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Articoli e note
n. 5-2002.

GIOVANNI CIARAVINO
(Cultore di diritto amministrativo
nell’Università di Palermo)

Gli effetti della mancanza dei termini nella dichiarazione di p.u. ex art. 13 L. 2359/1865 e la pregiudiziale amministrativa nel giudizio di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2.1. Il problema della mancanza dei termini nella dichiarazione di p.u.: le posizioni del G. O. e del G.A. 2.2. Valutazioni. 3.1. La necessità del preventivo annullamento del provvedimento amministrativo ai fini del risarcimento del danno per lesione di un interesse legittimo:i  presupposti nella sentenza. 3.2. Altri presupposti. 3.3. Possibili critiche. 3.3.1. Il dato letterale. 3.3.2. Il dato strutturale. 3.3.3. I casi pratici e l’art. 13 L. 142/1992. 3.4 Conclusioni.

 

1. Introduzione.

La problematica della c.d. “pregiudiziale amministrativa” è stata, ed è, oggetto di ampio dibattito in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza, soprattutto dopo gli interventi recenti del legislatore in tema di giurisdizione (D.Lgs. n. 80/98 e L. n. 205/2000) e dopo la sentenza n. 500/99 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione [1].

Con la recente ordinanza n. 2046 del 6 maggio 2002 della Sez. V del Consiglio di Stato, la questione è stata rimessa all’Adunanza Plenaria, sulla scia di analoga rimessione del C.G.A. (ordinanza n. 588 del 15 novembre 2001).

La questione è stata ancora sottoposta al C.G.A. in sede di appello avverso la sentenza del T.A.R.S. – Palermo – Sez. I, n. 3548/2000, la quale offre spunto, peraltro, per riflessioni riguardanti non solo la pregiudiziale amministrativa, ma anche un altro interessante problema: quello della figura sintomatica che si produce allorquando manchino i termini nella dichiarazione di p.u. ex art. 13 L. 2359/1865.

Prendendo le mosse dalla sentenza in questione, che verrà usata come riferimento, pare utile soffermarsi su entrambe le questioni da essa toccate. In questo scritto, dunque, si tratterà, in primo luogo, del valore dei termini della dichiarazione di p.u. (rectius: degli effetti della mancanza di tali termini sul potere della P.A.), ed in secondo luogo, della necessità del previo annullamento del provvedimento illegittimo ai fini del risarcimento del danno.

 

2.1. Il problema della mancanza dei termini nella dichiarazione di p.u.: le posizioni del G. O. e del G.A.

Nell’affrontare la prima questione, è opportuno, innanzitutto, richiamare le posizioni della giurisprudenza ordinaria ed amministrativa

Ovviamente in questa analisi si prescinderà dalla diversa questione se, in alcune ipotesi, possa ritenersi o meno sussistente la mancanza dei termini: problematica questa che ha assunto notevole rilievo dopo la legge n. 1 del 1978, con la quale veniva generalizzata la dichiarazione di p.u. implicita; qui, infatti, si tratterà degli effetti di tale mancanza, non di quando essa mancanza vada ritenuta sussistente o meno [2].

Così definito il problema, occorre, prima di affrontarlo, ricordare la norma che a tale problema presiede: l’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, infatti, dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità debba contenere anche i termini di inizio e fine dell’espropriazione ed i termini di inizio e fine dei lavori; inoltre, tale norma, nel terzo comma, stabilisce che “trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilità diventa inefficace”.

La portata della norma in esame - e, se vogliamo, di tutte quelle che riguardano la dichiarazione di p.u. - non può, però, essere appieno compresa se non si fa riferimento anche alle norme della Costituzione riguardanti l’espropriazione e, più specificamente, all’art. 42 che subordina l’esproprio alla sussistenza di un interesse generale che giustifichi l’eliminazione, dal patrimonio giuridico di un soggetto, del diritto soggettivo per eccellenza: il diritto di proprietà [3].

L’interesse pubblico è, dunque, presupposto di legittimità dell’esercizio del potere espropriativo: ove il primo mancasse, mancherebbe anche il secondo.

Nell’ambito di questo rapporto “interesse – potere”, è sorta la problematica dell’inserimento e, quindi, del valore della dichiarazione di p.u.

Certamente, può affermarsi che dopo l’entrata in vigore della Costituzione l’intera disciplina relativa alla dichiarazione di p.u. ha assunto rilievo costituzionale, in quanto essa serve a determinare e dichiarare l’esistenza di quel pubblico interesse necessario alla legittimità del procedimento di esproprio.

Ma - ci si è chiesti - è possibile avere un procedimento espropriativo senza dichiarazione di pubblica utilità o essa è sempre e comunque necessaria? In buona sostanza, la dichiarazione di p.u. serve a far nascere in capo alla p.a. il potere di espropriare o esso viene dato alla p.a. direttamente dalla legge? La risposta a tale quesito non è rilevante solo ai fini della determinazione degli effetti della mancanza dell’intera dichiarazione di p.u., ma anche per verificare quali possano essere gli effetti della mancanza, in tale dichiarazione, dei termini in esame.

Non si vuole in questa sede andare a coinvolgere i massimi sistemi del nostro ordinamento, anche se quasi non se ne può fare a meno, considerato che da una norma costituzionale di rilevante importanza si è partiti, ma, certamente, la risposta al quesito va di pari passo con la ricostruzione che si ritiene il legislatore costituzionale abbia dato e, soprattutto, dia del diritto di proprietà posto in relazione ad un interesse pubblico.

Difatti, se si reputa che la proprietà privata sia sì assoggettabile all’interesse generale ma solo in via eccezionale, quando cioè di tale interesse si sia data piena, concreta ed efficace prova di esistenza, allora si dovrà ritenere che il potere di esproprio, che vanta la p.a. nei confronti dei soggetti privati, ad essa appartiene solo ove vi sia la dichiarazione di p.u.: “ questa soltanto, definendo il contenuto, la funzione e l’oggetto del potere, lo costituisce, ossia rende effettivo ciò che prima di tale momento rappresenta solo una facoltà astratta della P.A.” [4].

Viceversa, ove si opinasse che la proprietà privata ha, tra i suoi molteplici caratteri, anche quello della assoggettabilità all’esproprio, ciò renderebbe la P.A. legittimamente capace di esercitare il potere di espropriazione sulla base della semplice previsione di legge. La dichiarazione di p.u., avrebbe, in questo caso, la funzione di creare le condizioni procedimentali – almeno una di esse - necessarie all’esercizio di tale potere, in astratto già attribuito dalla legge alla P.A. in riferimento a categorie generali di beni.

Da ciò discende che - ove la dichiarazione, effettivamente, non vi sia - se si accogliesse la prima tesi avremmo un’ipotesi di carenza di potere [5]; se si accogliesse la seconda tesi, avremmo, invece, un semplice cattivo esercizio del potere conferito alla P.A. [6]

Andando ancora più in là: se si accogliesse la seconda tesi il problema degli effetti della mancanza dei termini nella dichiarazione di p.u. neanche si porrebbe, in quanto sarebbe risolto alla radice. E’ evidente, infatti, che, se nemmeno la totale mancanza della dichiarazione di p.u. comporta una carenza del potere espropriativo della P.A., non si vede come tale carenza possa essere causata dalla semplice mancanza dei termini, in quanto quest’ultima determinerebbe una semplice violazione di legge.

