte, risultando invero del tutto irreale, oltre che contrario ai principi ed al dettato costituzionale, che al giudice naturale della lite possano essere imposte, a priori, le soluzioni da adottare, ed anche principi concreti, di dettaglio, cui attenersi, in materia così delicata e fragile, ad ampio ventaglio, che non può che veder spiegarsi il libero convincimento del giudicante, (anche di quello di appello), astretto esclusivamente dalla legge.

In breve, occorrerà far uso del principio, ancorchè residuale, del «buon senso», che sempre deve affiancare il convincimento, non risultando quante altre misure poste in astratto, ancorchè introdotte dal legislatore, in grado di tener conto, compiutamente, delle contrapposte esigenze delle parti in causa, e della ineliminabile peculiarità del processo amministrativo, che vede nell’Amministrazione pubblica, portatrice dell’interesse generale, una delle parti in causa, sì da rendere più arduo il compito del giudice (della cautela e del merito), che non deve, semplicemente, dirimere un contrasto fra privati, anticipando, se del caso, nei modi consentiti, il giudizio di merito in una controversia, nata e da definire alla stregua di norme certe e definite, solo da individuare ed applicare al caso concreto, fra soggetti predeterminati ed individuati, nonchè collocati su di un piano di assoluta parità. Nè ciò significa minimamente ipotizzare, da parte di chi scrive, alcun privilegium principis, ma solo tenersi conto di una circostanza ineludibile, in ispecie ove si sia in presenza di provvedimenti, che, pur non rientrando nella categoria degli atti politici, sottratti, ex art. 31 del T.U. Cons. Stato del 1924, al controllo giurisdizionale del giudice amministrativo, non prestandosi ad un riscontro di pura legalità, si configurino come «ordinanze di necessità» ed attengano, comunque, a decisioni (in materia, ad esempio, interessante l’igiene e la sanità pubblica, sotto il profilo, nel caso, di prevenzione di epidemie o di necessità di affrontare altre calamità, naturali e non, che impongano interventi a vista) di portata generale, che, se pur ricadenti sui singoli, e senza dubbio non sottratte al controllo giurisdizionale, pur tuttavia abbisognano di un riscontro giudiziario del tutto attento, che non può non aver presente l’interesse pubblico generale perseguito e le conseguenze degli effetti della pronuncia a rendersi, in relazione a detto interesse.

In conclusione di queste brevi note, non può non annotarsi la «frustrazione» dello stesso giudice amministrativo, che vede la sua funzione svilita, in qualche modo, dalla inutilità delle sue pronunce, a causa dell’innaturale protrarsi del tempo fra la proposizione del gravame e la (possibilità di) definizione della lite, dalla considerazione che al ricorrente spesso interessa solo ottenere risposta positiva alla domanda cautelare per poi porre «in sonno» la controversia, e, quindi, dalla amara consapevolezza di poter essere strumento di sostanziale ingiustizia. Basti pensare al contenzioso in tema di concessioni in genere, e più specificamente, di concessioni o appalti di opere pubbliche, di lottizzazioni di aree e di edilizia, di finanziamenti, e così via, a specie, cioè, che vedono in gioco rilevanti interessi economici, con possibile utilizzo di ricorsi strumentali e finalizzati al conseguimento della sospensione del provvedimento amministrativo, ma non per ottenere giustizia, bensì per utilizzare la misura cautelare, la successiva rinuncia al ricorso, o quant’altro sul piano procedurale, come mezzo di scambio per raggiungere obiettivi che poco hanno a che vedere con la giustizia, ma molto con logiche estorsive.

E ciò, per quanto difficile sia da ammettere, non può non sapere o quanto meno paventare chiunque si trovi dietro quello scranno, da cui dovrebbe discendere l’affermazione del diritto, inteso nella sua sostanzialità, e non come vuota esercitazione, e la tutela dei soli interessi legittimi e non anche di quelli sostanzialmente «illegittimi» (12).

Ed a chi avesse ad obiettare, con il giudice del «Mercante di Venezia» di Shakespeare, che non vi è alcuno che possa mutare un principio, una volta stabilito, che la legge non può essere piegata neppure per fare un grande bene, che ciò «sarebbe annotato come precedente e molti errori seguendo questo caso irromperebbero nello Stato», potrebbe ricordarsi che quello stesso giudice, senza piegare la legge, seppe trovare la soluzione del caso, imponendo sì il pagamento della libbra di carne, costituente l’oggetto della obbligazione convenuta come penale del mancato pagamento, ma avvertendo che l’obbligazione non comprendeva il versamento di una sola stilla di sangue; in tal modo rinvenendo nello stesso ordinamento il mezzo per non pronunciare una sentenza «ingiusta», senza, con questo, venir meno alla sua funzione di rispettare e far rispettare, sempre e comunque, la legge.

