Giustizia amministrativa

Articoli e note

Maurizio Borgo
(Procuratore dello Stato)

Un’attesa andata un po' delusa.
Prime riflessioni sulla sentenza 30 aprile 1999 n. 148 della Corte Costituzionale.

Dopo tanta attesa (due anni e mezzo dalla precedente pronuncia n. 369/96) è stata depositata, in data 30 aprile, la sentenza della Corte Costituzionale, con la quale sono state decise le numerose questioni di legittimità costituzionale, sollevate da diversi giudici di merito, in ordine alla norma contenuta nel comma 7-bis aggiunto all’art.5-bis del D.L. 11.7.92, n.333 (convertito nella legge 8.8.92, n.359), dall’art.3, comma 65, della legge 23.12.96, n.662.

Occorre dire, subito, che l’attesa, più sopra evidenziata, è andata un po' delusa; una delusione, che non riguarda la conclusione finale, cui è pervenuta la Consulta, ovvero la infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sottoposte al suo esame, bensì il contenuto della decisione. Il lungo tempo, trascorso tra l’emanazione delle prime ordinanze di rimessione quella originaria del giudice istruttore del Tribunale di Lecce, porta, addirittura, la data del 19.2.97) ed il deposito della sentenza autorizzava a sperare in ben altra decisione.

Come avremo modo di illustrare, più avanti, la Corte non ha dato risposta ovvero ha dato risposta parziale ad alcune delle questioni, sollevate dai giudici a quibus.

Ma veniamo, adesso, all’esame della pronuncia in commento.

La Corte Costituzionale era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del criterio, dettato dal legislatore sul finire del 1996, per la determinazione del risarcimento del danno, dovuto a seguito del perfezionarsi della fattispecie, di creazione pretoria, della c.d. "occupazione acquisitiva" o "accessione invertita", che dir si voglia.

Un criterio, quello di cui sopra, forgiato dal legislatore, sulle ceneri di quello introdotto, soltanto un anno prima, con l’art.1, comma 65 della legge 28.12.95, n.549, e dichiarato incostituzionale con sentenza 2.11.96 n.369.

Ed, invero, il legislatore, nel prendere atto della pronuncia, da ultima citata, con la quale i giudici della Consulta avevano censurato l’equiparazione fra criterio di commisurazione dell’indennità di esproprio e criterio di determinazione del risarcimento del danno per occupazione acquisitiva, aveva previsto, con il citato art.5 bis, comma 7 bis , della legge n.359/92, che "in caso di occupazione illegittima di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40%. In tal caso, l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10%".

La nuova formulazione del criterio di calcolo dell’ammontare del risarcimento del danno, dovuto a seguito di occupazione illegittima, non ha incontrato il favore della dottrina e della giurisprudenza; quest’ultima, anzi, si è affrettata a sollevare, con numerosissime ordinanze, una serie di questioni di legittimità costituzionale che la Corte Costituzionale ha deciso, con la sentenza in commento.

La conclusione, cui sono pervenuti i giudici della Consulta, è stata quella della infondatezza delle predette questioni.

Una conclusione, quest’ultima, che può definirsi prevista se non addirittura scontata.

La Corte, infatti, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art.5 bis, comma 6, della legge 8.8.92, n.359, introdotto dall’art.1, comma 65, della legge 28.12.95, n.549, con il quale, come detto più sopra, era stata sancita l’equiparazione fra criterio indennitario e criterio risarcitorio, aveva già indicato al legislatore, la soluzione da adottare, al fine di non incorrere in nuove censure di costituzionalità.

Una circostanza, quest’ultima, che i giudici della Consulta hanno voluto evidenziare nella pronuncia in commento; ed invero, al punto 5 della sentenza, la Corte richiama, pedissequamente, un passo della decisione del 1996, nella quale si affermava che, nel caso delle occupazioni acquisitive "sussistono in astratto gli estremi giustificativi di un intervento normativo ragionevolmente riduttivo della riparazione, dovuta dalla Pubblica Amministrazione al proprietario dell’immobile che sia venuto ad essere così incorporato nell’opera pubblica".