Detto tutto ciò, va chiarito che il giudice ordinario è fermamente convinto della prima tesi ( potere espropriativo quale limite eccezionale alla proprietà - mancanza della dichiarazione di p.u. – carenza di potere ), mentre il giudice amministrativo della seconda ( potere espropriativo immanente alla proprietà - mancanza della dichiarazione di p.u. – cattivo esercizio del potere ).

Tralasciando qui, non essendo questa la sede più opportuna, eventuali valutazioni di carattere costituzionale, va sottolineato come vi siano stati, nel corso degli anni, sia nell’attività di legiferazione ordinaria che nell’evoluzione giurisprudenziale costituzionale ampi segnali di propensione per la prima tesi.

Va ricordata, innanzitutto, la legge 3 gennaio 1978 n. 1 che ha disposto che l’approvazione dei progetti di oo.pp. da parte dell’autorità amministrativa competente equivale a dichiarazione di p.u. e di indifferibilità e urgenza delle opere stesse, introducendo, in sostanza, una dichiarazione implicita di p.u.: ciò costituisce un rilevante indizio della consapevolezza della necessità della dichiarazione di p.u., non solo ai fini della legittimità dell’atto ablativo, ma anche della stessa esistenza del potere di espropriazione della P.A., visto, dunque, come eccezionale, rispetto al diritto di proprietà [7].

Dello stesso avviso è anche la Corte Costituzionale che qualifica come legittimo, sul piano costituzionale, un modo di acquisto della proprietà come quello dell’occupazione acquisitiva. Tuttavia, per ciò che interessa, la Corte rileva come l'esistenza di una dichiarazione di p.u. dell'opera debba ritenersi presupposto indefettibile per la realizzazione della fattispecie in questione; senza tale dichiarazione, dunque, non esiste potere, legittimo o illegittimo, della P.A., di talché ove si procedesse – in assenza della dichiarazione di p.u. -  ad apprensione e trasformazione del bene, la P.A. andrebbe soggetta alle normali azioni reipetitorie del proprietario ingiustamente spogliato [8].

Stabilito, dunque, il carattere eccezionale dell’attività ablatoria della proprietà da parte della P.A., quid juris nell’ipotesi della mancanza dei termini previsti dall’art. 13, L 2359/1865?

Anche qui le opinioni divergono.

Per dare risposta a tale quesito, infatti, occorre chiedersi se la previsione da parte del legislatore dei termini nella dichiarazione di p.u. abbia o meno un rilievo costituzionale.

Atteso che, sul piano della patologia amministrativa, una cosa è, ovviamente, la mancanza ab origine, o successiva per annullamento, della dichiarazione di p.u., altro è la mancanza di qualche elemento in una dichiarazione comunque esistente: ci si chiede, in sostanza, se i termini non assumano, nelle intenzioni del legislatore, una valenza superiore a quella di mero elemento della dichiarazione stessa.

Su questo piano si è mossa, invero, la Corte Costituzionale [9]: essa, infatti, ha collegato la previsione normativa dei termini della dichiarazione di p.u. al principio per cui la proprietà privata è passibile di espropriazione solo per motivi di interesse generale.

In buona sostanza, si afferma che, al fine di giustificare il sacrificio della proprietà privata, non basta la determinazione dell’esistenza di un pubblico interesse, sì da rendere indispensabile, per il suo soddisfacimento, l’espropriazione, ma occorre, altresì, assicurare che detto sacrificio sia tempestivo e non temporalmente incerto, ed a ciò sovrintendono i termini previsti dall’art. 13 L. 2359/1865.

Ne consegue che non vi è possibilità di procedere all’espropriazione quand’anche mancasse il solo carattere della tempestività, quando, cioè, il trasferimento coattivo si fondasse sì su un pubblico interesse specifico, ma privo, per la mancanza nella dichiarazione di p.u. dei termini, di attualità e concretezza.

Da ciò la giurisprudenza, ordinaria soprattutto, ha tratto la regola per cui la mancanza dei termini comporta la giuridica inesistenza della dichiarazione e, perciò, l’agire senza potere della P.A., della quale si dovrà, dunque, giudicare un comportamento e non un provvedimento.

In definitiva, quando mancano i termini la P.A. agisce in carenza di potere, con la conseguenza che non si ha alcun affievolimento del diritto di proprietà, e che, perciò, la richiesta di risarcimento del danno potrà essere avanzata dal proprietario, che ha subito la lesione, senza la necessità di alcuna previa impugnazione della dichiarazione di p.u. stessa, mentre, ai fini del procedimento ablatorio, esso non potrà concludersi né con un provvedimento di esproprio, né tantomeno con l’occupazione acquisitiva.

Di diverso avviso è, peraltro, il Consiglio di Stato che, viceversa, ritiene i termini in parola un elemento necessario alla legittimità dell’atto, e, cioè, al legittimo esercizio del potere espropriativo della P.A. [10]

Di conseguenza, la loro mancanza produce un cattivo esercizio del potere, per cui il proprietario dovrà procedere a previa impugnazione della dichiarazione di p.u. viziata, sia ai fini della richiesta di risarcimento del danno, sia al fine di non consentire alla P.A. di concludere il procedimento ablatorio o con un decreto di esproprio, o, male che vada, con l’occupazione acquisitiva.

 

2.2. Valutazioni.

Orbene, appare più rispondente ai principi del nostro ordinamento la tesi sostenuta dalla giurisprudenza ordinaria.

Invero, è innegabile, sulla scia di quanto affermato dalla Corte Costituzionale, che i termini previsti dall’art. 13 L. 2359/1865 difficilmente possano essere considerati alla stessa stregua di normali termini procedimentali.

L’incisione del potere ablatorio della P.A. sulla proprietà privata, infatti, è da considerare un elemento di carattere eccezionale nella esistenza fisiologica di tale diritto.

Invero, il diritto di proprietà soffre numerose limitazioni nell’ambito del suo esercizio, sia di carattere privatistico (ad es. : divieto di immissioni) sia di carattere pubblicistico (la capacità edificatoria subordinata ad atti amministrativi), sia di carattere particolare sia di carattere generale; purtuttavia, esse sono limitate, appunto, all’area dell’esercizio del diritto: ciò sembrerebbe significare che ogni intervento del legislatore relativo al diritto di proprietà (che è - dà conto qui ricordare – un diritto assoluto) ha, come fine ultimo, quello di renderlo sostanzialmente compatibile con altri diritti ed interessi che potranno, di volta in volta, essere privati o pubblici.

Se trasferiamo il discorso alla fattispecie espropriativa non siamo più, però, in un ambito relativo alle forme ed ai limiti dell’esercizio del diritto di proprietà, ma ci muoviamo nel campo della stessa esistenza di tale diritto.

Ora, se per ciò che riguarda l’esercizio il legislatore può, ne cives ad arma ruant, intervenire come “meglio” crede, altro discorso è se egli debba determinare ipotesi di cessazione del diritto stesso.