Ed allora, raccogliendo le fila del discorso, occorrerà rammaricarsi per l’insipienza di quanti, in attesa delle grandi riforme, che non arrivano mai, per restare solo annunciate, o che quando arrivano hanno contenuti tali da far rimpiangere il passato, non raccolgono il grido che da anni i magistrati amministrativi sollevano invano per ottenere una serie di misure, idonee a rendere più spedito il lavoro e, quindi, consentire di avvicinarsi a quell’effettività della giustizia, che non potrà che aversi con la definizione rapida dei processi, (13), tanto più rapida in presenza di accordata tutela interinale in riferimento a situazioni che tendano, per loro natura, a consolidarsi, sì da fare in modo che la produzione di effetti della misura cautelare sia estremamente limitata nel tempo, risultando tale rimedio, per così dire fisiologico, l’unico efficace (14).

E dunque, cosa si frappone, per iniziare, all’ampliamento dei poteri presidenziali, con l’attribuzione ai Presidenti delle sezioni di definire essi, con proprie ordinanze, nel caso impugnabili avanti al Collegio, le questioni in rito, quantomeno di palmare evidenza, in analogia a quanto già consentito ai Presidenti delle sezioni del contenzioso tributario dalla recente riforma del 1992; al riconoscimento allo stesso Collegio della potestà di definire immediatamente il merito, già in sede di esame della richiesta di sospensione, ove ne ricorrano i presupposti, nel caso negando o accogliendo la domanda di sospensione, in conseguenzialità alla decisione delibata sul merito, con provvedimento non impugnabile, ad efficacia limitata al tempo necessario per il deposito della sentenza emanata; alla cancellazione della causa dal ruolo, quando nessuna delle parti si presenti all’udienza fissata, ovviamente con automatica perdita di efficacia della pronuncia cautelare, nel caso emanata; sempre alla perdita automatica di efficacia della concessa sospensione, ove non venga richiesta la fissazione del merito entro sei mesi; alla possibilità di adottare, come già avviene per i processi elettorali, immediatamente il solo dispositivo, salva la successiva motivazione, che potrebbe anche essere sintetica, a meno di richiesta espressa delle parti, da aversi a termine fisso, di una più esauriente motivazione; cosa si frappone alla generalizzazione dell’obbligo a far ricorso a rimedi interni all’Amministrazione prima di poter adire la via giurisdizionale ed alla previsione di una duplice notifica dei ricorsi, all’Amministrazione ed all’Avvocatura dello Stato, o, se si preferisce, solo alla prima, con correlato e sanzionato obbligo di trasmissione del ricorso, munito di adeguata relazione sui fatti di causa, al difensore istituzionale entro i successivi cinque giorni; e cosa, infine, preclude, sul piano organizzativo, il rafforzamento delle segreterie ed il pieno utilizzo degli strumenti informatici, in raccordo con i singoli magistrati, sì da sminuire i tempi materiali di «lavorazione» di una sentenza, spesso molto maggiori per la riproduzione del fatto e dei motivi di ricorso che per la stesura della motivazione della decisione del Tribunale? Ed invero è certo che fintanto che tali, ed altre misure, di snellimento, nonchè di dissuasione dal proporre gravami temerari, non saranno adottate, e, soprattutto fino a quando il legislatore italiano, dimentico dell’insegnamento di Tacito: corruptissima repubblica plurimae leges, continuerà a macinare leggi, che solo contribuiscono ad aggrovigliare il sistema (che sistema più non è), ed indurre in tentazione, consentendo l’utilizzo surrettizio dell’una o dell’altra norma che si susseguono, si intersecano, spesso contraddicendosi, resteremo a combattere una battaglia perduta con decine di migliaia di ricorsi ed a discutere della sospendibilità o meno dei provvedimenti negativi e di quant’altro. Peraltro, ciò non potrà che ritardare una effettiva integrazione con l’Europa, ai cui sistemi processuali spesso si fa appello da più parti per sostenere una qualche tesi di cui si è portatori, e però enucleando la specifica misura che interessa dal complessivo corpo normativo del singolo Paese, in cui la medesima è inserita, ignorando che non è dato rinvenire Paese europeo, ed anche extraeuropeo, il cui sistema processuale veda, in proporzione, il numero esorbitante di controversie sottoposte in Italia al vaglio giurisdizionale ed al doppio o triplo grado, ed a ritenersi esorbitante anche, e soprattutto, in presenza sia del cennato groviglio legislativo che di tali e tante garanzie sul piano meramente procedurale, con il risultato finale di non assicurare affatto la giustizia e consentire, in particolare a chi può far conto su collegi difensivi agguerriti, una sua sostanziale elusione (15).