Eccola la soluzione, eccolo il cammino, indicato dalla Corte Costituzionale quale novella "stella cometa"; ed è proprio questo cammino che il legislatore ha percorso formulando il nuovo criterio risarcitorio; un criterio, cui i giudici costituzionali plaudono: "alla stregua dei criteri riconfermati dalla citata sentenza n.369 del 1996, deve ritenersi ragionevole la riduzione imposta dalla norma denunciata, essendosi realizzato un equilibrato componimento dei contrapposti interessi in gioco, con l’eliminazione della ingiustificata coincidenza dell’entità dell’indennizzo per l’illecito della Pubblica Amministrazione con quello relativo al caso di legittima procedura ablatoria". L’approvazione della Corte per l’operato del legislatore è totale ed incondizionata; e sta, proprio, in questo, il limite della decisione, in commento; quel limite che ha prodotto, in chi scrive, una certa delusione nel leggere la motivazione della sentenza.

La Corte, infatti, tutta presa dal sentimento di compiacimento per la soluzione normativa, adottata dal legislatore, ma soprattutto da un sentimento di autocompiacimento, per il fatto di aver indicato quella soluzione, non si è peritata di dare una risposta alle questioni, sollevate dai giudice a quibus.

I giudici costituzionali non dicono, in particolare, perché un criterio risarcitorio, parametrato su quello previsto per la commisurazione dell’indennità di esproprio, con la sola esclusione dell’abbattimento del 40% e con un’ulteriore addizione del 10%, si traduca in una "ragionevole riduzione della misura della riparazione dovuta"; essi si limitano ad affermare che "la valutazione dell’incremento (non irrisorio, né meramente apparente) a favore del privato danneggiato, risultante dalla norma denunciata - nei termini sottolineati - rispetto alla previsione largamente riduttiva della precedente norma colpita da dichiarazione di illegittimità costituzionale, vale ad escludere quella irragionevolezza ritenuta nella precedente formulazione normativa e fondata essenzialmente nella predetta coincidenza (ora eliminata con apprezzabile differenziazione) di indennità in caso di illecito e di procedura legittima dell’amministrazione".

Trattasi di un giudizio di ragionevolezza, condotto in termini negativi e con lo sguardo rivolto al passato: il nuovo criterio risarcitorio è ragionevole in quanto non è più fondato sulla coincidenza tra indennità di esproprio e risarcimento del danno, prevista in precedenza.

Questo basta; che, poi, il nuovo criterio, introdotto dal legislatore, si risolva, come evidenziato da alcune delle ordinanze di remissione, in una "identità sostanziale di trattamento delle due fattispecie (espropriazione legittima ed occupazione acquisitiva) derivante dalla circostanza che, nel secondo caso, l’indennità (rectius: il risarcimento) viene aumentata del solo 10 per cento, mentre la esclusione della decurtazione del 40%, decurtazione prevista nei casi di espropriazione, viene in tali ipotesi ottenuta ugualmente attraverso la cessione volontaria dei beni, che non è possibile in caso di occupazione acquisitiva", non conta.

Ciò che era importante, per la Corte, è che il legislatore introducesse un criterio formalmente differente da quello dichiarato incostituzionale nel 1996 e non, invece, che prevedesse un criterio risarcitorio effettivamente rispettoso del principio di ragionevolezza che deve, sempre, guidare l’attività legislativa.

La delusione, che traspare dalle precedenti considerazioni, si traduce, poi, in rammarico, ove si pensi che la Corte Costituzionale ha perso un’ottima occasione, per dire, in positivo, sulla base di quali criteri il legislatore possa limitare il "quantum" risarcitorio, per le ipotesi in cui la Pubblica Amministrazione cagioni un danno nell’espletamento della propria attività amministrativa.