Occorre, infatti, per giustificare giuridicamente una tale possibilità, che essa sia, come è, almeno prevista nell’ambito dei valori costituzionali, in modo da far sì che l’eccezione (l’espropriazione) abbia lo stesso valore della regola (l’assolutezza del diritto di proprietà). Tutto ciò, però, non deve far dimenticare che la regola è, pur sempre, l’intangibilità della proprietà ( diritto opponibile erga omnes, anche, quindi, alla P.A.), e che l’espropriazione è l’eccezione.

Detto questo, si capisce anche come sia difficile non essere d’accordo con chi sostiene la necessità della presenza della dichiarazione di p.u. nel procedimento espropriativo al fine di far nascere, attraverso la determinazione della presenza dell’interesse generale, il potere ablatorio in capo alla P.A.

E si capisce, anche, come la previsione dei termini nella dichiarazione di p.u. abbia un rilievo ben maggiore che se li considerassimo semplici termini procedurali come altri. Questi termini sono lì posti a “ricordarci” che non solo il pubblico interesse deve essere presente perché si possa togliere ad un individuo la proprietà, ma anche che tale fenomeno è tollerato dal legislatore se ed in quanto esso sia tempestivo e temporalmente certo: invero, un interesse generale affermato ma non dimensionato temporalmente non riesce a prendere forma concreta , rimane astratto, non acquisisce contorni definiti e, in ultima analisi, non è atto a giustificare un procedimento ablatorio per il quale, viceversa, si richiede un pubblico interesse individuato e concreto [11].

Per intendere che quanto si viene affermando abbia solide fondamenta basta porre mente a quelle che possono essere le ipotesi concrete di espropriazione: la realizzazione di una scuola, di un ospedale, di complessi edilizi, etc.

In tutti questi casi, infatti, si rileva come, accanto alla determinazione di un pubblico interesse, si avverta, latente ma chiara, l’esigenza di concretizzare temporalmente tale interesse della P.A. (alla realizzazione, ad es., di una scuola). L’invocazione di un interesse pubblico al fine di giustificare un’espropriazione in tanto ha senso in quanto esso sia soddisfatto in maniera tempestiva, temporalmente congrua alle esigenze generali di cui esso è espressione (nell’esempio della scuola essa deve essere realizzata perché in quella zona ve ne è la necessità, ma deve essere realizzata entro un termine congruo all’esigenza, altrimenti una realizzazione purchessia, magari a distanza di svariati anni, potrebbe non costituire affatto un soddisfacimento del pubblico interesse; anzi, gravando sulle casse della P.A., potrebbe avere come unico effetto di nuocere alla stessa).

In conclusione appare sostenibile che il potere espropriativo della P.A. nasca non solo dalla determinazione del pubblico interesse, ma anche dalla congruità temporale della sua realizzazione.

In ultima analisi, da ciò che precede, si ritiene di poter trarre, come logica conseguenza, che la mancanza dei termini previsti dall’art. 13 L. 2359/1865 determina necessariamente una ipotesi di carenza di potere, al verificarsi della quale verrà, da un lato, ricollegato il non compiersi della vicenda espropriativa (neanche a livello di occupazione acquisitiva), e, dall’altro, la possibilità di richiedere il risarcimento del danno subito senza necessità di richiedere l’annullamento di un atto, peraltro, assunto appunto in carenza del relativo potere..

 

3.1. La necessità del preventivo annullamento del provvedimento amministrativo ai fini del risarcimento del danno per lesione di un interesse legittimo: i presupposti nella sentenza.

Il secondo problema, su cui merita soffermare l’attenzione, è quello relativo alla necessaria preventiva impugnazione e successivo annullamento del provvedimento lesivo al fine di richiedere il risarcimento del danno alla P.A.

Anche per tale problematica pare opportuno prendere come punto di partenza la sentenza n. 3548/2000 del TAR Palermo, per poi ampliare il discorso [12].

La sentenza in questione sul punto così statuisce: “Ed invero, tutte le norme che hanno condotto all’ampliamento della giurisdizione del giudice amministrativo alla tutela risarcitoria – a partire dall’art. 11, co. 4, lett. G) della L. 15/03/1997, n. 59, agli artt. 7, co. 3, della L. n. 1034/1971, nel testo introdotto dal “nuovo” art. 35, co. 4, D.Lgs. n. 80/1998, e 35, co. 1 del D.Lgs. n. 80/1998, nel testo introdotto dall’art. 7 L. n. 205/2000 – sembrano confermare la tradizionale opinione secondo la quale la tematica del risarcimento del danno ingiusto è ricompresa nel novero dei diritti patrimoniali conseguenziali, ai quali tradizionalmente si attribuisce la caratteristica di discendere, quale conseguenza ulteriore dall’illegittimità dell’atto, accertata dal giudice amministrativo”.

Come ben si vede, il punto centrale dell’affermazione della preventiva necessaria impugnativa dell’atto lesivo è il dato testuale delle norme che ampliano la giurisdizione amministrativa; più specificamente, la risultante delle tante norme incrociatesi negli ultimi due anni, che hanno sostanzialmente modificato l’art. 7 L. 1034/1971, che così equipara, nel farlo rientrare nella giurisdizione del G.A., il diritto al risarcimento del danno agli altri diritti patrimoniali conseguenziali.

Ora, ritiene la giurisprudenza amministrativa (e parte della dottrina), che tale equiparazione, intendendosi per diritti patrimoniali consequenziali quelli che discendono, “quale conseguenza ulteriore, dall’illegittimità dell’atto, accertata dal giudice amministrativo”, comporti, ipso facto, la necessità dell’annullamento del provvedimento prima di poter richiedere il ristoro della situazione soggettiva lesa.

Il sillogismo è semplice: il diritto al risarcimento del danno rientra nel novero dei diritti patrimoniali consequenziali; i diritti patrimoniali sono chiamati consequenziali perché discendono dalla accertata illegittimità, e, dunque, dall’annullamento, del provvedimento lesivo; pertanto, anche il diritto al risarcimento può essere soddisfatto solo dopo l’annullamento del provvedimento [13].

Il Tribunale, di poi, richiama anche l’art. 35, co. 1 del D.Lgs. n. 80/98, sostenendo che detto articolo, “con esplicito riferimento alle materie di giurisdizione esclusiva, utilizza una espressione avulsa dalla tematica dei diritti patrimoniali consequenziali ed apparentemente idonea a radicare una ipotesi di tutela risarcitoria autonoma – trova la sua giustificazione nella possibilità dell’introduzione di autonome controversie risarcitorie per violazione di diritti soggettivi e/o a fronte di meri comportamenti della P.A. (cfr. art. 34 D.Lgs. n. 80/98)”.

 

3.2. Altri presupposti.

Quelli segnalati dal TAR Palermo non sono, però, gli unici elementi su cui si fonda la teoria del previo annullamento. Appare opportuno, quindi, prima di sottoporre ad analisi critica tale teoria, procedere alla disamina di tali ulteriori presupposti.

Il primo elemento è ancora una volta testuale, gli altri, invece, vengono ritrovati nell’ambito della stessa struttura del processo amministrativo.