Non si dimentichi, infatti, che, nel sistema inglese, nel quale, in generale, il ricorso al secondo grado (Court of Appeal) o alla Camera dei Lord, per cassazione, è di fatto raro e quasi inesistente e dove gli Administrative Tribunals operano con procedure semicontenziose, le fattispecie in cui può essere adottato un provvedimento giudiziale interinale contro la Corona (il Governo), in base ad un c.detto arguable case sono del tutto scritte. Da parte sua, poi, il sistema tedesco, che pur estende il controllo giudiziario all’intero settore dell’esecutivo, con una previsione - l’art. 19, 4° comma, della legge fondamentale - in tutto simile (tranne per il riferimento unitario ai diritti) all’art. 113 della Costituzione Italiana, laddove afferma che: «Se qualcuno è leso suoi diritti dal potere pubblico, gli è aperta l’azione giurisdizionale» e colloca il centro di gravità della tutela giuridica amministrativa nei tribunali amministrativi generali, articolazioni senza ranghi superiori, dispone della possibilità di una tutela cautelare, a mezzo o dell’efficacia sospensiva automatica dell’azione (§ 80, primo comma, VwGo) o di procedimento cautelare sommario del Tribunale (§ 123, VwGo). E tuttavia, tale (ultimo) procedimento risente della più generale impostazione del sistema giudiziario tedesco, che inibisce al terzo potere di intervenire nel settore della discrezionalità dell’esecutivo, tranne poche eccezioni, trattate come tali dai Tribunali, e consente interventi legislativi sostanzialmente limitativi del momento cautelare.

Peraltro, tale sistema ha ben chiaro che uno Stato di diritto non richiede un massimo di tutela giuridica, ma una tutela giuridica «ponderata», sia in presenza di rapporto «bipolare» fra cittadino ed amministrazione, sia in presenza di rapporto «tripolare», ossia in presenza anche del terzo, controinteressato. Ed in questa esigenza di «ponderazione», si colloca la sensibilità del sistema giudiziario alla problematica «della intensità del controllo»; tema a lungo dibattuto ed elaborato, con il conseguente inserimento nell’ordinamento di singoli istituti sempre più precisamente strutturati, e però in riferimento a fattispecie concrete, più che in via dogmatica e generale.

Passando al sistema giudiziario amministrativo austriaco, racchiuso anch’esso in un unico grado, va osservato che lo stesso è concentrato in una Corte alla quale spetta il controllo di tutti gli atti amministrativi, che può, però, essere esercitato a posteriori dopo l’esaurimento dell’intero corso amministrativo, a mezzo del solo annullamento degli atti illegittimi.

Di recente, nel 1984, sono state emanate - con legge BGBI, n. 298 - delle semplificazioni, fra le quali l’attribuzione al giudice relatore (inserito nel collegio a tre) del potere di disporre in merito alla conduzione del processo anche riguardo al «riconoscimento del differimento di efficacia» degli atti amministrativi.

Peraltro, il sistema austriaco prevede (§ 36 della legge BGBI del 1952, sul quale sarebbe opportuno fare una riflessione) che, in caso di ricorsi contro l’inerzia dell’amministrazione, l’Autorità interessata, anzichè resistere al ricorso, possa emanare la decisione richiesta entro un termine prefissato, trasmettendone copia alla Corte amministrativa, che, in tal caso, archivia il procedimento.