Ed, invero, contrariamente a quanto affermato dal primo autorevole commentatore della sentenza costituzionale in esame (ci riferiamo alla nota redazionale, pubblicata sulla rivista on line Giustizia Amministrativa, a firma del Prof. G. Virga, in data 4.5.99), la fattispecie della occupazione acquisitiva, sebbene si concreti in un illecito, perpetrato dalla P.A. ai danni di un privato, costituisce, come ormai pacificamente affermato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, un modo di acquisto della proprietà di natura pubblicistica, che trova il proprio indefettibile ed imprescindibile presupposto in una valida dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da realizzare.

Ci sembra, pertanto, di poter dissentire con quanto affermato dall’Autore, sopra menzionato, ovvero che "l’occupazione costituisce un fatto illecito e l’amministrazione stessa finisce per agire iure privatorum", ed, ancora, che " il principio affermato (ovvero la non coincidenza fra ammontare del risarcimento del danno dovuto dalla P.A., nell’ipotesi di occupazione acquisitiva, ed ammontare dovuto da qualsiasi privato) è pericoloso perché finisce per giustificare, limitazioni della responsabilità per danni che l’amministrazione cagiona senza più l’ombrello dei poteri pubblicistici alla stessa conferiti".

La fattispecie, di creazione pretoria, dell’occupazione acquisitiva presuppone, invero, la presenza di un "ombrello" pubblicistico, rappresentato dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera; è, proprio, la presenza di questo atto che, come noto, è stato definito dalla giurisprudenza "pietra angolare" di qualunque procedura espropriativa, a consentire di considerare acquisita alla mano pubblica la proprietà dell’area sulla quale è stata realizzata l’opera pubblica, con sovvertimento dei principi, dettati in materia di accessione.

La conferma che, solo in presenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, possa parlarsi di occupazione appropriativa, viene, proprio, dalla stessa Corte Costituzionale che, richiamando l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione (ribadito, da ultimo, con la sentenza della Sezione I, n.6515 del 16 luglio 1997), ha affermato che non rientra tra le fattispecie, riconducibili alla figura dell’occupazione acquisitiva, il caso rappresentato dall’occupazione di un suolo privato, posta in essere in mancanza di una valida dichiarazione di pubblica utilità ( cui viene equiparato il caso di annullamento, da parte del giudice amministrativo, della stessa dichiarazione).

In siffatta ipotesi, com’è noto, la Corte di Cassazione ha affermato il diritto del privato al risarcimento del danno, in forma specifica, ovvero il diritto alla restituzione del fondo di sua proprietà nell’originario stato; diritto, cui il privato, con scelta abdicatoria, può rinunciare, al fine di ottenere il risarcimento del danno per equivalente; danno, questo ultimo, che dovrà essere calcolato secondo i criteri ordinari, proprio perché, in questa ipotesi, la Pubblica Amministrazione risulta avere agito in assenza "dell’ombrello dei poteri pubblicistici alla stessa conferiti".

Prima di chiudere queste prime riflessioni sulla sentenza 30 aprile 1999, n.148, ci sia consentito evidenziare come la Corte non abbia dato una risposta esaustiva ad un dubbio, sollevato dal Tribunale di Potenza, ovvero che il criterio risarcitorio, introdotto con la legge n.662/96, potesse valere anche per le ipotesi di occupazione acquisitiva aventi ad oggetto suoli a vocazione agricola.

La Corte Costituzionale, invero, si è limitata ad affermare che "quanto alla lamentata disparità di trattamento rispetto ad altri casi relativi ai suoli agricoli è sufficiente rilevare che sotto il profilo costituzionale non è preclusa la possibilità di diversi regimi espropriativi e di calcolo dell’indennizzo in relazione alle differenti categorie di beni espropriati ed alle diverse finalità dell’intervento pubblico che può esigere un diverso bilanciamento dei contrapposti interessi pubblici e privati".