Per ciò che riguarda il dato letterale si fa qui riferimento specifico al citato art. 35 D.Lgs. n. 80/98, che dispone l’abrogazione dell’art. 13 L. n. 142/92 e di “ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi”; da tale previsione normativa, infatti, la dottrina e la giurisprudenza deducono che il legislatore abbia voluto, nel trasferire tutto alla competenza del G.A., legare la domanda risarcitoria all’annullamento. [14]

Per ciò che, invece, riguarda i presupposti “strutturali”, essi sono indicati ed analizzati nelle successive sentenze già più volte citate [15], ed in particolar mondo in quella del T.A.R. Campania n. 1651/2001, in cui l’argomento viene esaustivamente trattato [16].

Pare opportuno, quindi, richiamare un ampio stralcio di tale provvedimento.

In tale sentenza invero si afferma: “La situazione soggettiva di interesse legittimo trova la sua soddisfazione principale e naturale attraverso la sentenza di annullamento e la successiva attività conformativa. La sua tutela non può però ottenersi che nei modi e nei tempi di sviluppo della funzione, sia nella fase procedimentale che processuale.

Rimane pertanto la necessità di rispettare i termini brevi compatibili da un lato con il buon andamento della pubblica amministrazione, con il principio di continuità e di celerità dell’agere amministrativo, e dall’altro con il risarcimento in forma specifica come forma di riparazione primaria in grado di soddisfare l’interesse pubblico, che qualifica comunque la vicenda complessiva.

La verifica incidentale a distanza di tempo, nell’ambito del decorso del termine di prescrizione quinquennale del termine per la domanda di risarcimento dei danni, non può trovare ingresso nel nostro ordinamento anche per la ragione che altrimenti si eluderebbe il principio della perentorietà del termine per impugnare, che deve pure avere una sua spiegazione logica e giuridica, e cioè che le situazioni create dall’atto, pur illegittimo, devono avere, per effetto del decorso di un congruo termine, e in base ai principi di continuità, celerità, efficacia e efficienza (art. 1 L. 241/90), un loro consolidamento tendenzialmente definitivo (definitivo però non in assoluto, perché residua, come noto, il potere di autotutela).

L’attività amministrativa è caratterizzata dai requisiti della esecutorietà, della impugnabilità a pena di decadenza e pertanto della inoppugnabilità, del principio di presunzione di legittimità dell’attività, tutti espressione della ritenuta necessità che non restino né incerte né pregiudicabili le determinazioni assunte, in tesi e in linea di principio, nell’interesse della collettività.

Poiché la L. 205/2000 ha inserito l’azione di risarcimento nel quadro tradizionale della giurisdizione amministrativa, il legislatore ha implicitamente, ma chiaramente, confermato i principi cui tale giurisdizione si conformava e, quindi, in primo luogo, la regola della pregiudizialità”. [17] 

Il Tribunale, in sostanza, ritiene principio connaturato al giudizio amministrativo che esso verta, in primo luogo, sulla impugnazione e richiesta di annullamento di un atto amministrativo: il petitum, cioè, non può che essere, almeno in prima battuta, che la caducazione di un provvedimento.

In conclusione, il ragionamento del TAR campano è questo: l’inserimento nel processo amministrativo dell’azione risarcitoria comporta l’applicazione ad essa dei principi dello stesso; ove ciò non accadesse, non si rispetterebbe più quella che è la struttura e la funzione del processo medesimo.

Ora tali principi, che nascono, come giustamente rilevato in sentenza, anche dal necessario rispetto dei principi regolanti l’attività amministrativa (il principio costituzionale del buon andamento, nonché il principio di continuità e di celerità dell’agere amministrativo; il principio di esecutorietà degli atti amministrativi, il principio della presunzione di legittimità dell’attività amministrativa stessa) a grandi linee, sono: a) un breve termine di decadenza per la proposizione dell’azione; b) l’atto come “oggetto unico” del processo; c) l’annullamento come unico petitum generale [18].

Se così non fosse - si paventa - si correrebbe il rischio di elusione del termine di impugnazione da parte di un soggetto che, non avendo proceduto nei previsti termini per l’annullamento di un provvedimento lesivo, venga, poi, ad agire per il ristoro del danno che il provvedimento medesimo gli abbia prodotto: così facendo, si renderebbero precarie quelle situazioni che, create da un atto ancorché illegittimo, devono tuttavia consolidarsi in maniera “tendenzialmente” definitiva [19].

A ciò si aggiunga, infine, che, secondo il prevalente orientamento, il G.A. è sprovvisto di quel potere disapplicativo che, invece, è riconosciuto al G.O., e, dunque, egli non può che conoscere l’atto amministrativo, sempre e comunque, anche in un processo risarcitorio, che in via principale, non può cioè che conoscerlo ai fini della caducazione, e solo dopo, ed in via subordinata, per così dire, potrà utilizzare tale conoscenza ai fini risarcitori. [20]

Da ultimo, va ricordato come vengano richiamati, a sostegno di tale teoria, alcuni casi pratici nell’ambito dei quali effettivamente si è proceduto, a fini risarcitori, ad un preventivo annullamento, nonché l’art. 13 L. 142/1992, che recepiva la direttiva europea 665/89 in materia di appalti, in cui si disponeva esplicitamente che, per chiedere il ristoro, il soggetto leso dovesse procedere prima alla caducazione dell’atto [21].

 

3.3. Possibili critiche

3.3.1. Il dato letterale

Conclusa la disamina degli elementi fondanti la teoria del previo annullamento, vediamo se essi offrono il fianco a critiche tali da far giungere ad una diversa conclusione.

Innanzitutto, è opportuno cominciare dai dati letterali.

La ricostruzione, operata su di essi dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sarebbe condivisibile se non fosse che le stesse norme si offrono anche ad interpretazioni totalmente diverse, sì da non rendere più così sicuro l’approdo ricostruttivo e interpretativo.

Difatti:

a) in relazione alla equiparazione tra diritto al risarcimento del danno e diritti conseguenziali, può anche sostenersi che essi vengono definiti tali in riferimento, non alla discendenza dall’illegittimità di un atto, ma al rapporto causa – effetto che vi è tra un atto dannoso, quale che esso sia, e la domanda risarcitoria: essi, cioè, in tanto sono conseguenziali, in quanto derivano da un provvedimento lesivo;

b) per ciò che riguarda il richiamo al comma 1 dell’art. 35 D.Lgs. n. 80/98, invece, deve sottolinearsi come non necessariamente tale norma debba indicare una possibile tutela risarcitoria autonoma limitata ai soli diritti soggettivi. Non vi è invero alcun dato sistematico - neanche la citata “espressione avulsa dalla tematica dei diritti conseguenziali” - che può far ritenere, senza alcun dubbio, che la norma vada così interpretata. In buona sostanza, la limitazione ai soli diritti soggettivi di una fattispecie risarcitoria autonoma sembra poggiare, da un punto di vista logico – sistematico, su elementi non univoci e nient’affatto convincenti;

c) l’eliminazione dal campo della giurisdizione ordinaria delle controversie risarcitorie successive all’annullamento può intendersi, piuttosto che come elemento di ancoraggio del risarcimento all’annullamento, molto più semplicemente come norma necessaria al legislatore, nell’ampia riforma attuata, per puntualizzare, una volta che già i diritti consequenziali erano stati devoluti al G.A., che anche le ipotesi “da annullamento” non fossero più riservate al G.O. [22]

Da quanto precede si può evincere come il dato testuale delle norme citate non sia affatto univoco, ma che, al contrario, esso può essere interpretato in senso difforme, se non addirittura contrario, alla ricostruzione operata più sopra (vedi parr. 3.1 e 3.2), ed è perciò che esso non può essere pacificamente utilizzato come elemento determinante per risolvere la questione.