La prassi e la norma, nei citati sistemi giudiziari e nei restanti europei, come il francese, che pur prevede l’istituto cautelare del rèfèrè (procedimenti in Camera di consiglio), ma innestato in un quadro sistematico in cui il giudice effettua un controle du bilan dei contrapposti interessi in gioco, o come lo spagnolo, nel quale l’interesse pubblico viene a trovarsi, in forza della previsione costituzionale dell’art. 103, I° comma, in posizione di supremazia, e, che prevede il deposito di una cauzione, in ipotesi di concessione della misura cautelare, concorrono, in breve, a rendere dette misure cautelari se non eccezionali, comunque non generalizzate, in quanto introdotte in relazione a distinte, ancorchè complesse fattispecie; il che non significa che tali sistemi neghino giustizia al cittadino, nè, tanto meno, che a voler negare la tutela sia chi propugni, con gli opportuni accorgimenti, un accostamento fra le legislazioni europee, peraltro dovuto ed ancora lontano nel tempo, posto che la giustizia comunitaria appare marciare indipendentemente, da sola, ancora di là da venire una qualsiasi armonizzazione in materia, solo postulata, ancorchè nei Trattati europei.

Quanto sopra per concludere che ciò che si vorrebbe, ciò che, infine, auspica chi scrive, è un sistema giudiziario in grado di garantire compiutamente il cittadino, capace di assicurare effettiva giustizia, non negandola o rendendola inutile, od anche dannosa, in ragione dei tempi della sua sopravvenienza, evitandosi, nel contempo, l’impianto ed il radicamento di un sistema processuale che, se pur nato e cresciuto per assicurare compiutezza di tutela, si rilevi invece esso strumento di ingiustizia, con il far da sponda ad ogni possibile espediente, teso ad abusare impunentemente del sistema stesso per sottrarsi, in generale, alla giustizia, o per conseguire, nel processo amministrativo, vantaggi non dovuti. E ciò a scapito dell’interesse pubblico, e dell’Amministrazione portatrice del medesimo, nei cui confronti il sindacato del giudice deve sì potersi avere, ma senza «nuocere alla libertà, che all’Amministrazione è necessaria per raggiungere i propri scopi», come ebbe già ad osservare Silvio Spaventa, in sede di inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, cui venivano affidate funzioni giurisdizionali speciali, quelle stesse, che oggi, a quanto è dato comprendere, vorrebbero addirittura abolirsi in nome di una unicità della giurisdizione, che appare, ancora una volta, una mera postulazione non ponderata. Ed infatti, a tacer d’altro, si consideri proprio il problema della sospensione dei provvedimenti amministrativi, di cui qui trattasi, la cui cognizione andrebbe devoluta al giudice ordinario, ossia sparpagliata sul territorio della Repubblica, sicchè, nel mentre oggi è solo possibile che i diversi Tribunali amministrativi decidano diversamente, regione per regione, salvo il momento unificante della pronuncia di appello, devoluta all’unico organismo centrale, ossia al Consiglio di Stato, in futuro assisteremmo ad una giungla di decisioni difformi, rivendicando ciascun singolo magistrato, od anche collegio giudicante, cui andranno affidate, in primo grado ed in quelli successivi, le singole liti, la propria piena ed autonoma giurisdizione, con conseguenze aberranti.

Ed invero, la peculiarità di una delle parti di causa, ovvero dell’Amministrazione pubblica, se non postula affatto una sua posizione privilegiata nel processo, tuttavia impone pronunce le più omogenee possibili, sì da assicurarne il corretto esercizio delle funzioni, che, al di là della singola controversia, implica sempre risoluzioni di questioni di portata più generale, che abbisognano di momenti i più possibili unificanti, tali da far sostenere, e non impropriamente, che la crisi della giustizia amministrativa non si risolve di certo aumentando il numero dei magistrati amministrativi, potendo anzi tale soluzione rilevarsi improduttiva, proprio per la maggiore possibilità di decisioni difformi l’una dall’altra in rapporto diretto al maggior numero di giudici. E ciò peraltro, non potrebbe che allontanarsi ancor più dall’Europa, che se oggi è costretta a vedere gli allevatori di alcune regioni di Italia sottratti al pagamento delle multe comunitarie per l’eccedenze nella produzione lattearia da provvedimenti cautelari emanati da alcuni tribunali amministrativi, a differenza di altri, operanti in diverse Regioni, la cui richiesta di sospensione dal pagamento non è stata invece accolta, potendo tuttavia confidare in un decisione univoca del Consiglio di Stato, domani si vedrebbe di fronte ad una miriade di decisioni, relative ai singoli allevatori, ciascuna trattata e decisa separatamente da una molteplicità di giudicanti. Nè diversamente è dato opinare, a meno che le proposte di unificazione della giurisdizione non si risolvano in una unificazione di facciata, ferme le attribuzioni già attualmente di ciascuno, e che comunque, lungi dall’essere produttiva, non farebbe altro che dar luogo a conflitti non più di giurisdizione, ma di competenza, nel mentre la soluzione più ovvia, cui non può che farsi solo cenno in questa sede, risiede nel mantenimento della separazione delle giurisdizioni, con un riparto pieno per materie e la connessa eliminazione della vetusta dicotomia fra diritti soggettivi ed interessi legittimi: in breve, con l’ampliamento delle attribuzioni del giudice naturale, unico, dell’Amministrazione, che esiste ed ha, peraltro, dimostrato di aver esperienza e competenza adeguate alla bisogna.