Trattasi di considerazioni che, seppure corrette, non sembrano dare risposta al dubbio, menzionato in precedenza, che aveva indotto il Tribunale di Potenza a denunciare l’llegittimità della norma la quale avrebbe determinato una disparità di trattamento tra le ipotesi di espropriazione legittima di suoli agricoli o non edificabili. - rispetto ai quali l’indennizzo viene commisurato, ai sensi del comma 4 dall’art.5-bis della legge n.359/92, al valore agricolo medio e quindi secondo un criterio prossimo a quello venale - ed i casi di occupazione illegittima degli stessi, in cui l’ammontare del risarcimento dovuto sarebbe quantificato ad un livello inferiore al valore venale del bene.

Il dubbio rimane e va ad unirsi a quel senso di delusione che ci ha pervasi, durante la lettura della sentenza, e che queste pagine di commento non hanno fatto che acuire.

 

 

Brevi precisazioni

 

Ho letto con estremo interesse il sopra riportato articolo dell'Avv. dello Stato Borgo, che è stato pubblicato subito nel sito. Poiché, tuttavia, in esso si afferma che io avrei ignorato - nelle brevi note di commento redatte in precedenza - quanto "ormai pacificamente affermato dalla giurisprudenza e dalla dottrina" circa la occupazione acquisitiva, mi vedo chiamato in causa e sono costretto a fare delle sintetiche precisazioni a chiarimento del mio (forse errato) pensiero.

Occorre partire da una premessa, sulla quale i lettori (ivi compreso l'Avv. Borgo) penso converranno: la c.d. "occupazione acquisitiva" costituisce non un istituto giuridico disciplinato da norme, ma una complessa costruzione (rectius: un'invenzione giurisprudenziale) assai contorta, discutibile e niente affatto pacifica (basti ricordare i continui ondeggiamenti della S.C. in materia di decorrenza del termine di prescrizione dell'azione risarcitoria).

L'accessione invertita, tuttavia, nasce in funzione del valore prevalente che viene dato nel nostro ordinamento all'opera pubblica rispetto alla proprietà del suolo e non già (così come afferma categoricamente l'Avv. Borgo) in funzione di una dichiarazione di pubblica utilità rimasta senza alcun seguito. Ciò è comprovato inequivocabilmente non solo dalla circostanza (ammessa anche dallo stesso Avv. Borgo) che l'accessione invertita "costituisce un illecito, perpetrato dalla P.A. ai danni di un privato" e deriva dunque da un fatto e non già da un atto, ma anche dalla circostanza che, secondo il prevalente orientamento, si realizza l'accessione invertita anche nel caso di mancanza di dichiarazione di p.u. ovvero nel caso di dichiarazione di p.u. annullata in sede giurisdizionale. Anche in questi casi, infatti, quello che giustifica l'acquisto a titolo originario della proprietà da parte dell'Ente pubblico è non già la dichiarazione di p.u. (che nelle ipotesi in questione addirittura manca o che è venuta meno successivamente) ed i relativi poteri pubblicistici, ma è il semplice fatto della realizzazione dell'opera pubblica ed il suo valore preminente rispetto alla proprietà privata.

Non sta logicamente in piedi, invece, l'orientamento (al quale fa pur cenno l'Avv. Borgo) di quella parte della giurisprudenza secondo cui, nelle ipotesi considerate, non si verrebbe a realizzare una occupazione acquisitiva, avendo il proprietario l'alternativa tra l'esecuzione in forma specifica (e cioè la restituzione del bene ivi compresa l'opera pubblica)ovvero ("con scelta abdicatoria") il risarcimento del danno. Non ha senso infatti restituire un terreno con l'opera pubblica (ad es. una strada) al proprietario. Ed ha ancor meno senso ritenere che il proprietario può "abbandonare" il proprio  bene chiedendo il solo risarcimento. La proprietà si perde o si acquista, nel nostro sistema giuridico, o a titolo originario (ad es. per effetto di accessione o usucapione) o in via derivativa. Ritenere che la proprietà venga persa dal proprietario e venga acquistata dall'Ente pubblico "per abbandono" mi sembra una mostruosità giuridica e comunque un non senso. Anche nelle ipotesi considerate (mancanza di dichiarazione di p.u. o dichiarazione ritenuta illegittima), quindi, la proprietà viene acquistata dall'Ente in virtù della figura dell'accessione invertita, per il prevalente valore da attribuire ad un'opera che ha natura pubblica.