In più, last but not least, a tale ricostruzione si può muovere un piccolo appunto che risulta, forse, determinante.

Nel caso che ne occupa, infatti, sembra di poter rilevare, in maniera sommessa, un errore di fondo: l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98, nei commi richiamati, incide sì sul processo, ma non sul piano dei rapporti tra le azioni devolute alla cognizione del G.A., quanto, piuttosto, più a monte, nella determinazione, cioè, di quali siano tali azioni.

In sostanza, il legislatore, per definire la nuova giurisdizione del G.A., dispone, in maniera molto piana e  non adatta, sembra, ad ulteriori piani di lettura, che a tale giudice spetteranno anche le azioni risarcitorie: non pare che da tale inequivoco dato letterale si possa estrapolare una normativa sui rapporti tra le azioni di competenza di tale giudice.

 

3.3.2. Il dato strutturale

Passando alla valutazione critica degli elementi strutturali, occorre rilevare che, pur riconfermando come i principi informatori del processo amministrativo siano quelli più sopra segnalati, tuttavia, dopo il D.lgs. n. 80/98 e la L. 205/2000, non può più dirsi che tali principi, che hanno una loro piena giustificazione logico – giuridica, siano i soli che caratterizzano il processo davanti al G.A.

Con la legge n. 205 del 2000, infatti, non si è solo ribadita la modifica della giurisdizione, riaffermando le norme ad essa relative del D.lgs. n. 80/98, ma si è, prima di tutto, profondamente modificato il processo amministrativo, avvicinandolo, per certi aspetti, a quello civile.

Nel far questo, ovviamente, si sono cambiate anche le caratteristiche del processo stesso; tra gli altri elementi di novità, giustappunto, si è posto, accanto al generale petitum dell’annullamento, un altro petitum, sempre di carattere generale, e cioè quello risarcitorio.

Ciò non comporta, naturalmente, che gli originari principi siano spariti, o siano stati modificati (in quanto permangono inalterati, e per inalterate ragioni, in relazione al petitum caducatorio), ma ad essi si sono aggiunti altri principi che caratterizzano, specificamente, il giudizio di ristoro.

In buona sostanza, le situazioni giuridiche soggettive, potenzialmente tutelabili davanti al G.A., non vengono più difese solo con l’annullamento di un atto di esse lesivo, ma anche reintegrate, in forma specifica o per equivalente, nella loro consistenza dal risarcimento.

Di questa entreè il carattere subordinato al più vecchio petitum dell’annullamento, non pare cogliersi in maniera inequivocabile in nessun luogo normativo; in quest’ottica, unica condizione del risarcimento del danno, infatti, sembra essere il verificarsi degli elementi indicati dall’art. 2043c.c. ( elemento soggettivo, nesso di causalità, atto non in iure e contra ius), e, difatti, solo ad essi ha fatto riferimento la Suprema Corte nella sentenza 500/99.

Pertanto, il legame di pregiudizialità che si assume esserci, da parte del G.A., fra i due giudizi non pare essere rintracciabile, secondo questa ricostruzione, nei principi più volte ricordati. Essi, infatti, dopo la legge 205/2000, non possono essere ormai ritenuti i soli a informare il processo amministrativo: non può, in definitiva, secondo tale ricostruzione, ritenersi, cioè, ancora l’atto come “solo” oggetto del processo, da cui discendono, necessariamente, termini di decadenza brevi e petitum di solo annullamento.

In questa prospettiva, peraltro, non paiono avere fondamento, le preoccupazioni relative alla elusione del termine di decadenza ed alla mancanza di potere disapplicativo del G.A. che, come è stato osservato, “si basano su argomenti ritagliati sulla falsariga di un ricorso finalizzato all’eliminazione del provvedimento, ovvero di una fattispecie eccentrica rispetto al risarcimento puro” [23].

Se è vero, si sostiene infatti, che la presenza di un termine di decadenza è funzionale alla pronta determinazione dell’intangibilità giurisdizionale di un atto che disciplina in modo stabile i rapporti tra interessi privati e pubblici, è altrettanto vero che tale sbarramento temporale non ha alcuna rilevanza rispetto ad un giudizio risarcitorio che non mette, né intende mettere, in discussione l’esistenza dell’atto [24].

Perciò, la verifica sul piano della legittimità dell’atto nell’ambito di un processo di questo tipo serve solo a determinare un elemento necessario, peraltro da solo insufficiente, al sorgere della fattispecie risarcitoria [25], e non, certamente, a comportarne la eliminazione.

Anche per ciò che riguarda la problematica della mancanza del potere di disapplicazione  in capo al G.A. che lo “costringerebbe” a conoscere dell’atto solo in via principale e, dunque, solo al fine dell’annullamento, si può rispondere in maniera molto simile [26].

Vero è che il G.A. non ha, in via generale, potere disapplicativo e conosce del provvedimento sempre in via principale, ma questa situazione discende, chiaramente, dal fatto che ad esso viene dato un potere di annullamento che è ben più forte della semplice disapplicazione; dunque, non avrebbe avuto alcun senso, né lo ha tuttora, nel processo amministrativo di annullamento, parlare di una conoscenza dell’atto in via incidentale da parte del G.A. che costituisce un minus rispetto all’ipotesi principe [27].

E’ chiaro anche, però, che il discorso cambia notevolmente ora che al G.A. può essere richiesto dalla parte non di sopprimere l’atto ma, più semplicemente, di reintegrare il patrimonio del soggetto; in questo caso deve ritenersi ben evidente come il G.A., alla fine, abbia e, soprattutto, necessiti, solo di un potere di verifica incidentale [28].

 

3.3.3. I casi pratici e l’art. 13 L. 142/1992

Infine, vanno analizzati i casi pratici richiamati dal G.A. per sostenere la necessità del previo annullamento.

Innanzitutto, va sottolineato come essi si riferiscano ad ipotesi precedenti alla nuova normativa sul processo.

In secondo luogo, più specificamente, occorre dire che è vero che, prima del D.Lgs. n. 80/98, ai fini del risarcimento di situazioni di interesse legittimo si procedeva ad annullamento dell’atto illegittimo lesivo, ma va anche sottolineato come tale procedimento fosse reso necessario proprio dal principio di irrisarcibilità degli interessi legittimi.

Come tutti sanno,infatti, attraverso il ricorso alla teoria dei diritti soggettivi affievoliti (o compressi), si consentiva al soggetto leso nel suo interesse di ottenere il risarcimento solo se prima procedeva all’annullamento del provvedimento amministrativo lesivo.