Ma, sul punto, il discorso in questa sede non può che arretrarsi.

In conclusione, tornando al tema che si occupa, appare da sottolinearsi come «l’incidente processuale», già previsto dall’art. 12 della L. 31 marzo 1889, n. 5992, pur restando sostanzialmente immutato nella sua configurazione normativa, richiedendosi soltanto non più l’allegazione di «gravi ragioni», ma dei «danni gravi ed irreparabili», abbia comunque percorso un cammino molto lungo.

Di certo, la sua qualificazione come «incidente» del processo amministrativo appare un residuo formale, essendo ben vero che il «giudizio» cautelare, insieme a quello di ottemperanza, alfa ed omega del processo, contribuiscono in magna pars alla effettività della giustizia amministrativa, ne costituiscono le parti vitali, in quanto tali da curare ed irrobustire sempre più, avendo comunque sempre presente i limiti oggettivi derivanti dalla peculiare natura del processo nel quale sono innestati, che, come si è cercato di evidenziare lungo l’intera trattazione, non può comunque essere obliterata, fermo il diritto inalienabile del cittadino a pretendere ed ottenere giustizia nei confronti del Potere.

 

* * *

(1) L’ampliamento dei limiti della tutela cautelare nel processo amministrativo segna i suoi momenti più significativi nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 1 giugno 1983, n. 14, secondo la quale l’effettività della tutela interinale può essere assicurata anche con strumenti diversi dalla sospensione dell’atto, e nella sentenza della Corte Costituzionale 28 giugno 1985, n. 190, che ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 21 della L. n. 1034/71, nella parte in cui non prevede che il giudice possa adottare - nelle controversie di pubblico impiego - i provvedimenti di urgenza più idonei a garantire in via provvisoria gli effetti della decisione in merito.

(2) L’ordinanza dopo aver operato una pregevole ricostruzione storica dell’istituto ed aver dato conto della sua evoluzione, dottrinaria e giurisprudenziale, nell’assunto che le decisioni del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, unico giudice di appello delle pronunce giurisdizionali rese dal T.A.R. Sicilia, nel riformare sistematicamente le ordinanze di sospensione dei provvedimenti negativi, adottate in prime cure, assumano connotazioni di «diritto vivente», ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità dell’art. 21, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, «nella parte in cui non prevede espressamente il potere del giudice amministrativo di sospendere i provvedimenti negativi ed i silenzi rifiuti dell’Amministrazione con ordinanze cautelari propulsive...».

(3) La Corte Costituzionale, con sentenza 1 febbraio 1982, n. 8, ha statuito che l’art. 125 Cost. sancisce il doppio grado per la giurisdizione dei Tribunali amministrativi regionali in genere, ossia non solo per il processo di merito, ma anche per quello cautelare.

La sentenza è stata resa in sede di remissione da parte dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato della questione se il divieto di appello delle ordinanze cautelari, introdotto dall’art. 5, ultimo comma, della L. 3 gennaio 1978, n. 1 (relativa all’accelerazione delle procedure in materia di opere pubbliche e impianti industriali), riguardasse tutte le ordinanze dei TT.AA.RR., o solo quelle concernenti la materia regolata dalla legge.

In precedenza si era ritenuta, da una parte della giurisprudenza, la non appellabilità delle ordinanze cautelari, nella considerazione che l’art. 28 della L. T.A.R. 1971 prevede l’appello solo contro «le sentenze». In tali sensi, peraltro, la volontà inequivoca del legislatore, ove si consideri che un emendamento presentato in Senato per consentire l’appellabilità anche delle ordinanze cautelari era stato lasciato cadere.