Nel caso di occupazione acquisitiva, dunque, non viene in gioco una dichiarazione di pubblica utilità la quale non è stata seguita dalla emissione di un decreto di esproprio o che, nei casi appena menzionati, può addirittura mancare, ma, ripeto, un semplice fatto illecito (irreversibile trasformazione del fondo) e la prevalenza accordata dal nostro ordinamento (anche costituzionale) all'opera pubblica. Se così è, come mi sembra indubbio a dispetto di quanto sarebbe stato "ormai pacificamente affermato dalla giurisprudenza e dalla dottrina", rimangono immutate le affermazioni contenute nelle mie precedenti note. La prevalenza dell'opera pubblica (rectius: il valore prevalente accordato alle oo.pp.) rispetto alla proprietà privata può infatti giustificare, anche sotto il profilo costituzionale, una eccezione solo con riferimento all'istituto dell'accessione, disciplinato dal codice civile, non già la riduzione dell'ammontare del risarcimento. Quest'ultimo diritto, nel caso in questione, nasce per effetto di un semplice fatto illecito (irreversibile trasformazione del fondo) e non già di un atto amministrativo (dichiarazione di p.u.) che, peraltro, costituisce solo l'atto iniziale di un ben più complesso procedimento non concluso e che, nel caso di irreversibile trasformazione così come anche nel caso in cui tale trasformazione non sia avvenuta (decorso il termine massimo dell'occupazione d'urgenza), rimane privo di effetti.

Le note redatte in precedenza, peraltro, hanno posto un quesito al quale l'Avv. Borgo non ha dato alcuna risposta, rilevando come nella stessa sentenza n. 148/99 vi è, a mio sommesso avviso, una (non apparente ma) stridente contraddizione tra quanto affermato circa i casi di mancanza di dichiarazione di p.u. (o di dichiarazione poi annullata in s.g.) - per i quali il risarcimento da corrispondere è pieno ed integrale - ed i rimanenti casi  - nei quali, invece, per effetto della disciplina ritenuta legittima, il risarcimento è dimidiato (o quasi). Se, infatti, in entrambi i casi l'unico fatto che viene in rilievo è la irreversibile trasformazione del fondo, che può giustificare solo una diversione rispetto all'ordinaria disciplina dell'accessione (per effetto della cennata prevalenza dell'opera che ha natura pubblica e non già per l'esercizio di poteri pubblicistici), perché prevedere forme di risarcimento così diverse ? Se, così come ho cercato appena di evidenziare, la dichiarazione di p.u. rimasta senza esito non viene in rilievo in sede di accessione invertita, essendo invece rilevante il valore prevalente dell'opera pubblica, come si giustifica una così palese diversità di trattamento ?

Con questo quesito, rimasto ancora senza risposta, concludo queste mie note, chiedendo venia ai lettori per l'ulteriore digressione. Ma non si tratta di mera accademia, come ben sanno tutti quei proprietari ai quali è capitata la (s)ventura di subire una occupazione acquisitiva e che si vedono, dopo cause durate moltissimi anni ed innumerevoli consulenze tecniche, dimezzato l'ammontare del risarcimento danni con il contentino di un 10% in più, ritenuto costituzionalmente legittimo (e fors'anche suggerito) dal Giudice delle leggi.

(G.V., 28-05-1999)