In realtà, ciò che veniva risarcito era il diritto soggettivo ingiustamente compresso; così, una volta accertata l’ingiustizia di tale compressione per il tramite dell’azione di annullamento che, nel contempo, faceva cadere la causa della lesione e della compressione, si procedeva davanti al giudice ordinario per il risarcimento.

Era, quindi, connaturato alla posizione della Suprema Corte ante sentenza 500/99, che si procedesse al risarcimento degli interessi legittimi attraverso questo complesso procedimento che, ricordiamolo, poteva comportare, per ottenere il ristoro della propria situazione giuridica, anche cinque (!) gradi di giudizio.

Compiuto un ben ampio revirement sulla risarcibilità degli interessi legittimi, e fondata la responsabilità della P.A. sull’art. 2043c.c.,la Corte di Cassazione ne trae logiche conclusioni sul piano del rapporto tra azione di annullamento e di risarcimento: le due azioni sono tra loro indipendenti, tanto che, nelle ipotesi fuoriuscenti dalla giurisdizione esclusiva del G.A., ci si può rivolgere al G.O. per il risarcimento, senza alcuna necessità della verifica della legittimità del provvedimento amministrativo svolta davanti al G.A.

Tale verifica, infatti, la compirà, in via incidentale, il G.O. al solo fine di accertare la presenza di uno degli elementi necessari, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per far sorgere il diritto al risarcimento [29].

Peraltro, se tale conclusione della Suprema Corte aveva fondamento quando i due giudizi avevano due giudici, non si vede come, adesso che il giudice è uno solo, i fondamenti su cui essa si basa siano cambiati; anzi, le perplessità che poteva sollevare siffatta impostazione sono state così eliminate, perché non si fa più alcuna differenza fra interessi legittimi compresi o meno nelle giurisdizione esclusiva del G.A.

Un’ultima parola va spesa, infine, per l’art. 13 L. 142/1992.

Lasciando da parte la specificità dei casi cui esso veniva applicato, appalti di soglia comunitaria, ed il fatto che ormai sia stato abrogato, è vero che esso richiedeva l’annullamento dell’atto prima di poter richiedere il ristoro del danno, ma è anche vero che attuava in maniera tutta italiana una direttiva in cui a tale annullamento non si faceva cenno alcuno, dato che nell’ambito della comunità europea la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi è, praticamente, misconosciuta.

La direttiva, in sostanza, prevedeva, tout court, il risarcimento per coloro che in ambito di appalti “comunitari” subissero un danno dalla P.A., affidando ai paesi membri la possibilità di definire il sistema del relativo ristoro.

Il legislatore italiano pensò bene di attuare la norma attraverso un’operazione di mimesi, ed avvicinò tale fattispecie a quelle per cui già si otteneva risarcimento nell’ambito degli interessi legittimi, quelle dei diritti soggettivi affievoliti (o, vista nell’ottica degli interessi legittimi, degli interessi oppositivi), nelle quali si rendeva necessario l’annullamento dell’atto per far riespandere il diritto soggettivo sottostante [30].

Questa scelta del legislatore, dunque, difficilmente può essere intesa come avente carattere generale, sia per il limitato campo cui si riferisce, sia per le motivazioni che ad essa portarono [31].

 

3.4. Conclusioni

Per concludere, non appare né agevolmente né sicuramente sostenibile che l’annullamento sia un presupposto processuale necessario per il risarcimento degli interessi legittimi: lo è l’accertamento dell’illegittimità dell’atto (che, peraltro, non va confusa con l’illiceità), non in quanto, però, funzionale all’eliminazione dell’atto, ma in quanto essa integra un elemento sostanziale della fattispecie risarcitoria ex art. 2043 c.c. [32].

In definitiva, non si ravvisa alcun motivo, né letterale né strutturale, per ritenere necessario il previo annullamento dell’atto lesivo ai fini del risarcimento del danno subito da un soggetto, anche se detta opinione è, allo stato, minoritaria.

 

[1] La questione è stata affrontata più volte nel corso degli ultimi anni dalla giurisprudenza amministrativa: cfr. T.A.R. Sicilia - Palermo, sez. I, n. 3548/2000, non pubblicata; T.A.R. Campania – Napoli, sez. I, Sentenza 27 marzo 2002*, in www.giustamm.it n. 4/2002, con nota di G. Virga, La dimidiazione dei termini prevista dall’art. 4 L. n. 205/2000 e la necessità dell’annullamento dell’atto per chiedere il risarcimento del danno innanzi al Giudice amministrativo; T.A.R. Puglia - Lecce, 6/11/99, n. 769, in Urb. e app., 2000, 303; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 28/03/00, n. 314, in Trib. amm. reg., 2000, 2545; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Sentenza 23 aprile 2001 n. 179*, in www.giustamm.it ed in Dir. proc. amm., 2002, 170, con nota di G. Guidarelli, La pregiudiziale di annullamento nell’azione di risarcimento del danno per esercizio illegittimo della funzione pubblica; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, Sentenza 8 febbraio 2001 n. 603*, in www.giustamm.it ed in Dir. proc. amm., 2001, 1093, con nota di S. Valaguzza, Riflessioni sull’onere di impugnativa del provvedimento illegittimo in un petitum risarcitorio, cui rimandiamo per una esaustiva elencazione degli interventi successivi alla sentenza 500/99, ed in Dir. proc. amm., 2002, 125, con nota di M. Interlandi, “Azione di annullamento ed azione risarcitoria: la regola della pregiudizialità esiste ancora? Alcune riflessioni su una sentenza <<a passo di gambero>>”.

[2] La rilevanza della questione permane attuale, malgrado l’emanazione del T.U. n. 327/2001, in quanto concernente le numerose pregresse fattispecie. Va sottolineato come dal combinato disposto degli artt..12 e 13 del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. sull’espropriazione) si possa evincere come il legislatore abbia scelto di risolvere in maniera radicale le problematiche relative alla dichiarazione di p.u.. Da un lato, infatti, la dichiarazione di p.u. implicita viene talmente generalizzata da rendere difficile ipotizzare fattispecie in cui essa sia, al contrario, esplicita, per cui si rendono residuali anche le ipotesi in cui la dichiarazione possa mancare causando, eventualmente, una carenza di potere; dall’altro lato, viene stabilito che la dichiarazione di p.u. può (non deve) contenere il termine entro il quale va eseguito il decreto di esproprio, e, ove mancasse tale indicazione, va applicato ex lege il termine di cinque anni decorrente dalla data in cui diventa efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera. Dunque, non più, in pratica, ipotesi in cui la dichiarazione di p.u. possa mancare (salvo, ovviamente, che manchino gli atti da cui essa deriva implicitamente, o salvo meri comportamenti apprensivi della P.A.), e non più ipotesi in cui manchino i termini della dichiarazione medesima. L’unica ipotesi patologica che il legislatore sembra lasciare sul campo, dunque, è quella della scadenza del termine entro cui il decreto di esproprio deve essere adottato, e che determina l’inefficacia della dichiarazione di p.u. medesima.