In via generale, va comunque rilevata la inesistenza nell’ordinamento vigente di un principio che imponga sempre e comunque il doppio grado; la stessa Corte Costituzionale ha, peraltro, più volte ammesso che l’istituto (del doppio grado) non ha di per sè rilevanza costituzionale, nè rientra fra le garanzie di difesa tutelare dell’art. 24 Cost. (cfr. C.C. n. 78 del 1994; n. 433 del 1990; n. 543 del 1989; n. 80 del 1988; n. 301 del 1986).

(4) Quanto meno fino al 1965, come si ricava dalla relazione del Consiglio di Stato al Presidente del Consiglio dei Ministri per il quadriennio 1961/1965, «la sospensione non è stata mai accordata nel caso di provvedimenti negativi, dal momento che essi non producono effetti innovativi... nè è stata accordata quanto l’atto impugnato risultava già completamente eseguito».

(5) Con sentenze n. 419 dell’8 settembre 1995 e n. 435 del 15 settembre 1995, la Corte Costituzionale ha risolto il conflitto di attribuzione sollevato rispettivamente, nei due ricorsi proposti, del T.A.R. Lazio e del Consiglio di Stato, statuendo che tutti i soggetti di diritto, ivi compresi gli organi di rilevanza costituzionale, sono egualmente tenuti al rispetto della legge, senza potersi sottrarre al sindacato giurisdizionale ed al rispetto della pronuncia resa dal giudice, che esprime «la volontà concreta della legge, o più esattamente, la normativa per il caso concreto», che va assicurata con ogni mezzo posto a disposizione dell’ordinamento, con la conseguenza che «spetta al T.A.R. del Lazio, in sede di attività esecutiva di pronunce giurisdizionali» (n. 419/95) e «spetta al Consiglio di Stato, in sede di giudizio di ottemperanza del giudicato» (n. 435/95) il potere di emettere, nell’esercizio di una giurisdizione anche di merito, «ordini nei confronti del Consiglio Superiore della Magistratura e di disporre, in caso di inottemperanza, la sostituzione attraverso la nomina di un commissario ad acta, pur se questo commissario sia nominato nella personale Vice Presidente del medesimo Consiglio Superiore».

(6) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, sentenze 30 marzo 1994, n. 194 e 8 luglio 1995, n. 1034.

(7) Cfr. C.G.A., sentenza 26 aprile 1996, n. 111.

(8) Cfr. T.A.R. Sicilia, Sezione seconda, 30 marzo 1996, n. 376 che ha statuito come, in ipotesi di accertato vizio formale del provvedimento di controllo, cui è conseguito il suo annullamento in sede giurisdizionale, resta fermo il potere-dovere dell’Amministrazione di rivalutare l’atto annullato dall’organo di controllo con il provvedimento esaminato in giudizio, che, ancorchè adottato in carenza di potere o altrimenti viziato sotto il profilo formale, «resta tuttavia come fatto storico ed atto caratterizzato da un suo specifico contenuto (cfr. in proposito, per i principi che se ne possono ricavare, Corte Costituzionale, sentenza n. 216 del 19 aprile 1990, ancorchè attinente alla diversa fattispecie dell’abrogazione e della cessazione degli effetti delle norme di legge), come tale idoneo ad imporre all’Amministrazione, nel rispetto dell’art. 97 della Costituzione, il riesame del proprio deliberato e la adozione, in autotutela, dei provvedimenti ritenuti dovuti, quali che abbiano ad essere».

(9) Cfr. C.G.A., ordinanza n. 358 del 18 maggio 1994, che annulla l’ordinanza del T.A.R. Sicilia, Sezione staccata di Catania, n. 503/1994, precisando i limiti che il giudice amministrativo incontra in materia di sospensione degli atti negativi e del silenzio rifiuto, così provocando la successiva remissione alla Corte costituzionale della questione di che trattasi da parte della cennata Sezione.

(10) Valga, al proposito, l’ironica, e amara, conclusione di G. Caccioppoli, Interessi legittimi e risarcimento dei danni, in Diritto e processo, scritti vari di diritto pubblico, Padova, 1978, 115, secondo cui «il processo amministrativo si presenta come un giudizio che permette di approfittare degli errori dell’amministrazione», laddove «l’interesse del singolo consiste nella violazione della legalità da parte dei funzionari»; violazione, peraltro, che può essere consapevole o inconsapevole, meditata o premeditata, voluta o non voluta, per una od altra ragione.