[3] In quest’ambito normativo va citato, peraltro, anche l’art. 834 c.c. che richiede, sempre ai fini dell’espropriazione, una causa di pubblico interesse “legalmente dichiarata”.

[4] Vignale, Espropriazione per pubblica utilità e occupazione illegittima, Napoli, 1998, 147; sul punto in termini G. Alpa – M. Bessone, Il privato e l’espropriazione, Milano, 1998, p. 102 e segg.

[5] Sandulli, Lesione di diritti soggettivi per l’esercizio di “potestas publica nondum data”, in Giust. Civ. 1958, 2030; Id., Mancanza della dichiarazione di p.u. e potere di espropriazione, ivi 1960, I, 881; Delfino, Dichiarazione di pubblica utilità e giurisdizione ordinaria, in Riv. Giur. Ed. 1965, I, 1273; in giurisprudenza, Cass. 16/04/1984 n. 2435.

[6] Cannada Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, pp. 92 ss, 98 – 110; Id., In margine al criterio tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, in Foro amm., 1958, II, 1, 836 ss.; Giannini, La giustizia amministrativa, Bologna, 1976, p. 164; in giurisprudenza, ex plurimis,  Cons. Stato Ad. Plen. 25/02/1975, n. 2, in Foro it., 1975, III, 248; Cons. Stato, sez. IV, 30 /11/1992, n. 990, in Cons. Stato, 1992, 1533.

[7] Nello stesso senso si è mosso il legislatore nel T.U. sull’espropriazione del 2001, nel quale le ipotesi di una mancanza della dichiarazione di p.u., attraverso l’estensione della dichiarazione di p.u. implicita, vengono ad avere carattere residuale.

[8] Sentenza 27 dicembre 1991 n. 486, in Giust. civ., 1992, I, 580, Foro it., 1992, I, 10773 con nota di S. Benini, Il riconoscimento dell’occupazione appropriativi, in Giur. It., 1992, I, 1, 1648, Riv. Giur. Edilizia, 1992, I, 16, ed in Cons. Stato, 1991, II, 2030.

[9] Corte Cost. 6/07/1966, n. 90, in Foro It., 1967, I, 177; 21/12/1985 n. 355, idem, 1987, I, 1378; 3/03/1988 n. 257, in Giur. Costit., 1988, 1074.

[10] Vignale, cit. Cons. Stato, sez. IV, 21/01/1987 n. 27, quest’ultima in Foro amm., 1987, 39, ed in Cons. Stato, I, 17; Cons. Stato, sez. IV, 6/03/1963 n. 130, in Cons. Stato 1963, I, 335. D’altronde, va ribadito, non potrebbe essere altrimenti, dato che il Consiglio di Stato ritiene immanente alla proprietà il carattere dell’assoggettabilità all’interesse generale, sicché neanche la mancanza dell’intera dichiarazione determina un’ipotesi di carenza di potere.

[11] Lo stesso Consiglio di Stato (Sez. IV, n. 2 del 19/01/2000), non ha mancato di evidenziare il rilievo costituzionale della fissazione dei termini nella dichiarazione di p.u., sottolineando proprio l’impossibilità di mantenere soggetta a tempo indeterminato la proprietà, ed anche la necessità della realizzazione dell’opera in un arco di tempo congruo per l’interesse generale: quello che non si intende è come mai tali affermazioni comportino nell’ipotesi prospettata, solo un cattivo esercizio del potere.

[12] La sentenza del TAR Palermo (n. 3548/200) che abbiamo preso a riferimento si inscrive in un novero ben folto di decisioni giurisprudenziali che non hanno accolto la prospettazione della sent. 500/99: cfr. le sentenze citate alla nota 2.

[13] Conforme il più recente TAR Napoli n. 1651/2002, cit, che così letteralmente si esprime: “La necessità del previo annullamento deriva inoltre anche dalla espressione dell’art. 7 L. 205/2000, che prevede che il G.A., nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso le reintegrazione in forma specifica; il riferimento ai <<diritti patrimoniali conseguenziali>> è stata ritenuta una conferma normativa della dipendenza nel sistema della azione risarcitoria da quella di annullamento”

[14] Cfr. G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in Dir. proc. amm., 2001, 287.

[15] Cfr. nota n. 1

[16] Nel commento a tale sentenza G. Virga, pur mostrandosi sostanzialmente concorde con le tesi del Tar campano, rimarca come tale problematica debba essere riferita alle sole ipotesi in cui la situazione soggettiva lesa sia un interesse legittimo: difatti, sostiene l’A., nulla quaestio qualora si tratti di diritti soggettivi, nel senso che in tale ipotesi il G.A. si dovrebbe comportare come si comportava il G.O. prima della riforma relativa al riparto di giurisdizione e, dunque, disapplicare il provvedimento lesivo del diritto soggettivo e riconoscere la possibilità del risarcimento ben al di là dei termini di impugnazione dell’atto stesso.

Da tale chiara impostazione della questione dovrebbe trarsi l’ulteriore conseguenza che, nell’ipotesi di scadenza del termine per l’emanazione del decreto di esproprio, divenuta inefficace la dichiarazione di p.u., il diritto di proprietà si riespande e, dunque, di esso si potrà chiedere il ristoro nei termini prescrizionali, senza alcuna necessità di previo annullamento del provvedimento lesivo.

Giova ancora soggiungere in proposito che in base alll’art. 68 D.L.vo n. 29/1993, come modificato dal D.L.vo n. 80/1998, “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni….., ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi”.

[17] In forma praticamente identica esprimeva quest’ultimo concetto lo stesso TAR campano nella sentenza n. 603/2001, cit.

[18] Tale impostazione ancora veniva ribadita nell’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. del 2000, in cui il G.A. veniva considerato come “giudice degli atti e dei comportamenti della pubblica amministrazione, per i quali deve sempre tenersi conto di principi del diritto pubblico”

[19] Va sottolineato, peraltro, come il Tar campano ritenga, giustamente, proponibile l’azione risarcitoria “ insieme o dopo il buon esito di precedente domanda di annullamento”.

[20] Cfr. P. Virga, Pregiudizialità dell’azione di annullamento rispetto a quella di risarcimento, in www.giustamm.it, n. 5/2002, in cui l’esimio A. ritiene, dandone conto fin dal titolo, la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento In merito alla disapplicazione l’A. ritiene che: “Qualora l’istituto di disapplicazione venisse esteso anche alla giurisdizione amministrativa di legittimità verrebbe meno il principio della osservanza dei termini per l’impugnazione che costituisce un caposaldo per la stabilità e la certezza delle situazioni giuridiche”.

[21] Cfr. T.A.R. Campania – Napoli n. 1651/2002, e T.A.R. Campania, Napoli n. 603/2001, cit.

[22] Del resto, dove il legislatore ha voluto mantenere la giurisdizione del G.O. si è esplicitamente pronunciato: cfr. art. 34 D.Lgs. n. 80/98, comma 3.

[23] F. Caringella, Rapporti tra annullamento e risarcimento alla luce del D.Lgs. n. 80/98, in Nuova giurisdizione del giudice amministrativo, Quaderni del Consiglio di Stato,Torino, 2000, 106; lo stesso concetto viene viene espresso in F. Caringella – G. De Marzo – F. Della Valle – R. Garofoli, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dopo le legge 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2000, p. 527 e segg.

[24] cfr. F. Caringella, cit. Peraltro, va sottolineato come vi sia un caso in cui, effettivamente, alla richiesta risarcitoria, si accompagna un vero rischio di elusione dei termini di decadenza, ed è quello della reintegrazione in forma specifica quando essa si sostanzi in un annullamento dell’atto (è il caso degli interessi oppositivi che si ritengono soddisfatti quando lo status quo non venga alterato, rectius quando venga ripristinato), id est, quando l’interesse leso venga risarcito in forma specifica attraverso la semplice soppressione dell’atto lesivo. In questi casi è chiaro che, siccome legata alla eliminazione giuridica dell’atto, la riparazione del danno dovrà essere legata alla decadenza, non potendosi pretendere, per ovvi motivi, che sia toccato un provvedimento che, ormai, per l’ordinamento è divenuto intangibile.

[25] Tali elementi sono, lo ricordiamo: un elemento soggettivo (dolo o colpa); un fatto illecito, cioè non in iure e contra jus, il danno, ed il nesso di causalità fra questi ultimi.

[26] Ovviamente, come sottolinea Virga G., cit., il problema neanche si pone si verte in tema di giurisdizione esclusiva , nell’ambito di essa, di diritti soggettivi, cfr. nota 16.

[27] In relazione alla problematica relativa al potere disapplicativo del G.A. occorre fare una precisazione: in primo luogo, va ricordato che, per ciò che riguarda atti amministrativi quali i regolamenti, si può ritenere ormai pacifica l’opinione per la quale il giudice amministrativo goda del potere di disapplicazione. Analogamente, tralasciando la problematica relativa alla verifica dei suoi effetti – se erga omnes o meno – potrebbe riconoscersi al G.A. lo stesso potere in via generale, cioè riferendolo a qualsiasi tipo di atto amministrativo del quale, anche se non impugnato ai fini dell'annullamento, il G.A. venga tuttavia a conoscenza al diverso fine del ristoro patrimoniale ( ferma restando, quindi, l'esistenza del provvedimento, che non viene annullato, ma solo disapplicato). Per ciò che riguarda la disapplicazione dei regolamenti, cfr. Cons. Stato sez.VI, 26/01/1999 n. 59, in Studium Juris, 1999, 578, ed in Giur. it., 1999, 1534; Cons. Stato sez. IV, 24/03/1998 n. 498, in Foro amm.,1998, 698, e T.A.R. Emilia Romagna sez. Parma, 9/02/1999 n. 81, in Giur. merito, 2000, 942, con nota di Ancora; cfr. anche A. Liverani, La disapplicazione nel processo amministrativo, in Studium Juris, 1998, 1240; G. Romeo, La disapplicazione dei regolamenti illegittimi: una pratica giudiziale dagli esiti incerti, in Dir. proc. amm., 1/1998, 11, e C. Ferrari – M. Airoldi, La disapplicazione del regolamento da parte del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm, 1/1998, 27.;

[28] Ancora il Caringella, op. cit., pag. 110, sottolinea come, tra l’altro, “ancora più a monte si può discutere circa la sussunzione di questa verifica di illegittimità nello spettro del congegno disapplicativo. Sembra più coerente ritenere che, una volta dilatato il concetto di ingiustizia del danno fino a comprendervi quello cagionato dalla illegittima compressione di interessi legittimi, la verifica della illegittimità non si concreti in una disapplicazione, ossia nel considerare tamquam non esset la statuizione amministrativa come nel meccanismo forgiato dagli artt. 4 e 5della LAC ma, per certi versi, all’incontrario, nell’esaminare i  presupposti del fatto illecito ex art. 2043 c.c., con particolare riguardo all’ingiustizia della fattispecie, ossia alla constatazione che l’atto ha prodotto un effetto, quello di violentare contra jus il patrimonio giuridico dell’interessato. Mutuando una parabola argomentativa in tema di distinzione tra invalidazione e disapplicazione dei regolamenti, non si tratta di considerare l’atto come se non avesse prodotto alcun effetto ma, all’inverso, di verificare che ha prodotto un effetto nefasto, la cui perniciosità si intende elidere sul piano risarcitorio”.

[29] Questa ricostruzione della Suprema Corte ha quasi portato, coloro che si ritenevano lesi dalla P.A., a sperare di essere titolari di interessi legittimi che non rientrassero nella giurisdizione esclusiva del G.A., il quale chiedeva il previo annullamento dell’atto lesivo, di talché essi potessero procedere a richiederne la reintegrazione senza passare dalla soppressione dell’atto. Tanto che si poteva parlare di interessi legittimi maggiormente tutelati ove non affidati alla giurisdizione esclusiva del G.A., suscitando, per questo verso, strane sensazioni negli operatori del diritto amministrativo.

[30] Della stessa opinione è G. Virga, cit.

[31] Tra le quali non va nascosto il tentativo di evitare che l’art. 13 potesse essere la “termite comunitaria” che facesse cadere il muro della irrisarcibilità degli interessi legittimi, ipotesi estremamente pericolosa soprattutto per le asfittiche casse dello Stato.

[32] A queste considerazioni ne va aggiunta una di fondo sui riflessi che la situazione giuridica, che si fa valere con la richiesta di risarcimento del danno, ha sui termini dell’azione: il diritto al risarcimento del danno è, invero, pacificamente un diritto soggettivo. Preliminarmente, in quest’ambito, va ricordato come, in relazione ai diritti soggettivi che cadono nell’ambito della giurisdizione del G.A., si distingua, al fine di determinare quali termini applicare, tra atti autoritativi e paritetici: nel primo caso si applicheranno i termini di decadenza, nel secondo quelli di prescrizione. In quest’ottica, dunque, sembrerebbe necessario capire se l’azionato diritto al risarcimento derivi da atti autoritativi o paritetici; ma non è così. Occorre, infatti, intendere come il diritto al risarcimento non sia affatto toccato da atti o provvedimenti amministrativi: essi, riguardano, invece, altre situazioni giuridiche soggettive, altri diritti o interessi legittimi, ma mai, direttamente, il diritto al risarcimento. Esso, infatti, nasce dalla lesione che tali atti producono a tali situazioni giuridiche e, dunque, ne è una conseguenza indiretta, patologica: potremmo dire che nasce a causa dell’atto , ne è sua conseguenza non voluta e, proprio per questo, non è, né può essere, oggetto dell’atto.

Da ciò discende che, al fine di trovare una soluzione al problema dei termini, non può farsi affidamento sul tipo di atti da cui il diritto deriva come involontario effetto.

Dunque, il valore di diritto soggettivo del risarcimento è un valore da prendere in sé, senza alcuna relazione con l’attività amministrativa: per concludere, ad esso andranno applicati i termini che, nella normalità della loro esistenza, si applicano ai diritti soggettivi, quelli prescrizionali.

Per ulteriori riferimenti v. la pagina di approfondimento.

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