(11) La questione non è di facile soluzione, basti pensare che giustamente si è osservato come la previsione di una cauzione o di una provvisionale, talvolta introdotta dal legislatore (cfr. art. 8 L. 27 maggio 1975, n. 166), si appalesi misura inadeguata nel giudizio amministrativo, laddove si consideri che il cittadino che adisce il giudice non può ritenersi appagato da una misura sostitutiva, comunque non in grado di assicurargli ciò che ritiene essere suo diritto, (privandolo, comunque, dell’abitazione, etc.) per la cui conservazione, e non per altro, ha proposto il ricorso.

Sul punto, cfr. Giallombardo, L’apporto della giurisprudenza dei T.A.R. all’evoluzione del processo cautelare, nel Volume «Studi per il centenario della quarta edizione»).

Restano salvi, ovviamente, i casi in cui detta misura sia adottata in materie in cui la pretesa stessa sia di carattere economico e, quindi, la misura provvisionale si rilevi idonea a meglio cautelare il cittadino «che ha ragione».

(12) Già Cannada Bartoli, Interesse, in Enc. Dir. XXII, Milano, 1972, faceva rilevare come «non possono reputarsi legittimi... quegli interessi che contrastano con la normativa sulla legittimità e per i quali sembra appropriata la qualifica di interessi legittimi». Peraltro, la giurisprudenza ha recepito da tempo l’assunto, rifiutandosi di offrire loro tutela.

(13) Al riguardo, valga quanto concordato da Virga alla prima commissione permanente affari costituzionali della Camera dei deputati, nell’ottobre 1994, in sede di audizione sullo stato della giustizia amministrativa: Justice delayed is justice denied, e la felice integrazione di Giacchetti, La crisi di effettività della giustizia amministrativa, Relazione al convegno di Messina dell’aprile 1988, che annota come «la giustizia ritardata è una peggio giustizia negata; anzi è una giustizia inutile, il che è ancora peggio: perchè l’inutilità nega la stessa necessità logica dell’esistenza di una giustizia».

(14) Si è tentato, in più occasioni, di apporre limiti legislativi alla durata di efficacia delle sospensioni disposte dal giudice amministrativo, in presenza di particolari categorie di atti e di rilevate esigenze, che talvolta hanno superato anche il vaglio di costituzionalità, come nel caso del comma 4 dell’art. 5 della già ricordata legge 3 gennaio 1978, n. 1, che fissa in sei mesi l’efficacia delle ordinanze di sospensione di provvedimenti in materia di esecuzione di opere pubbliche, (estesa, poi, anche agli impianti per lo smaltimento dei rifiuti e per la bonifica delle aree inquinate) o contenute in decreti legge, come nel caso dell’art. 23 sexies del D.L. 27 febbraio 1982, n. 57, più volte reiterato e poi decaduto, che fissava in due mesi l’efficacia dei provvedimenti di sospensione incidenti su interventi preordinati all’esecuzione del programma di ricostruzione delle zone terremotate in Campania e Basilicata, di cui alla legge n. 219/81, si appalesano, per un verso (basti pensare che il T.A.R. Campania ha sempre reiterato, dopo il primo bimestre, la accordata sospensione, salvo il mutamento della situazione in fatto o in diritto) inidonee alla bisogna e, per altro verso, dirompenti del sistema di tutela cautelare delle posizioni giuridiche soggettive del cittadino (in proposito, cfr. Giallombardo, op. cit. sub 11).

(15) Il carico di lavoro dei TT.AA.RR. è stimato, ad oggi, sui 110.000 ricorsi l’anno, avendo come base di partenza i 15.000 annui stimati in sede di loro istituzione nel 1971, in riferimento ai quali venne modellato l’organico. L’arretrato ammonta a circa 800.000 ricorsi.

Il numero delle leggi amministrative italiane è di oltre 30-40 volte superiore a quello dei restanti Paesi europei.

Il numero dei magistrati amministrativi italiani è nettamente inferiore a quello dei restanti Paesi europei; basti pensare che in Germania sono 2600, sette volte più dei nostri, con un carico di lavoro pari alla metà di quello italiano, e non superiore per qualità, poste che circa il quaranta per cento dei ricorso della Repubblica Federale Tedesca riguarda il diritto di asilo, ovvero una fattispecie del tutto tipizzata.